Corriere della sera 9 luglio 2001 La Cina vuole l’arma catastrofica, i frigoriferi
DAL NOSTRO INVIATO
SHANGHAI - Nell’appartamento 401, edificio 37, vialetto 591 lungo la Xi Xiang Road,
quartiere di Pu Tuo, la signora Qin Huili mostra con legittimo orgoglio i simboli del suo
recente e moderato benessere. Nell’angolo cottura: una cappa d’aspirazione
elettrica sopra la cucina a gas e un forno a microonde. Nel bagnetto: la lavatrice. Nel
tinello convertito in studio: il frigorifero e un computer con stampante a colori e
collegamento a Internet. Nel soggiorno: un televisore a colori da 29 pollici, un lettore
di Dvd, un impianto di condizionamento d’aria. In camera da letto: un secondo
apparecchio tv da 14 pollici con videoregistratore e un altro condizionatore. In più,
sparsi qua e là, ci sono tre grandi ventilatori. «La vita è diventata più comoda e
migliore negli ultimi cinque-sei anni - riassume -. Prima, per comprare una bicicletta, ci
volevano molti mesi di stipendio. Adesso, un solo stipendio basta per comprare molte
biciclette».
L’approdo al (relativo) consumismo della signora Qin e di altre centinaia di milioni
di cinesi è il risultato della più straordinaria accumulazione di ricchezza primaria mai
registrata nella storia. La lanciò, nel 1979, Deng Xiaoping dopo la definitiva sconfitta
del maoismo. In vent’anni ha cambiato la faccia di questo Paese, o almeno di una sua
buona parte. Ha tuttavia conseguenze potenzialmente catastrofiche per il futuro della
Terra. Dovesse mantenere un tasso di crescita medio del 9 per cento annuo (come ha fatto
in questo periodo), entro il 2025 la Cina diventerà il maggiore produttore dei gas che
determinano l’effetto serra. In China Wakes (la Cina si sveglia, un libro il
cui titolo riprende una frase attribuita a Napoleone: «Quando la Cina si sveglierà,
sconvolgerà il mondo»), Nicholas Kristof e Sheryl WuDunn, due giornalisti del New
York Times , danno a questa eventualità una prospettiva sgradevolmente arrogante,
vagamente razzista e tipicamente occidentale: il giorno che tutte le famiglie cinesi
disporranno di un frigorifero «ci sarà un enorme aumento di clorofluorocarburi, il buco
di ozono si allargherà, loro potranno bersi una bibita gelata e noi ci prenderemo il
cancro alla pelle».
Sviluppo economico e degrado ambientale sono intrecciati in una contraddizione
irresolubile. Aumenta uno e peggiora l’altro. Ma chi, e con quale autorità, può
impedire alla signora Qin di comprare un freezer, appena ne avrà la possibilità, o
costringerla a fare a meno del condizionatore d’aria in un posto in cui, per quattro
mesi l’anno, la temperatura supera i 30° e l’umidità il 90 per cento? «L’uomo
è un animale di sensibilità limitata - filosofeggia Lu Ming, economista all’università
Fudan -. Persegue il miglioramento della sua condizione, anche se questo significa un
aumento delle emissioni di anidride carbonica. Chiedergli di rinunciare a stare meglio è
impossibile».
E comunque, perché cominciare proprio con la signora Qin? La sua storia è istruttiva.
Nata nel 1938, figlia di un artigiano benestante (suo padre installava bagni, un mestiere
imparato dagli europei, con i quali aveva cominciato come manovale), studia medicina e si
laurea a Pechino nel ’60. Il partito la manda in un ospedale del Qing Hai, una
regione montagnosa al confine con il Tibet (all’epoca, non si poteva scegliere dove
praticare). Quando scoppia la Rivoluzione Culturale, nel ’66, viene messa al confino
in quanto «capitalista» (per le origini familiari) e «intellettuale» (ha fatto l’università).
La spediscono a Su Li, ai limiti delle steppe mongole: per arrivarci, ci vogliono due
giorni di autobus e cinque di cammello. Dopo un po’ la richiamano nel Qing Hai
(nonostante i furori delle Guardie Rosse, gli ospedali devono continuare a funzionare). Il
delirio del misticismo maoista finisce nel ’76, ma lei non ha né i soldi né le
conoscenze dentro al partito che le permetterebbero di tornare a Shanghai.
Ci riesce solo nell’85. In città non ci sono case. Insieme alla famiglia, un marito
e due figli, va ad abitare dalla madre, in mezza camera. Quattro anni dopo, l’ospedale
(che la paga 97 yuan al mese) le trova un appartamento di 27 metri quadrati: spende 750
yuan per comprare un letto, due comodini, un armadio, un tavolo e due sedie. Il marito,
ragioniere, va in pensione (200 yuan al mese). Le riforme economiche gli consentono di
collaborare con diverse imprese. Alla lotteria che l’ospedale organizza ogni sei
mesi, lei estrae uno dei due biglietti che danno il diritto di comprare un frigorifero. Ma
non può farlo, perché in casa fisicamente non entra. Vince un concorso, diventa primario
di pediatria.
