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Tra una capra ed una TV scelgo la
capra
Storie e racconti dalla comunità di Teosinte,
El Salvador
indice
Verso le nove arrivarono le pallottole
Lunghi anni camminando senza fermarsi
Per una madre, di tutte quelle che morirono nella guerra
Tante famiglie, tanti pezzetti di mucca
Il presidente passeggia in elicottero
Da questi racconti emergono due sensazioni distinte. La prima è legata alla presenza incombente della violenza che si respira leggendo queste pagine allo stesso modo in cui girando per il Salvador, si sente la presenza minacciosa dei militari che ancora presidiano ogni strada ed ogni angolo del paese. Ma è soprattutto ripensando alle persone che in questi lunghissimi anni la violenza l'hanno subita, guardando nei loro occhi e leggendo i loro racconti che si materializzano le violenze subite. E' una violenza che ha scavato i volti degli uomini, spezzato e distrutto famiglie, sottomesso generazioni e generazioni di persone al punto che anche un bambino di quattro anni prima di fare qualunque cosa risponde "no puedo". La seconda sensazione è invece legata alla capacità di reazione e di resistenza, alla determinazione ed all'orgoglio con cui queste persone sono riuscite a ricostruire le loro vite ed a riunire le famiglie mescolando un po' i superstiti, le nonne, i nonni, gli zii, le sorelle, i fratelli ed i nipoti.
"Siempre un paso adelante" sono le parole con cui spiegano come hanno fatto a superare le difficoltà, a far nascere la loro comunità dalle macerie dei villaggi, a lottare ogni giorno per una vita migliore.
Sono le stesse parole che spingono gli uomini e le donne a lavorare tutto il giorno, a frequentare la scuola auto gestita per studiare durante il tempo libero e ad occuparsi alla sera della famiglia e della comunità.
Sempre un passo avanti si sarà detta Sole, una donna di 30 anni, 4 figli e senza marito, mentre si recava alla capitale San Salvador per fare una visita di controllo per il quinto figlio che aspettava da 7 mesi. Passo dopo passo l'abbiamo vista camminare per tre ore a piedi, attraversare tre torrenti, passare tre ore sugli autobus e ripercorrere da lì il tragitto inverso; il tutto con delle confortevoli ciabatte infradito e senza chiedere aiuto a nessuno.
Così Erminia, una giovane donna di 16 anni, ha deciso di spendere i soldi guadagnati con un buon raccolto familiare, per comprarsi una capra invece della televisione che alcuni le consigliavano, "perché una capra ci dà il latte per mangiare mentre dalla TV non esce niente".
Con la stessa serenità Don Santos e Doña Estebana,
i due meravigliosi vecchietti protagonisti di una storia, ci raccontano
che "siamo contenti, dopo tanto girovagare, di poter restare
a vivere qui a Teosinte, finalmente avremo i tempo di morire in
pace. E poi ci piace molto la collina dove c'è il cimitero".
Paolo Bortolussi
A Don Santos, che riposa sulla collina che
tanto gli piaceva
Dalle inchieste fatte in seguito sulle cause di questa "guerra del Football" venne scoperto un piano Yankee per vendere armi ai due paesi e per preparare le proprie truppe per future guerre o per speciali casi di combattimenti anti sommossa. Con questa opportunità infatti gli Stati Uniti vendettero aerei ed armi e selezionarono esperti per addestrare all'uso dei macchinari da guerra. Un'altra spiegazione possibile venne individuata nell'uso della guerra come deterrente verso le organizzazioni popolari e per seminare, attraverso di essa, il terrore dei militari tra la popolazione e così far ritenere indispensabili le ingerenze yankee nei due paesi.
Il 1° aprile del 1970 sorsero i primi germogli guerriglieri chiamati "Fuerzas Populares de Liberacion" (le F.P.L.) e "l'Ejercito Revolucionario del Pueblo" (E.R.P.); il primo nacque con una strategia di insurrezione popolare mentre il secondo, con strategie di tipo militare, aveva come obiettivi la presa del potere con le armi. Così incominciò quella che sarà poi chiamata la guerriglia.
Nel 1970 si fondarono anche i primi sindacati, come la "Associazione Nazionale De Educadores Salvadoreños" (ANDES), i quali promossero subito un grande sciopero sotto il palazzo del governo militare che venne represso con la forza. Le rivendicazioni, allora come in seguito, erano l'aumento del salario, le più elementari prestazioni sociali e la libertà di organizzazione.
Nel 1972 si tennero le famose elezioni che avrebbero dovuto sancire la vittoria del partito della Democrazia Cristiana che era il partito favorito dal popolo. La Guardia Nacional ed altre pattuglie militari cercarono di cambiare il destino di quelle elezioni e di far vincere il partito ufficiale filo governativo con minacce fisiche e morali. Per fare un esempio di quello che successe dico che anche il giorno delle elezioni, nei pressi dei seggi dove c'erano grandi code, i votanti vennero perquisiti e minacciati uno ad uno con le armi per convincerli a votare per il partito dei militari. Nonostante questo il partito della Democrazia Cristiana vinse le elezioni, ma poco dopo vi fu un colpo di stato ed il presidente Duarte venne destituito ed i militari tornarono al potere.
Tutti noi contadini fino ad allora non eravamo mai riusciti ad avere un peso politico ed incominciammo a svegliarci e ad organizzarci in associazioni e cooperative. Più si perpetravano ingiustizie sociali e massacri indiscriminati e più nascevano organizzazioni di contadini e di lavoratori. Io per esempio, quando iniziai a capire tutto quello che stava passando, cercai di organizzarmi con quelli che erano uguali a me, con quelli con cui lavoravo. Mi ricordo per esempio di essere andato ad una delle prime riunioni con mio cugino il cui ordine del giorno era: 1. lettura biblica; 2. discussione sulla situazione nazionale; 3. compiti da sviluppare. I compiti che ci demmo in quel periodo erano quelli di discutere con i propri parenti e amici delle convinzioni che ci stavamo formando, in altre parole di convincerli a lottare con noi.
Il 19 luglio del 1975 il governo Molino represse e massacrò una manifestazione di studenti nella capitale. Per protestare contro questo massacro venne indetta una grande manifestazione di tutte le organizzazioni sorte nel paese. Era ormai sorta, in tutto il Salvador, una lotta di resistenza contro i militari che dal canto loro incominciarono, attraverso gli "squadroni della morte", ad uccidere tutti i leader di queste organizzazioni. I soldati arrivavano di notte nei villaggi e ponevano una mano di vernice bianca sulle pareti delle case lasciando un messaggio scritto "Ti lasciamo 24 ore per abbandonare la casa, la famiglia e gli amici. Se ti vediamo dopo delle 24 ore incontrerai la morte". La strategia dei militari nei confronti dei problemi della popolazione poteva semplicemente essere descritta dal detto popolare "morto il cane si cura anche la rabbia".
In molti casi era tutta la comunità che doveva abbandonare le abitazioni per paura di essere uccisa. A partire dal 1976 nessun membro della Unione Trabajadores Campesiños poté più dormire nella sua casa e questo voleva dire che per molti anni queste persone furono costrette a vivere dormendo all'aperto con qualunque tempo, sotto forti piogge e soffrendo la fame.
