ECONOMIA-MONDO

 

La tirannia dell'unico grande mercato

 

 

A cura di *Riccardo Petrella

Marzo 1998

 

L' ECONOMIA mondiale di oggi è guidata dal vangelo della competitività e dalla santa trinità della liberalizzazione, della deregolamentazione e della privatizzazione. Queste sono state le scelte dei gruppi dirigenti di Stati uniti, Europa e Giappone, delle imprese private più potenti e degli organismi internazionali come Banca mondiale, Fondo monetario e Organizzazione mondiale per il commercio.

 

Si punta a creare un solo grande mercato mondiale integrato e autoregolatore, e l'avvenire del mondo visto essenzialmente in termini di ingrandimento e integrazione dei mercati. Ma la costruzione attuale del mercato mondiale passa attraverso guerre tecnologiche, industriali, commerciali e finanziarie, e la guerra della competitività spinge le imprese a spostare le produzioni dove i costi del lavoro sono più bassi e i profitti più alti, e spinge i governi a cancellare diritti e politiche sociali.

 

I governi e le classi dirigenti di tutti i paesi stanno tentando di imporci l'idea (e forse ci sono già riusciti) che non è vero che i diritti sociali siano inerenti alla persona, come si era pensato finora, dopo tante lotte del diciannovesimo e del ventesimo secolo. Questi diritti vengono ora a dipendere dall'osservazione dei doveri e dalle condizioni dell'economia.

 

Le persone vengono ridotte a risorse umane dell'impresa. E quindi si ha diritto al lavoro solo se si è una risorsa umana redditizia. Non solo qui e ora, ma in confronto ad altre risorse umane. Così gli operai italiani o tedeschi sono messi in competizione con quelli della Polonia o del Brasile, che costano alle imprese dieci, cento, cinquecento volte di meno. Ecco perché c'è bisogno che il mercato del lavoro sia liberalizzato: perché così le imprese possono fare il migliore confronto possibile tra le risorse umane più redditizie. Chi non è più redditizio non è più impiegabile, e chi non è più impiegabile non avrà lavoro.

 

Non dimentichiamoci che avere un lavoro oggi significa avere accesso al reddito, sia con il salario, sia con i trasferimenti sociali, pensioni, assistenza sanitaria, e così via, che spesso sono ugualmente importanti dei salari monetari. Senza accesso al lavoro è tutto un equilibrio sociale che salta, siamo a un'economia che non tiene conto delle persone. E il potere politico si svuota: la democrazia rappresentativa diventa una conchiglia vuota, e il cittadino ha l'impressione di non esistere, di gridare senza essere ascoltato. Invece, se i mercati finanziari gridano, tutti quanti sono lì ad ascoltarli. Più della gente, contano ormai i capitali. Nel 1989 quasi tutti i mercati dei capitali sono stati liberalizzati e la moneta ha cessato di essere uno strumento dei governi per regolare l'economia nazionale, sostenere gli investimenti, stimolare i consumi, realizzare politiche sociali. Le monete oggi sono merci come tutte le altre: si acquistano e si vendono le monete come le automobili, le tonnellate di grano, i milioni di metri cubi di gas. Ogni giorno vengono scambiati sui mercati finanziari 1.500 miliardi di dollari, e per il 90 per cento si tratta di operazioni che speculano sulle variazioni dei cambi, mentre solo il 10 per cento serve a finanziare attività economiche.

 

Un esempio estremo è quello dei fondi pensione. I contributi sociali dei lavoratori americani o inglesi sono diventati ormai parte del mercato dei capitali mondiali. Gli accantonamenti che la gente ha accumulato non restano più nei paesi di origine, non sostengono più le economie e il lavoro, ma vagano in tutto il mondo alla ricerca di occasioni di profitto.

