La Repubblica 28 luglio 2001 La sinistra, gli spettri fascisti, l’ombra della P38
QUELLE PAROLE COME PIETRE
di PIERO OSTELLINO
Una sinistra che, di fronte
all’operato delle forze dell’ordine a Genova, agita, come ha fatto Massimo D’Alema,
lo spettro del fascismo, finisce col trasferire la legittima dialettica politica dalle
aule del Parlamento allo scontro di piazza. E, come è accaduto in passato, può fornire,
anche se involontariamente, un alibi politico e morale alla cosiddetta «violenza
democratica» contro lo Stato. Se l’Italia rischia di diventare il Cile di Pinochet,
diventa anche legittima la resistenza armata (oggi, armata solo di pietre e spranghe di
ferro; domani, chissà, della P38). Ma l’Italia non sta diventando il Cile e le sue
forze dell’ordine non ne sono diventate, in meno di due mesi, col passaggio dal
centrosinistra al centrodestra, la sua fascistica propaggine. Al contrario, l’onorevole
Napolitano, che fu ineccepibile ministro degli Interni della sinistra, nell’intervista
che pubblichiamo a pagina 3, parla con onesta franchezza delle condizioni «di
straordinaria difficoltà» nelle quali esse hanno dovuto operare.
La sinistra dovrebbe, dunque, smetterla di usare le parole come pietre e di nascondere la
mano dopo averle tirate. Salvo, poi, pentirsene e pagarne, con tutto il Paese, essa stessa
il prezzo e rifugiarsi nella cultura dell’emergenza, che inevitabilmente riduce i
margini del dissenso e mortifica la libertà di tutti. Quando si grida che un commissario
di pubblica sicurezza è un assassino, prima o poi salta fuori qualcuno che lo ammazza. E’
già accaduto negli anni Settanta. Sarebbe bene non ripetere gli stessi errori.
Intendiamoci, nessuno dubita della vocazione democratica dei Democratici di sinistra e del
loro presidente e mette in discussione il loro diritto di chiedere conto di quanto è
accaduto a Genova. Preoccupano, piuttosto, l’incerto senso dello Stato, una cultura
politica quanto meno approssimativa, la tendenza al miope tatticismo. I disordini di
Genova non sono stati solo un drammatico fatto di cronaca, bensì anche e soprattutto un
fatto politico. Ma non nel senso in cui mostra di intenderlo la sinistra, di una violenza
«istituzionale» voluta, o coperta, da un governo di destra nella cui genetica culturale
allignerebbero ancora nostalgie reazionarie.
I disordini di Genova sono stati un fatto politico nel senso che, da parte degli anti
globalisti, si è voluto imporre prima e, da parte della sinistra, si rischia di
accreditare adesso la tesi che un fine legittimo (la protesta contro la globalizzazione)
giustifichi il ricorso anche a mezzi eversivi (gli illegali tentativi di penetrare nella
«zona rossa», i violenti assalti ai mezzi delle forze dell’ordine). E’ una
tesi che conduce inesorabilmente alla convinzione che le eventuali illegalità commesse
dalle forze dell’ordine sarebbero la manifestazione di una inclinazione
antidemocratica dello Stato, mentre le violenze dei dimostranti lo sarebbero della loro
propensione democratica. Una convinzione che finisce col mettere sullo stesso piano gli
eversori e quelli che vi si oppongono e che non contribuisce a far luce sulle
responsabilità dei primi e sulle eventuali illegalità dei secondi, e approda solo alla
delegittimazione dello Stato democratico.
In democrazia, è una contraddizione perseguire fini democratici con mezzi illegali, così
come è irresponsabile attribuire a una volontà politica antidemocratica del governo le
deviazioni di singoli rappresentanti dello Stato. Che vanno perseguite senza indulgenze e
senza esitazioni. Innanzi tutto, perché contraddicono i principi di una democrazia
liberale e, poi, perché minacciano di screditare il Paese sul piano internazionale.
La difesa della legalità e la condanna dell’illegalità, quale ne sia la fonte,
dovrebbero sempre accomunare, in un regime democratico, maggioranza e opposizione. Sarebbe
bene che l’una e l’altra non lo dimenticassero.
postellino@corriere.it
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