Passarono gli anni, ci furono nuove elezioni spazzatura ed un altro colpo di stato militare, i massacri indiscriminati continuavano come anche aumentava il numero dei "desaparecidos". La vita dei salvadoreñi peggiorava sotto ogni punto di vista, si poteva solo aspettare la morte, gli unici sollievi erano dati dalle organizzazioni di mutuo aiuto e vigilanza, e dalle organizzazioni agricole che ci permettevano di coltivare la milpa e di raccogliere i frutti del nostro lavoro utili per il sostentamento. Queste organizzazioni erano così necessarie per sopravvivere che all'inizio degli anni '80 avevano già coinvolto la maggioranza della popolazione.
Nel 1980 la giunta governativa, le forze armate, gli squadroni della morte con l'appoggio dei ricchi del paese e con il finanziamento yankee, pianificarono un poderoso operativo militare per schiacciare definitivamente le masse organizzate. Il 1° gennaio del 1980 circa 15.000 soldati, dell'esercito, dell'ORDEN, della Guardia Nacional, della Policia de Hacienda ed altri ancora, passarono all'azione nelle giurisdizioni di Las Vueltas, de Los Ranchos, di Nueva Trinidad, di Arcatao, di San Isidro e altre ancora. Vennero uccisi bambini, adulti, donne, anziani, vacche, galline, vennero bruciate case e distrutto tutto quello che si fosse mosso o che avrebbe potuto essere utile per la vita.
Fu così che senza sapere come la gente fu costretta a cercar rifugio in Honduras dove però l'esercito locale costrinse molti a tornare in patria già nelle prime 24 ore. Quelli che riuscirono a rifugiarsi in Honduras in ogni caso non avevano nessun posto dove ripararsi e stare e nessuno, neanche gli stessi poveri hondureñi, potevano aiutarli per paura di essere uccisi come complici.
E' chiaro che in questa maniera i bambini, le donne incinta e gli anziani non potevano sopravvivere e dovettero arrendersi e ritornare in Salvador con il presentimento che sarebbero stati uccisi dai militari. In molti casi questi furono i sentimenti che accompagnavano la gente quando si decise a formare dei campi profughi come quello de "Las Aradas" dove io vissi. Col tempo questi accampamenti divennero delle vere e proprie comunità, con dei dirigenti a capo che si occupavano dell'organizzazione necessaria per ottenere degli alimenti e per raggiungere una forma civile di vita. Da questi luoghi si organizzarono équipe per il rifornimento per portare viveri ai bambini, alle donne ed agli anziani.
Il 24 marzo 1980 alle sei del pomeriggio ascoltammo alla radio la notizia dell'assassinio del Monsignor Romero e questo fu per noi la conferma che le cose sarebbero continuamente peggiorate, ma confidando nella organizzazione ed in Dio, rimanemmo nell'accampamento.
Il 13 maggio sempre dell'1980 un contingente militare di circa 500 soldati hondureñi si avvicinò alla frontiera e si fermò al di là del Rio Sumpul che delimitava la frontiera e che scorreva a fianco dell'accampamento. Noi avevamo paura anche di questi militari perché quando eravamo stati in Honduras avevano cercato di ucciderci anche loro. Alcuni di noi avevano saputo che il giorno dopo sarebbero arrivati i militari salvadoreñi nel campo di Las Aradas e che avremmo avuto dei guai. In quell'accampamento vivevamo circa in 1.500 persone, senza niente di nostra proprietà, non avevamo terra ne case ne vestiti e nemmeno animali. Ci era stato tutto distrutto e rubato dai militari. Avevamo paura e non sapevamo cosa fare, non riuscivamo a trovare una soluzione. Passò il pomeriggio e arrivò la notte e durante tutta la notte una gran tormenta fece crescere il Rio Sumpul le cui acque incominciarono a scorrere forti e pericolose.
Alle 5 della mattina tutta la gente si era già alzata pensando alle proprie preoccupazioni e a far colazione. I soldati hondureñi erano all'erta, vedevamo le loro giacche di lana dietro alle trincee di pietre, con i fucili minacciosi puntati verso di noi.
Verso le 7 arrivò un gruppo di persone correndo dal lato ovest dell'accampamento, urlando stancamente, piangendo per le ferite subite. Erano in maggioranza anziani, donne e bambini. Erano affamati perché erano stati perseguitati nelle loro comunità scappando per difendersi dall'operativo militare.
Verso le 9 arrivarono le pallottole sparate dai salvadoreñi da sud, da est e da ovest, mentre da nord arrivavano quelle degli hondureñi. Non c'era un posto dove scappare a difendersi. Molte persone, prese dalla disperazione, si gettarono nel fiume e di lì a poco affogarono per la violenza delle acque e per i colpi ricevuti. Alcuni riuscirono ad attraversarlo, ma furono catturati dagli hondureñi e riconsegnati ai salvadoreñi e da questi massacrati. Gli aerei mitragliavano quella parte di popolazione che cercava di mettersi in salvo e che era riuscita a scappare dal massacro. Tutto questo durò per l'intero giorno, durante il quale vennero sgozzati bambini, donne incinta, anziani e giovani. Alla sera rimasero pochi superstiti ed i resti della popolazione massacrata.
Per quel che potevamo ci siamo messi in cammino, feriti gravemente, senza mangiare e senza avere un posto dove andare, solo con Dio dalla nostra parte. Il giorno dopo mi alzai in un luogo dove un amico mi aveva portato, raccogliendomi la notte prima gravemente ferito. Non vedendo segni della presenza dei soldati nelle vicinanze tornai verso il Rio Sumpul.
Io vidi la quantità di popolazione civile morta, c'erano molte persone dell'Honduras che si erano alzate all'alba per andare a soccorrere i feriti sul luogo del massacro. Molti furono raccolti e portati via, tra questi donne, anziani e bambini. Un'ora dopo tornarono i soldati sparando per finire di uccidere i feriti che erano rimasti.
Così si consumò la tragedia del Rio Sumpul a Las Aradas, dove persi due fratelli, un figlio e molti compagni. Noi superstiti, da allora, per mesi non abbiamo più saputo cosa fare, eravamo come abbandonati, disprezzati dai più, senza niente da mangiare, nessuno ci dava una mano ne ci voleva.
Passarono ore, giorni, mesi in questa tragica situazione, fino a che un sacerdote hondureño, Padre Fausto Millas, promosse attraverso la radio, la stampa e gli amici degli aiuti umanitari in nostro favore. Nella sua prima visita ci portò dei rifornimenti alimentari, vestiti e tutto l'apporto indispensabile per gli orfani. Per averci fornito questi aiuti e per aver chiesto giustizia e libertà per quelli di noi che erano diventati prigionieri, Padre Millas fu perseguitato dal governo del Salvador e dalle forze armate dell'Honduras. Per tre volte fu ferito in agguati organizzati dai militari, fino a che lo stesso Arcivescovo dell'Honduras lo espulse dal paese. Noi superstiti del massacro del Rio Sumpul gli siamo sempre stati molto riconoscenti, ma nonostante i suoi aiuti i nostri problemi continuavano ad essere gravi.