 

In passato si riconosceva che le società, per utilizzare in maniera ottimale le risorse materiali e immateriali, avevano a disposizione parecchi meccanismi: l'iniziativa privata, l'intervento dello Stato, la cooperazione e la solidarietà: in altre parole, il principio del mercato, il principio dell'azione pubblica e quello della gratuità. Ora si afferma che il mercato è l'unico dispositivo che le società possono utilizzare per assicurare l'allocazione ottimale delle risorse materiali e immateriali del pianeta, per soddisfare i bisogni individuali e sociali, mentre tutti gli altri dispositivi devono essere gradualmente eliminati, a meno che non contribuiscano a valorizzare il funzionamento del mercato.

 

Il mercato è diventato il meccanismo centrale di regolazione dell'economia. Oggi la Comunità europea dice che bisogna impedire tutti gli aiuti da parte dello Stato, perché sono contrari alla logica del mercato unico, dove deve esistere piena e libera concorrenza, con libertà di movimento di capitali, persone, servizi e cose. E' evidente la trasformazione della funzione dello Stato, che non èpiù quella di luogo centrale della regolazione politica, economica sociale, ma quella di creare le condizioni affinché il mercato eserciti questa funzione al suo posto. Una vera e propria rivoluzione.

 

Questo il grande mutamento delle nostre società: il passaggio dalla regolamentazione pubblica delle ricchezze del mondo alla regolamentazione finanziaria privata. La prima ha reso possibile lo sviluppo delle economie nazionali e la distribuzione dei benefici ai cittadini, con la diffusione del "welfare state". La seconda concentra le ricchezze nelle mani di chi possiede capitali: il tasso di profitto a livello mondiale aumentato del 60 per cento e, negli ultimi cinque anni, l'80 per cento della nuova ricchezza del mondo è andata ai capitali, anziché ai redditi da lavoro. Le disuguaglianze tra i redditi sono aumentate a partire dal 1975, e stanno ora allargandosi sempre più in fretta, sia tra paesi ricchi e paesi poveri, sia all'interno dei paesi ricchi.

 

Così, mentre ci raccontiamo grandi storie sulle meraviglie della globalizzazione, ci sono un miliardo e 400 milioni di persone che non hanno accesso all'acqua potabile e un miliardo e 700 milioni di persone che non hanno casa. Dov'è il "villaggio globale" per un miliardo e 700 milioni di senza casa?

 

Prendiamo l'Africa. All'ultimo vertice del G7, a Denver, l'Africa è stata inserita tra le priorità, con un piano di azione che vuole superare la logica degli aiuti e trasformarla in un mercato aperto e concorrenziale, destinatario di investimenti esteri, integrato nel mercato mondiale. E sono stati stanziati 650 milioni di dollari: circa mille lire per africano. Come se questo bastasse per fare dell'Africa un'economia come quella dei nuovi paesi industriali.

 

Ecco perché c'è la povertà: non perché siamo cattivi, o per mancanza di solidarietà, ma perché i meccanismi della produzione e della distribuzione di redditi e ricchezze ormai obbediscono a un governo mondiale di tipo privato, alla logica del capitale finanziario.

 

Ecco perché, se si vuole cambiare, bisogna rifiutare questa dittatura del mercato e i dogmi della liberalizzazione, deregolamentazione e privatizzazione. La prima azione da fare è il disarmo finanziario. Bisogna togliere alla finanza il potere che ha acquisito. Così come abbiamo promosso il disarmo atomico, oggi dobbiamo innanzitutto togliere alla finanza il potere che ha sottratto alla politica, alla società, a tutti i cittadini.

 

 *Riccardo Petrella, Italiano, classe 1941;
Dr in Scienze Politiche e Sociali (specializzazione in Politica Economica) all'Università di Firenze;
Dr Honoris Causa all'Università di Umea (Svezia), The Faculté Polytechique di Mons (Belgio) 1992, l'Università di
Roskilde (Danimarca) 1993, Università del Québec (Canada) 1995, Università Cattolica Bruxell 1996.