Nel ’97, l’ospedale le assegna l’appartamento 401, edificio 37, vialetto
591. Lo stesso anno, il marito muore di infarto. Intanto, il figlio maggiore (Zen, 39
anni), laureato in ingegneria, emigra in Canada e la figlia (Xiaowei, 24) va all’università.
Racconta: «Fino al ’92-’93 non è stato facile. Per anni, nel Qing Hai, non
avevamo da mangiare altro che impasti di farina. E anche qui, all’inizio, non è
andata molto meglio. Ma questa è la storia del nostro Paese. Molti non ce l’hanno
fatta, e sono morti. Non mi va di tornare su quello che è stato. Meglio guardare avanti e
pensare a quello che sarà. Adesso siamo solo in due e possiamo vivere decentemente, anche
perché Zen, da Toronto, ci aiuta».
Dopo 41 anni di lavoro in ospedale, la signora Qin guadagna 1957 yuan al mese (circa 560
mila lire). Con i bonus, fanno più o meno 30 mila yuan l’anno. Questo la piazza
molto in alto nella scala del reddito disponibile. Divisa in gruppi, e indicata per
famiglie, è forse la statistica più strabiliante dell’annuario pubblicato dalla
municipalità di Shanghai. Nel 1990 ce n’erano solo quattro: meno di 2.000 yuan (51
per cento), fra 2 e 3 mila (43,2), fra 3 e 4 mila (5,4), fra 4 e 5 mila (0, 4). Nel ’99
erano saliti a 11: il più basso (fra 3 e 4 mila yuan) aveva una percentuale uguale a
quella del più alto nel ’90 (0,4); il 46 per cento delle famiglie di Shanghai aveva
un reddito disponibile superiore a 10 mila yuan l’anno e solo l’1,6 per cento
viveva con meno di 5 mila.
Nessuna città, in nessuna parte del mondo e in nessuna epoca storica in un periodo così
breve, sintetizza meglio di Shanghai il diabolico nodo che fa procedere insieme
miglioramento e peggioramento delle condizioni di vita (anche se il primo aumenta in modo
molto più spettacolare di quanto cresca il secondo: e questo vantaggio relativo, alla
fine, lo giustifica). Fra il 1978 e il 1999, il prodotto interno lordo pro capite annuo si
è moltiplicato per 12,4, da 2.477 yuan (circa 700 mila lire) a 30.723 (più di 8,8
milioni). Il reddito disponibile è cresciuto del 15 per cento anno dopo anno. Nelle
abitazioni, i metri quadrati a testa sono aumentati da 4,5 a 10,9. Ogni 100 famiglie, il
numero delle biciclette è passato da 65 a 139; delle tv a colori da zero a 144; dei
ventilatori da 45 a 230; dei frigoriferi da zero a 103; delle lavatrici da zero a 93; dei
telefoni fissi da zero a 79 (quelli mobili sono intanto saliti a 21); degli scaldaacqua da
zero a 60; degli stereo da zero a 28. Il numero delle auto si è decuplicato a quasi 300
mila. Gli edifici con più di 20 piani erano 5, sono 1.164 (ciò che forse non c’entra,
ma dà l’idea della ragione per cui questa è etichettata come la città del XXI
secolo).
Nel frattempo, però, Shanghai è salita ai primi posti delle classifiche per l’inquinamento
dell’aria (due volte e mezzo peggiore di quello di Bangkok). Il sistema di fiumi e di
laghi che la attornia ha una qualità d’acqua spesso di grado 4 o 5 (dunque inadatta,
secondo gli standard internazionali, perfino a un uso agricolo o industriale). Lo Huang
Pu, che l’attraversa, contiene una quantità di piombo 20 volte superiore a quella
dei Paesi industrializzati e batteri da rifiuti umani 50 volte oltre i limiti stabiliti
dall’Organizzazione mondiale per la sanità. Il lago Taihu, il terzo per estensione
della Cina, ha un colore marron-giallastro, striato da alghe verde scuro. Sulle sue rive
sono concentrate il 10 per cento dell’industria e il 15 per cento dell’agricoltura
di tutta la Cina: ogni anno, vi si gettano 8 miliardi di tonnellate di scarichi per la
quasi totalità non trattati (i contadini usano una media di 510 chilogrammi di
fertilizzanti per ettaro, la più alta del mondo). Se nel lago i pesci e i gamberi sono
stati sterminati, a Shanghai, un’ottantina di chilometri più a valle, solo il 20 per
cento degli uomini ha una qualità di sperma altamente fertile. E, in due bambini su tre,
il livello di piombo nel sangue è superiore a 10 milligrammi per decilitro, la
percentuale oltre la quale si ritiene intervengano disturbi alle funzioni cerebrali, allo
sviluppo neurologico e alla crescita fisica.