Nel novembre del 1981 i governi dei due paesi presero un accordo per controllare meglio tutti i rifugiati che furono così riconcentrati in un unico posto in Honduras. Noi riuscimmo a rifugiarci a Mesa Grande, un luogo circondato da una grande montagna piena di alberi di pino. All'inizio non avevamo nessuna protezione ne dal sole ne dalla pioggia, non avevamo possibilità di procurarci generi alimentari e ci trovavamo sempre con un contingente militare che accerchiava il campo per vigilare che nessuno di noi uscisse.
L'unica soluzione che avevamo di fronte a tutti i problemi che derivavano dall'accerchiamento dei soldati e dall'isolamento era la organizzazione. Ed infatti col tempo incominciammo a suddividerci dei compiti ben precisi: c'era chi cuciva dei vestiti, chi lavorava delle giacche di lana e chi costruiva delle scarpe. Venne organizzata una casa di salute ed una scuola, dei laboratori di artigianato, delle piccole botteghe e dei negozietti. Lavorammo al progetto per avere l'acqua nel campo, a quello per la sistemazione ambientale, ai progetti agricoli ed a quelli dell'allevamento del bestiame.
Io credo di poter affermare che la vita nell'accampamento di Mesa Grande sia stata scuola di apprendistato e di organizzazione molto forte, dove la produzione dei singoli era a favore di tutti e dove la produzione collettiva serviva a ciascuno di noi.
Così giorno dopo giorno, anno dopo anno ricominciammo a pensare di tornare a vivere in El Salvador, il nostro paese. Nell'agosto del 1988 circa 1.500 rifugiati incominciarono un lungo esodo verso i propri luoghi di origine. Nella strada del ritorno il nostro gruppo di persone fu costretto ad aspettare per 5 giorni ad un posto di blocco militare dove subimmo diverse pressioni e minacce con le quali cercarono di costringerci a non ritornare in patria. Noi però eravamo molto decisi ad andare avanti anche se sapevamo di dover ricominciare tutto da zero, che non avremmo avuto delle case dove dormire, ne possibilità di guadagnare qualcosa. Per di più sapevamo di ritornare in un paese in guerra.
Comunque la decisione presa fu quella di andare avanti.
Il 17 Agosto del 1988 arrivammo a Teosinte, un luogo sperduto tra le montagne dove abbiamo ricominciato a costruirci da vivere.
Ogni volta che uscivamo dal villaggio anche qui rischiavamo di essere bloccati dai militari che ci facevano sempre scaricare tutti i materiali, ce li rubavano e spesso non ci facevano passare. Alcuni di noi vennero catturati e torturati con l'accusa di essere dei guerriglieri. Sotto questo terribile incubo abbiamo vissuto quattro anni.
Un giorno il 31 dicembre del 1991 a mezzanotte, nel pieno dei balli di capodanno, ascoltammo alla radio la notizia che erano stati firmati gli accordi di pace tra il governo l'FMLN e l'O.N.U. L'intera comunità più alcuni guerriglieri che erano scesi a festeggiare l'anno nuovo con noi incominciò a gridare di gioia, ci abbracciammo tutti, chi rideva e chi piangeva perché finalmente era finita la guerra.
Oggi però stiamo ancora aspettando di vivere in pace.
Abel
In questi anni ci furono tante attività di protesta nelle strade di San Salvador che ci facevano stramazzare dalla fatica perché andavamo senza scarpe ed il cemento era bollente e mangiavamo solo tortillas mentre le cose più succose le dovevamo lasciare ai militari dei posti di blocco. Io ero piccolo e vi partecipavo con mio padre. Mi ricordo che già allora era pericoloso andare alle manifestazioni perché c'erano stati molti massacri di gente per le strade di tutto il paese causati dagli squadroni della morte. A dir la verità io partecipai a molte manifestazioni in cui ci spararono e dove ci furono molti compagni morti, feriti, catturati e portati nei carceri militari o della polizia dove poi venivano trovati morti.
A cominciare dal 1980 non potemmo più vivere nelle nostre case perché i militari le bruciarono e rubarono tutto.
Nella mia casa uccisero mio papà, nella mia casa. Aveva 60 anni e quando tornai a casa lo trovai sgozzato, senza gli occhi e con un colpo di pistola in testa.
Di fronte ad una situazione così difficile che stavamo vivendo, dovemmo scappare dalle nostre case abbandonando tutto.
Cosicché, quando tutte le possibilità di vita legali finirono, gli uomini incominciarono a scegliere il da farsi avendo come alternativa il fucile o l'esilio. In questi momenti c'erano moltissimi che si domandavano e dicevano "Dio mio che cosa facciamo? Cercare un posto dove sopravvivere o affrontare questi nemici?"
Dunque c'erano solo due alternative e cioè andare a vivere in un altro luogo o prendere le armi. Tutti quelli che avevano bambini piccoli piangevano di tristezza a sapere che non avevano più un luogo sicuro dove stare e incominciarono a fuggire, anche se per molti era una situazione insostenibile perché i bambini e gli anziani erano incapaci di sopportare tante difficoltà.
Fu così che spuntò la possibilità di incamminarsi verso l'Honduras, nei campi profughi di Mesa Grande, di Colomancagua e di Sant'Antonio.
Altri presero le armi. Noi abbiamo preso le armi e decidemmo di affrontare i nemici della società ben sapendo che in quel momento le armi erano l'unico mezzo per dare una risposta decisiva al nemico di fronte alla repressione della nostra lotta. Così incominciammo, in piccoli gruppi in ogni angolo del Paese, recuperando armi e usandole come risposta al nemico. Ci consideravamo il braccio armato del popolo.
In questa maniera eravamo diventati illegali(1) e perseguitati da grandi operativi militari. Noi (i guerriglieri) tutte le volte che veniva l'operativo militare fuggivamo risalendo i torrenti e su per i monti, nascondendoci dentro ad una fitta boscaglia dove avremmo potuto stare lungo tempo senza che ci potessero vedere. Il problema era che passavamo giorni senza poter recuperare qualcosa da mangiare. Dovevamo aspettare fino a che l'operativo non se ne fosse andato dalla zona dove eravamo nascosti.
I gruppi che avevamo formato non erano ancora organizzazioni di massa ma politico-militari, le stesse(2) che in seguito formeranno l'F.M.L.N. (Frente Farabundo Martì para la Liberacion Nacional). Anche se queste organizzazioni politico militari avevano tra loro delle divisioni si unirono come una sola forza per affrontare il nemico e per ottenere riconoscimento politico sia nel paese che a livello internazionale.
La guerra si presentava come una scommessa perché il nemico era completamente finanziato ed addestrato dai "gringos" americani e quindi per vincere avremmo dovuto sconfiggere tutte le loro tattiche e strategie mentre noi non eravamo un esercito, ma soltanto dei contadini. I grandi operativi militari duravano anche sei mesi ed erano sostenuti da grandi apparati aerei, da soldati salvadoreñi di terra e da innumerevoli penetrazioni di elicotteri. La tattica che seguivano era chiamata "far mancare l'acqua al pesce" e consisteva semplicemente nello spopolare tutte le zone dove ci muovevamo noi con il proposito di isolarci e di metterci in crisi per farci abbandonare la lotta.
Però la nostra convinzione di lottare era più forte di tutto. Tra noi c'era molta solidarietà, ci distribuivamo da mangiare, le scarpe a quelli che ne avevano solo dei pezzi, i pantaloni a chi andava a lavarsi il proprio unico paio ed i vestiti a chi aveva solo degli stracci.
I militari cercavano di seminare il panico nella popolazione affinché
non collaborassero con noi, però i compiti che ci eravamo
dati non erano solo di tirare pallottole ma anche di spiegare
al popolo perché stavamo combattendo la dittatura militare.
Così il popolo nonostante i grandi problemi che doveva
affrontare nella vita di tutti i giorni incominciò a darci
più fiducia e a nasconderci, a darci le scarpe, gli alimenti
ed il vestiario. Loro erano sempre meglio armati però noi
tenevamo le armi più importanti: l'intelligenza, la disciplina
e la coscienza.
Rafael Guardado Mena
Scappavamo terrorizzati e silenziosi.
Eravamo terrorizzati perché sapevamo delle torture e dei massacri compiuti dall'esercito e silenziosi perché chiunque avesse parlato fuggendo dal vicino nemico avrebbe messo in pericolo la vita di tutti. Qualunque persona fisicamente in grado di fuggire lo faceva e tra questi naturalmente vi erano donne con i bambini piccoli, giovani e vecchi. Tutti in fuga dall'esercito governativo che stava uccidendo intere popolazioni inermi, distruggendo ogni cosa, fossero uomini, animali o case. Il terrore era così grande che quando camminammo nella notte passando vicino a postazioni militari o addirittura incuneandoci in mezzo ad esse, alcune madri strinsero i loro piccoli bambini che tenevano in braccio talmente forte, per paura che si mettessero a piangere ed a urlare, da farli morire soffocati, così che alla loro paura si aggiunse il dolore più infinito.
Mi ricordo alcune cose in particolare della nostra fuga, come per esempio quei due fidanzati che stavano camminando vicino a me quando incominciò un bombardamento aereo. Ci rifugiammo insieme dietro ad una grossa pietra fino a che, passati via gli aerei, i due giovani uscirono e ripresero a camminare. Io gli dissi che sarebbe stato pericoloso perché gli aerei avrebbero potuto tornare. Dopo neanche un minuto una bomba colpì in pieno la ragazza che avrà avuto si e no 14 anni. Non restarono che alcuni pezzi, mi ricordo ancora una gamba ed un piede e la disperazione del ragazzo. Abbiamo anche dovuto aspettare per seppellirla per il pericolo di nuovi attacchi. Il ragazzo non voleva più venire via, rimase lì otto giorni mentre noi cercavamo di convincerlo a partire perché altrimenti avrebbero ucciso anche lui.
Un'altra esperienza terribile che ho vissuto è stata quella del massacro del Rio Sumpul, operato dai soldati della forza armata, che potevano essere 15 mila forse. Io sono uno dei pochi sopravvissuti dello sterminio durante il quale vennero uccise, in un solo giorno, circa seicento persone tra uomini, donne e bambini. Di Teosinte siamo in quattro ad essere sopravvissuti, oltre a me si salvarono Cristina, Abel e Don Santiago. Stavamo camminando nella notte per andare verso l'Honduras, avevamo saputo che vicino a noi c'erano molti militari, sia hondureñi che salvadoreñi i quali avevano preso degli accordi tra loro. Arrivammo ad una piana vicino a due colline presidiate dall'esercito e delimitata dal Rio Sumpul che segna il confine tra i due stati. Il fiume era in piena perché c'erano stati tre giorni di piogge che lo avevano reso impetuoso e pericoloso da attraversare. Il giorno seguente io vidi cose tanto gravi da non pensare neanche che siano state vere. L'esercito arrivò verso di noi da tre parti, lasciandoci il fiume come unico sbocco per fuggire. Era però così impetuoso che ci risultava impossibile da attraversare se non rischiando di morire annegati. Oltre a tutto al di là del fiume erano posizionati i soldati hondureñi che non ci permettevano di passare. Eravamo in gabbia, circondati e attaccati dai soldati del Salvador che incominciarono a sparare e ad ucciderci tutti. Eravamo solo contadini con le nostre famiglie. Io cercai di salvarmi con altri attraversando il fiume. In pochi ci riuscimmo ma arrivati sull'altra sponda un soldato hondureño mi puntò il fucile contro per uccidermi, e mi disse che non potevo andare in quella direzione. Io mi inginocchiai e gli dissi: "Ti prego non uccidermi, se sono qui è perché ho solo tanto amore per la vita e null'altro". Lui mi guardò, evidentemente si impietosì e ci fece passare dicendo di nasconderci dietro una pietra.
Da lì abbiamo visto tutto quello che stava succedendo dall'altra parte del fiume. Vedevamo i soldati che stavano uccidendo chiunque si stava muovendo, ma non solo, abbiamo visto proprio davanti a noi un soldato che prese un piccolo bambino lo lanciò ancora vivo in aria e lo uccise al volo infilzandolo con la baionetta. Queste sono state barbarie che non si possono capire, non c'è niente al mondo che le possa spiegare.
Lo stesso soldato hondureño che ci salvò la vita vide questa scena e si infuriò, prese la mira e uccise con un colpo in fronte quel bastardo, urlando per la rabbia.
Io ho visto tutto questo e perciò dico che è importante che si sappia come la forza armata salvadoreña ci trattò, di quante sofferenze ci causò. Io stesso ho parlato di questo alla Commissione de la Verdad quando mi interrogarono. Avevo paura solo a raccontarle queste cose perché credevo che mi avrebbero ricercato, punito e ucciso, ma poi mi assicurarono che il mio nome non si sarebbe saputo, che avrei avuto la certezza di non subire altri danni. E' per questo che oggi, prima di incominciare a parlare con voi ho chiesto chi avrebbe letto queste cose che vi sto raccontando. Anche Abel è sopravvissuto a questo massacro, però quel giorno perse un figlio ed un fratello e potete capire cosa gli è rimasto dentro di quell'esperienza. Si trattò proprio di sopravvivere.
Tra noi c'era molta solidarietà, eravamo tutti fratelli ed io avrei fatto di tutto per gli altri. Non ci importava il livello di ricchezza, contava solo la nostra volontà.
Se io ho un papà povero il tuo potrebbe non avere niente ed allora tutto quello che abbiamo è la mia povertà, quindi non mi importa di quanto abbiamo ma mi importa di dividere questo qualcosa in due.
Io so che adesso nelle città è molto diverso. Mio figlio lì dove vive, ha un lavoro che gli rende abbastanza bene, ha una casa tutta sua, ma se rimane senza i fagioli per mangiare e se chiede un po' di tortilla a qualche vicino gli dicono che la può trovare e comprare nel tal negozio. Non può chiedere niente a nessuno perché nessuno lo conosce e nessuno si preoccupa degli altri.