La signora Qin ascolta questa infilata di apocalittici dati, si alza e ritorna con una
mini borsetta di plastica su cui sono stampati dei personaggi di Walt Disney. La apre,
mostra delle pile scariche e dice: «So che sono molto inquinanti. Le teniamo da parte e
le andiamo a buttare nella raccolta differenziata. Noi non sprechiamo niente e cerchiamo
di produrre meno spazzatura possibile. Il giorno in cui la tecnologia produrrà
elettrodomestici meno dannosi all’ambiente, sarò ben contenta di comprarli, sempre
che abbia i soldi per farlo. Ma tutto quello che abbiamo oggi è strettamente
indispensabile, senza alcuna concessione alla stravaganza. Non credo di poterne fare a
meno e certo non voglio rinunciarvi».
Il suo tenero afflato ambientalista, per quanto meritorio, è largamente insufficiente
rispetto al disastro ecologico che si sta preparando. Del resto, è cominciato molto prima
delle riforme economiche di Deng, con le rovinose e pauperistiche utopie di Mao Zedong. Il
risultato più immediato della rivoluzione agricola che avrebbe dovuto portare al Grande
Balzo in Avanti è stato, oltre a una carestia con almeno 30 milioni di morti, un
incremento esponenziale nell’erosione del suolo. Nelle regioni settentrionali, il
deserto avanza di 2 mila chilometri quadrati l’anno. Un’irresponsabile
deforestazione moltiplica le inondazioni. Tre quarti dell’energia prodotta (per uso
industriale, di riscaldamento e domestico) è derivata da un carbone ad alto contenuto di
zolfo: l’anidride solforosa sprigionata si trasforma in pioggia acida che ormai copre
il 40 per cento della superficie della Cina. Un’inefficiente gestione del patrimonio
idrico si traduce in scarsità per almeno 300 zone urbane e nell’impossibilità di
accesso all’acqua potabile per almeno 80 milioni di persone (e altri 700 milioni ne
bevono una solo vagamente tale). Nel ’97, molti tratti del Fiume Giallo sono stati in
secca per 226 giorni. La fuliggine presente nelle maggiori città è doppia rispetto alla
media mondiale e, nel caso di Benxi (Manciuria), tale da renderla invisibile alle
fotografie dal satellite. La Banca Mondiale calcola che i danni da inquinamento all’agricoltura
e all’industria ammontino almeno all’8 per cento del pil cinese. Quelli alla
salute (più di 50 mila decessi prematuri e 400 mila nuovi casi di malattie respiratorie
croniche l’anno) sono difficilmente calcolabili ma non inferiori a un altro 4 per
cento.
La Cina corre dunque incosciente verso il baratro, trascinando con sé il mondo? Non
proprio. A Pechino, dove le automobili sono 10 volte meno che a Los Angeles ma producono
la stessa quantità di gas nocivi, in sei mesi è stata imposta la benzina senza piombo.
Il governo ha raddoppiato gli investimenti nella protezione ambientale, portandoli all’1,5
per cento del pil (anche se l’Asian Development Bank ritiene per incidere davvero
dovrebbero essere almeno il 6 per cento). Una maggiore efficienza energetica ha nettamente
ridotto le emissioni di anidride solforosa per unità di pil (da 19,9 tonnellate per
milione di yuan prodotto a 12,4). Nonostante questo, per via degli incrementi di
produzione, la quantità rilasciata è raddoppiata. Va meglio con l’anidride
carbonica: nella seconda metà degli anni ’90, è diminuita del 17 per cento anche se
il pil è cresciuto del 36.
Il World Resources Institute , un centro di ricerca indipendente americano,
riconosce alla Cina il merito di aver contribuito «forse più di qualsiasi altro Paese
industrializzato» al controllo dell’emissione di gas nocivi. In fondo, i cinesi
consumano un decimo dell’energia degli americani e un settimo degli europei. E nell’ultimo
decennio gli Stati Uniti hanno aumentato la loro produzione di anidride carbonica più di
quanto abbia fatto la Cina, pur con un inferiore tasso di crescita dell’economia.
«Sta ai Paesi sviluppati dimostrare che si possono combinare un alto livello di vita e un
basso livello di inquinamento - dice Zhou Dadi, direttore dell’Istituto di ricerche
energetiche di Pechino -. Il Primo Mondo guida la macchina, noi la bicicletta. Il Primo
Mondo vive in case spaziose, noi in dormitori». Se bisogna puntare il dito contro
qualcuno, il primo bersaglio non può essere la signora Qin.
(4 - Continua
Le precedenti puntate sono state pubblicate martedì 19 giugno, lunedì 25 giugno e
martedì 3 luglio)
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