Qui in comunità da noi non succederebbe. In città solo ci si può dire "Buenos dias, buenos dias" e nient'altro. Qui in comunità se qualcuno ha bisogno di qualcosa ce lo prestiamo e poi domani ce lo ridiamo. Si lavora bene qui, tutti fanno qualcosa compresi i più anziani. Il latte delle vacche, per esempio, per quindici giorni al mese viene distribuito a tutte le famiglie della comunità. Nelle famiglie di tre persone viene distribuita una dose di latte per tre ma quando sono in dieci la dose è per dieci e quello che avanza serve per pagare il lavoro degli uomini che tengono il bestiame. In questa maniera è molto ben distribuito perché ai bambini piccoli, alle donne incinta ed agli anziani il latte viene dato per tutto il mese.
Quando viene uccisa una vacca succede la stessa cosa. Tante famiglie tanti pezzetti di mucca e così viene assegnato un pezzetto di carne a ciascuno secondo i suoi bisogni. Tempo fa addirittura la comunità è riuscita a fare in modo che ogni famiglia avesse almeno un agnello così che ognuno potesse decidere cosa farne. E' ben bello come modo vero? Certo costa sacrificio per tutti, però ne vale la pena perché solo così abbiamo potuto sopravvivere e ricevere gli aiuti degli internazionali a cui noi dobbiamo molto e siamo molto grati perché anche loro hanno fatto moltissimi sacrifici.
Per il futuro spero che si possa rimanere qui tutti, per poter lavorare tutti insieme e per organizzarci ancora meglio, vorremmo costruire un taller per ogni attività, comprare le terre, lavorare la milpa e fare in modo che le terre siano di tutta la comunità. Io adesso qualche cosa ce l'ho, ma per quelli che non hanno niente è importante la presenza della comunità perché permette di organizzarci e di produrre dei beni che siano di tutti. Solo così quelli che non hanno niente non soffrono.
Questi sono i frutti di quella che io chiamo
una comunità cristiana costruita dal basso. La dottrina
non ci dice che dobbiamo soffrire in questa terra e neanche di
stare zitti e sottomessi, ma che dobbiamo impegnarci ad educare
i più piccoli, ci dice che dobbiamo essere felici e che
dobbiamo conquistare la felicità. Per noi questo vuole
dire avere la terra, le vacche, il latte, i fagiolini ed il mais,
essere onesti e vivere uniti. Adesso costa tutto tanto, non ci
possiamo comprare il sufficiente, non abbiamo terra per lavorare.
Questi erano gli stessi problemi che avevamo prima della guerra
e che adesso, dopo tredici anni di combattimenti e dopo gli accordi
di pace, torniamo ad avere senza capire il perché.
Don Pedro
La gente quindi scappò con paura per la Jarada e lì rimanemmo per un inverno. Una notte arrivarono le guardie anche lì per combattere contro di noi. La mattina verso le otto, mentre io stavo tornando da lavare vidi tutta la gente che stava fuggendo, c'erano già un sacco di soldati per il villaggio, nel cielo volavano alcuni aerei da guerra e quando arrivai alla casa il mio bambino più piccolo non c'era più, se lo erano portato via i soldati.
Presi quindi l'altro figlio che avevo e lo abbracciai, e quando passò una guardia davanti alla porta di casa, lo portai, passando dal retro, ad una signora che ne aveva quattro di bambini. Ci rifugiammo ai lati di una roccia e cercammo di difenderli dai bombardamenti degli aerei. L'unico modo di fuggire era quello di attraversare il fiume ma era molto pericoloso perché era molto grosso e noi vedevamo affogare quelli che tentavano di attraversarlo e oltre tutto al di là del fiume c'erano i soldati dell'Honduras. Verso l'alto del fiume gli aerei bombardavano un sacco di gente che cercava di scappare. Nel pomeriggio qualcuno mi disse che il mio figlio più piccolo l'avevano portato via i soldati, aveva solo sei mesi.
Dopo poco incominciarono a sparare contro di noi ed io fui ferita da due colpi di fucile, ancora oggi ho un proiettile dentro. L'altra signora scappò via ma i bombardamenti aerei gli uccisero tre figli e lei rimase lì ferita e con tre dei suoi bambini uccisi. Solo alla mattina dopo i soldati hondureñi la raccolsero quando ormai era molto grave anche lei, con vicino il suo bambino vivo e i tre morti e poi altra gente che era morta lì vicino.
Ora io ho quattro figli, un altro morì quando era piccolo
perché si ammalò e le medicine che gli diedero gli
causarono una crisi di vomito e di lì a poco morì.
I miei figli sono tutti maschi e quelli più grandi già
possono lavorare un po' la terra, ma il più grande ha solo
14 anni e ancora devono andare a scuola.
Cristina
Io e Doña Estebana, per esempio, odiamo i militari perché sono i responsabili della scomparsa di due nostri figli dei quali non abbiamo più saputo niente dal giorno in cui sono stati catturati. Vorremmo tanto sapere se sono ancora vivi, oppure conoscere che cosa ne hanno fatto, se li hanno assassinati o che altro. Ma ci sono anche molti altri motivi e adesso con calma ne parliamo.
Tutte le domeniche, molti di noi contadini, ascoltavamo alla radio il messaggio del Monsignor Romero ed anche per merito delle sue parole li abbiamo tanto odiati ed ancor di più dopo che lo hanno ucciso. Bisogna dire che non a tutti piaceva il Monsignore ed infatti c'erano anche quelli che spegnevano la radio appena lui incominciava a parlare. I militari invece spensero il Monsignore.
Quando poi ci furono i funerali di Romero arrivarono gli squadroni della morte che misero una croce rossa su un loro quaderno accanto al nome di molti che vi stavano partecipando, tra i quali quello della nostra nipote. La croce voleva dire che era contraria al governo dei militari, era come una sentenza di morte: prima o poi la avrebbero uccisa ed infatti la uccisero.
Il giorno in cui mi catturarono mi dissero: "qui c'è la sua croce rossa". Mi fecero vedere il mio nome con a fianco una croce rossa su un libretto; "e qui c'è quella di sua nipote Dominga", così si chiamava la poverina.
Tempo dopo la incontrai mentre fuggivamo da una rappresaglia; era notte e correvamo su per i monti con le signore ed i piccoli: la vidi e le dissi di stare molto attenta. Lei mi rispose "si hai ragione nonno, però noi dobbiamo andare a guadagnarci la libertà".
Il giorno seguente entrarono nelle nostre abitazioni:
"Ahi Dominga, vengono le guardie" pensai.
Si indirizzarono da lei e le dissero "Adesso la ammazziamo".
Ancora mi ricordo la scena, li davanti c'era un bambino che stava raccogliendo dell'acqua, presero questa poveretta e la uccisero. Già la nostra sofferenza era grande, ma in quei momenti fu terribile, anche perché venne uccisa solamente per essere andata ai funerali del Monsignor Romero. Questi signori si accanirono contro di noi solo perché ci piaceva la parola del Monsignore e questo a loro bastava per odiarci.
Conoscevamo Romero dal giorno in cui venne a celebrare una messa ed a pregare per nostro figlio che era stato assassinato. Da quel momento in poi i militari si accanirono sempre più ferocemente contro di noi nel villaggio.
L'altro nostro figlio lo catturarono nel 1982 mentre tornava da pescare con Lola, la sua fidanzata, ed un amico. Io conoscevo i militari del nostro dipartimento perché erano gente come noi, e quando li catturarono andai dal comandante Feliz Guardado e mostrandogli una foto dissi: "Guarda, Feliz, lo conosci questo ragazzo?"
"No" mi rispose "non lo conosco".
"Guarda Feliz che questo è mio figlio con lui avevi fatto la naia a Milopango!"
"Non è così, era con un altro dipartimento".
Mi fermai li ad aspettare, finché vidi i tre ragazzi portati via in camion dai militari. Dopo poco il camion si fermò ed io capii che stavano per ucciderli. Corsi verso il tenente ed aggrappandomi stretto a lui lo supplicai affinché non li facesse uccidere ma spararono lo stesso, colpendo per ultima la Lola. Le spararono in testa e nel petto ma per un miracolo non la uccisero perché i colpi uscirono da parte a parte e lei si riuscì a buttare giù per un dirupo. Gli altri due non potemmo neanche seppellirli per paura che uccidessero anche a noi.
E' così che ormai il nostro odio si era formato.
Venne il giorno che catturarono anche me. Stavo arando il terreno per far crescere il mais, i bambini raccoglievano le pannocchie quando venne la mia unica figlia, Olga che era piccolina e mi disse: "Guarda papà che stanno venendo i militari". Tornammo a casa di corsa.
La notte seguente bussarono alla porta, "Ahi sono arrivati" pensai, aprimmo la porta e trovammo quelli della Guardia Nacional.
"Entrate pure" gli dissi.
Subito accusarono mio figlio di essere un attivista e di fare propaganda anti governativa e mi chiesero dove era nascosto. Gli dissi che non ne sapevo niente. Incominciarono a cercare per tutta la casa ma non trovarono niente. Provai a parlare con il capo della guardia e visto che loro cercavano i miei figli gli dissi: "Certo che sono i miei figli però non so dove sono, uno è in fabbrica e l'altro lavora in un bottega di un calzolaio. Qui non troverete nessuna prova di nessun delitto perché non ne abbiamo commessi".
"Voi nascondete armi!"
"Non abbiamo nessuna arma, ehi solo abbiamo le pure mani!".
Rimasero lì fino alle quattro della mattina, fino a che uno mi puntò un coltello sul collo e mi disse "Questa è la ultima volta, parla".
"Fate quello che volete, sono vostro, però non mi faccio carico di quello che non ho, meglio morire che dire quello che non so! Ed inoltre andrete incontro ad un castigo del Nostro Signore perché state per uccidere un uomo ingiustamente".
E loro arrabbiati urlarono con tono di disprezzo: "Hombre, questo vecchio. Alzati sovversivo!".
Mi portarono via e mi tennero diversi giorni imprigionato verso Chalatenango. Arrivati al comando dissero: "Abbiamo portato questo sovversivo" e uno dei soldati rivolto verso di me: "Li a casa tua non avevi nessuna colpa, ma qui sì".
Mi legarono ad una corda ed incominciarono a tirarmi in aria ed a farmi cadere a peso morto cosicché io finivo sempre per terra. Una volta mentre stavo cadendo un soldato mi colpì sul ginocchio con il calcio del fucile e mi fece proprio male, mi usciva sangue da molte parti e ancora oggi ne porto i segni. Mi stavano ritirando di nuovo in alto quando arrivò un comandante e chiese che cosa stavano facendo con me e questi risposero: "lo leghiamo per fargli uscire la verità".
"Per fargli uscire la verità? Ma è tutta la notte che sta soffrendo e non ha detto niente".
Era forse un po' più coscienzioso degli altri, mi portò via e mi diede una tortillita ed un pezzetto di formaggio e mi disse di mangiarlo. Chissà forse gli dispiaceva vedermi in quello stato. "Vuoi un po' di caffè?" mi disse. Io tremavo e volevo bere dell'acqua, ma avevo paura che gli avessero messo dentro qualcosa per cui dissi solo "No, grazie". Mi portarono una bottiglia con puro guaro, il soldato lo mischiò con il caffè e mi disse: "Prendi questo".
"No grazie, se lei ne beve un po' allora anch'io altrimenti mi rifiuto" risposi.
Fu così che versò un po' di caffè e molto di guaro, lo sorseggiò per primo ed allora anch'io ne bevvi un bicchiere.
Dopo un po' di tempo consegnò una nota alle guardie affinché mi portassero fuori e mi rilasciassero. Così mi portarono via in camion e mi lasciarono a San Isidro. Appena fui liberato vidi un mio amico Rafael Menjivar che mi abbracciò tutto contento per avermi visto ancora vivo. Mi disse che era stato un miracolo che fossi riuscito a salvar la pelle. "Vamos Santillo, torniamo a casa". Tornando incontrai anche la mia signora che mi stava cercando e che non sapeva dove ero.
Così è stata la nostra storia.
Ci ritrovammo io, la moglie, la piccola Olga ed alcuni nipoti senza più una casa sicura dove vivere e così scappammo per i monti perché avevamo sentito la notizia di alcuni aiuti di internazionali che appoggiavano le persone che erano fuggite dai luoghi più pericolosi. Decidemmo di andare verso la frontiera con l'Honduras e partimmo subito lasciando tutto quello che avevamo, il mais, i fagioli, il riso e la casa. Lasciammo tutto per salvarci il cuore.
Alla frontiera rimanemmo per tre mesi e poi andammo in Honduras dove c'erano gli accampamenti per i rifugiati ed organismi non governativi che ci aiutavano. Ci davano un pochino di riso ed un pochino di mais e così ci fermammo nell'accampamento di Mesa Grande. C'era anche un padre italiano con una bella barbetta, un amico che ci aiutò molto. Io aggiustavo le scarpe per tutti gli accampati e per i guerriglieri perché sempre lavoravo anche per loro. Siccome c'era tanto lavoro chiesi al padre del materiale per fare un piccolo laboratorio di scarpe in Mesa Grande.
Lui mi domandò "Per chi vuoi lavorare?"
"Ah per gli amici" risposi.
"Capisco" mi disse, perché sapeva cosa intendevo.
"Va bene Santillo, vediamo cosa si può procurare per fare questa piccola bottega da calzolaio."
"La prima cosa che ho bisogno sono delle forme, per fare dei sandali per tutti i bambini che sono scalzi, quindi ho bisogno di forme piccoline!".
Il padre concluse "E' come incominciare una sfida!".
Io sono molto grato nei confronti di tutte le persone che ci aiutarono per fare il laboratorio da calzolaio così come erano molto contenti tutti quelli che aiutavamo. C'erano sette accampamenti e quindi molto bisogno di scarpe e così insegnai il mestiere a circa quaranta persone. Avevamo dieci macchine ma solamente io ero in grado di dare istruzioni su come si costruivano le scarpe e su come si aggiustavano. Facevamo scarpette per bambini o scarpe per anziani come me, seguendo i gusti o i bisogni della gente perché a molti non piaceva mettersi le scarpe e usavano solo i sandali. Nell'accampamento le case erano di legno ed erano state costruite in parte da noi in parte da compagni che ci dettero una mano. Avevano il tetto di lamiera e quindi erano molto calde, Dio mio che caldo, ma il peggio che soffrivamo lì era causato dall'Jocote che era la legna che potevamo usare per far da mangiare, perché faceva un fumo incredibilmente nero. Non avevamo il permesso dei militari per uscire a cercare un po' di legna fine per fare i fuochi. Tutte le volte che uscivamo dai confini del campo a cercare della legna o a guardare le nostre manzane di terra o ci catturavano o ci ammazzavano. L'unica possibilità era di uscire accompagnati dagli internazionali che facevano da garanti per noi. Soffrivamo molto e in questa maniera abbiamo vissuto negli accampamenti per nove anni.
Mi piace che registrate quello che dico perché è una forma di sicurezza, come una firma a quello che sto dicendo.
Potremmo parlarvi anche di come uccisero il mio ultimo figlio, l'ultimo figlio della signora, lei non ha mai voluto vedere né sentire né parlare di quando uccisero suo figlio, di quando morì.
Doña Estebana lo interrompe dicendo: "Io nemmeno desidero ricordarmi di tanta crudeltà! Quando ci penso mi entra una cosa che non so dire che cos'è però non voglio capire, sono cose che conservo qui nella mia mente delle quali però non desidero parlarne."
Don Santos: "allora vi parlo di quando in Mesa Grande si cominciarono a fare delle riunioni per organizzarci e per decidere di tornare a ripopolare queste zone.
Ma è Doña Estebana a proseguire: "Il primo che incominciò a parlare di questo progetto è stato un Monsignore, là in Mesa Grande. Parlandone tra noi ci convincemmo a partire ed acquistammo forza perché prima non ne avevamo a sufficienza per lasciare tutto e muoverci con i bambini. Però ci siamo detti che in Salvador vivevamo e lì dovevamo tornare a stare. Quando incominciammo a partire da Mesa Grande era il 13 Agosto del 1988, rimanemmo bloccati il 13 14 ed il 15 alla frontiera del Poj perché i militari non volevano far passare gli internazionali. Erano in 25 e ancora non ho capito come ma riuscirono a passare tutti, a saber da dove ma passarono. Il 16 arrivammo a dormire nel camion qui sotto a Tejutla. La mattina dopo ci dissero che col camion non si poteva salire, che la macchina grande non poteva passare, ed allora trovammo alcune macchine piccole per caricare il materiale, perché mancava ancora molto per arrivare a Teosinte. Molta gente disse "Buenos Vamos adelante" per vedere come si poteva fare ed a me mi lasciarono a curare i bambini ed il materiale che avevamo portato fin lì. Il giorno dopo arrivammo a Teosinte.
All'inizio si riuscì a metter a posto solo una casa dove dormivamo tutti, anche gli internazionali finché non riuscirono a procurarsi una tendina. Per dormire quindi si rimediò ma per mangiare che cosa avevamo? Non avevamo niente per macinare il mais che ci serviva per fare le tortillas e ci chiedevamo "Dio mio come possiamo mangiare?".
In effetti il cibo fu un gran problema. Però pian piano incominciammo a mettere a posto le altre case. Era duro costruire case vivendo in quella maniera ed infatti arrivai al punto di non farcela più e se non mi avessero portata all'ospedale sarei morta per davvero. Non potevo più camminare e così decisero di far venire la Croce Rossa. Io però non volevo andare perché non mi fidavo, avevo paura perché già molta gente era morta in modo strano senza più uscire dalle ambulanze della Croce Rossa. Mi sarei adattata a morire lì piuttosto che salire sull'ambulanza, ma la Elena, una dottoressa americana, mi accompagnò insieme a Terenzio un ragazzo italiano che era vissuto con noi fin da Mesa Grande. I militari però non volevano lasciar passare neanche l'ambulanza e mi tennero bloccata diverso tempo per ordini superiori. Terenzio andò a parlare più volte con il comando militare, accusandoli di violare tutte le elementari regole umanitarie bloccando una ambulanza della Croce Rossa, ma per molto tempo non mi lasciarono passare. Rimasi quindi circa 22 giorni all'ospedale di San Salvador, e poi decisi di tornare a casa ma al posto di blocco un'altra volta non mi volevano far passare ed io dissi: "lasciatemi andare che piuttosto che stare qui preferisco morire nel cammino". Ma come vedete sono qui e non sono ancora morta!
L'altro giorno ne parlai con Bruno un prete italiano, il quale mi disse che non avrei dovuto pensare a morire, ma io gli risposi: "Come no, certo che dobbiamo pensarlo, perché prima o poi deve arrivare anche se io non volessi, ed infatti non voglio ancora morire, però non vanno mica a chiedere il permesso a nessuno!"
"Ha parlato!" è Don Santos ora a proseguire serenamente.
Noi eravamo contenti di vivere qui a Teosinte, questo posto ci piace. I ragazzi che vivevano combattendo su queste montagne avevano bisogno di qualche aiuto, di acqua, di cibo, di vestiti, di qualcuno che gli aggiustasse le scarpe.
Portavano degli zaini che non si potevano sollevare da quanto pesavano ed erano inoltre oberati dal peso delle armi. Vivevano spesso in trincee per non venire colpiti dalle bombe, anche se ci chiedevamo come potevano viverci lì dentro. Io ho sempre pensato che quelle trincee fossero utili solo a quelli erano da seppellire più che ai vivi!
Qui a Teosinte ora si vive meglio, bene direi, non ci sono bombe, non ci sono elicotteri che volano e che mitragliano nella notte anche se ogni tanto se ne sente qualcuno ancora e mi dico che forse sono del presidente che sta passeggiando.
Io preferisco stare qui a Teosinte e spero che si riesca a comprare questa terra collettivamente perché è costata tante fatiche e tanti morti di tutti. Io penso che non ci debbano essere né individualismo né egoismi. Qui abbiamo organizzato lavori collettivi, lavori di donne, lavori per le vedove che non hanno la terra e non possono andare nei campi a coltivare la milpa e per quelle che, avendo solo figlie femmine, non hanno nessuno che possa lavorare per loro. Con il lavoro collettivo si possono aiutare queste persone perché i frutti del lavoro vengono distribuiti a tutti. Se non fosse così non potrebbero avere niente da mangiare, neanche una tortilla e non avrebbero i soldi per comprarsi neanche un fagiolino, che oltre tutto adesso sono molto cari, perché i prezzi continuano a salire. Sette pesos e cinquanta per una libbra di fagioli, una libbra non è niente, quasi sarebbe meglio mangiarsi direttamente i soldi!
Dobbiamo avere molto cervello per mantenerci, dobbiamo fare attenzione a seminare sempre qualcosa, perché per poco che sia serve a sfamarsi, mentre se uno non ha niente cosa può mangiare?
La donna che vive qui di fronte a noi ha cinque figli, quattro femmine ed un maschio piccolino di due anni e quindi c'è da aspettare ancora prima che lavori. Il marito ed il figlio più grande sono andati poco tempo fa a cercare del materiale in case abbandonate, delle tegole da mettere sul loro tetto di lamiera, ma sono saltati in aria su di una mina. Lei adesso non sa proprio come fare perché non ha niente per mantenere le figlie. Lavora come sarta nel laboratorio di artigianato della comunità, ma qui da noi non riusciamo a vendere i prodotti. Non riesce neanche a rastrellare i soldi per comprarsi il mulino per macinare il mais.
Qui in comunità facciamo praticamente tutto da soli perché
ci hanno promesso un sacco di cose quelli che sono venuti qui,
ognuno qualcosa, la luce elettrica, l'orologio per il campanile,
l'acqua, ma alla sera se non c'è luna noi qui rimaniamo
con le candele mentre per sapere l'ora aspettiamo che ce lo dica
la radio. L'acqua ce l'abbiamo ma l'abbiamo portata facendo tutto
da soli, se no chissà che sete perché fino ad ora
non abbiamo mai visto niente. Qui se uno non lavora non mangia.
Da adesso in avanti non possiamo sapere cosa faranno per noi,
ma fino ad ora l'unica cosa che ci hanno mandato da parte del
presidente sono i morti, nessun altro risultato.
Don Santos Y Doña Estebana
Flor de Maria Orellana Menjivar (11
anni)
Io avevo una sorella che la uccisero quando venivamo dall'Honduras ed a me mi mandarono a dirlo alla nonna.
Rosa Lilian Guardado (11 anni)
Due anni fa, quando avevo 10 anni, vicino a Teosinte c'erano i guerriglieri che stavano bagnandosi nel fiume quando si udirono gli spari. Noi eravamo a scuola ed io mi spaventai e picchiai la fronte e incominciai a piangere. Entrammo in una casupola per ripararci con i quaderni le penne ed i libri. Mi preoccupai molto perché non sapevo come stavano i miei genitori ed i miei fratelli più piccoli e quando finirono gli spari andai a casa correndo.
Oscar Rutilio Guardado Alas (12 anni).
Mentre andavamo incontro ai rifugiati che venivano da Mesa Grande verso El Salvador, durante il cammino uscirono alcuni soldati che non ci volevano lasciare passare e allora noi tornammo verso Teosinte molto tristi e preoccupati perché gli altri non venivano con noi. In aggiunta catturarono un ragazzo che era venuto con noi.
Isaac Orellana Tobar (15 anni)
Cinque anni fa, io ne avevo 9, mi stavo bagnando al fiume con i miei amici quando arrivarono i militari che incominciarono a sparare. Io con i miei amici incominciammo a fuggire per il fiume, scappavamo correndo spaventati dalla grande sparatoria. Mentre correvamo incontrammo pure un serpente che ci fece urlare di paura. Arrivò mio papà a veder cosa ci era successo e quando arrivammo a casa mia mamma si arrabbiò molto perché ci eravamo allontanati da soli.
Maudalena Menjivar (14 anni)
Una volta siamo andati ad una manifestazione a San Salvador ma i soldati antisommossa incominciarono a sparare e ad uccidere persone. L'unica che si preoccupava di me era mia madre e quando tornai a casa mi era venuta la febbre. Fu molto triste perché scampai per poco la morte.
Noemi Guardado (15 anni)
Dieci anni fa quando c'era la guerra mio papà e mia mamma ci lasciarono soli nella casa e andarono a cercare qualcosa da mangiare per noi. Ci lasciarono, per noi tre fratelli, un po' di fagioli in una pentola. Dopo un po' di tempo io uscii di casa correndo verso la montagna ed incontrai un signore che mi afferrò perché voleva portarmi a casa sua. Durante il cammino mi domandò chi era mio padre e dov'era. Siccome io già sapevo parlare bene gli dissi chi era mio padre e che era andato al "isolatillo" a cercare una capra per darci il latte. Quando mia madre tornò a casa si arrabbiò molto con i miei fratelli che mi avevano lasciato andare via e venne in giro a cercarmi fino a che incontrò delle persone che gli dissero chi mi aveva preso e dove andarmi a cercare. Quando mia madre mi incontrò era molto contenta perché pensava di non vedermi più.
Josè Isabel Garcia Avelar (13
anni)
Circa 4 anni fa nella comunità di Teosinte ci fu un serio combattimento dei soldati contro i guerriglieri. Tutti noi che eravamo nella scuola smettemmo in fretta di fare la lezione e ci nascondemmo nelle case e dietro alle pietre vicino al fiume. Ma lo scontro finì senza problemi per noi della comunità perché nessuno rimase ferito. Quando terminarono i combattimenti i soldati scesero dalle montagne vicino e invitarono tutti gli adulti della comunità a una riunione. Mio papà, Benjamin Guardado ci andò ed io che mi chiamo Bernardo Guardado mi misi dietro di lui. Incominciarono a parlare con il capo e chiesero un favore alla gente lì riunita. Dopo di questo incontro si decise di lasciar passare la alimentazione per i soldati, ma quando incominciammo a portare il cibo ci fermarono in mezzo alla strada per registrare tutto quello che trasportavamo. Poi però gli uomini vennero catturati e le donne torturate picchiate lo stesso.
Bernardo Guardado Navarrete (16 anni)
Amati e stimati compagni, spero che riceviate questa storia. Nel 1988 quando ce ne andammo dall'Honduras arrivammo al confine del Poy con il Salvador ed il comando dei militari non ci voleva lasciar passare perché con noi c'erano anche degli internazionali. Loro si disperarono perché volevano venire con noi. Quando arrivammo a Teosinte c'erano gli elicotteri che sparavano ed altri aerei che volavano nei dintorni minacciosi. Dopo un po' però le cose si misero più tranquille. Altre volte venivano i soldati e sparavano qualche colpo. Una volta nella comunità fecero una riunione e discussero su cosa fare in questi casi e così quando i soldati arrivarono la volta seguente una signora del villaggio gli rispose per bene, dicendogli che se fossero tornati ancora gliele avrebbero date e che se fossero tornati con altri soldati gliele avrebbero date ugualmente.
Rubia (13 anni)
Quando venivamo da Mesa Grande in Honduras rimanemmo per cinque giorni bloccati dai militari al confine e noi venivamo tristi ma anche allegri perché stavamo tornando a casa. Era inverno e quando arrivammo a Teosinte le case erano cadute tutte e gli uomini incominciarono a ricostruirle per viverci dentro. Noi eravamo piccoli e piangevamo perché non avevamo dove dormire e perché avevamo paura dei soldati che giravano attorno la comunità apposta per litigare con gli uomini e per ammazzare le galline. Questa storia è stata triste.
Amanda Alexandra (13 anni)
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2) Le 5 formazioni sono. F.P.L. (Fuerzas Populares
de Liberacion), E.R.P. (Ejercito Revolucionario del Pueblo), R.N.
(Resistencia Nacional), P.C.S. (Partito Comunista Salvadoregno)
e P.R.T.C. (Partido Revolucionario de los Trabajadores del Campo).
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