CRIMINI E CRIMINALI DI GUERRA IN BOSNIA ERZEGOVINA
CONTABILITA' DEL "MACELLO BOSNIACO" TRA MEMORIA E RIMOZIONE


aprile 2001, di Ilario Salucci

 

La guerra bosniaca, dopo esser stata al centro di intensi dibattiti e iniziative nella sinistra italiana per i tre anni e mezzo della sua durata, è oggi una guerra dimenticata, se non addirittura rimossa.
A livello editoriale, a parte la traduzione dell'ottimo volume di Malcolm (un libro uscito originariamente nel 1994!) (1), questi ultimi cinque anni hanno visto l'uscita di ben poco, e di diseguale valore (2). Non mi sembra che le varie pubblicazioni della sinistra abbiano dato spazio a riflessioni e dibattiti retrospettivi su questa guerra, neppure in occasione di quella in Kosova e dei bombardamenti della Nato sulla Federazione Jugoslava. Anzi in quell'occasione fu un lapsus generalizzato l'affermare che "per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale, paesi dell'Europa occidentale hanno direttamente partecipato a una guerra sul suolo europeo". La cancellazione delle due settimane di bombardamenti Nato in Bosnia a partire dal 31 agosto 1995 fu la spia di una rimozione generalizzata dell'esperienza della guerra bosniaca. Questa dimenticanza e rimozione riguarda naturalmente anche l'aspetto dei "crimini di guerra" compiuti in Bosnia, delle loro vittime e dei loro carnefici. In Italia, ad esempio, a differenza della Francia, della Gran Bretagna e degli Usa, della Germania, dell'Olanda, non un volume è stato pubblicato sul massacro di Srebrenica del luglio 1995. Quando a livello giornalistico (e non solo) si discute del Tribunale penale per i crimini di guerra commessi nell'ex Jugoslavia sicuramente si troverà il nome di Milosevic per quanto avvenuto in Kosova, ma molto probabilmente non si troveranno più quelli di Karadzic e Mladic.

Gli usi politici dei crimini di guerra in Bosnia
In Bosnia il discorso sui crimini di guerra è invece un terreno più che scottante. Da parte bosgnacca il ricordo dei massacri di massa e delle deportazioni subite viene pesantemente utilizzato dal SDA, che ha, con un impatto simbolico importante, messo come capolista alle ultime elezioni politiche Amor Masovic, il presidente della Commissione di Stato per gli scomparsi(*). Il discorso del SDA si snoda lungo i percorsi del martirologio musulmano, ritmato dalla scoperta ancora oggi quasi settimanale di fosse comuni, e molte volte si riduce a far rivivere in modo diretto i momenti traumatici della guerra e dei massacri, con una talvolta implicita e talvolta esplicita colpevolizzazione collettiva della parte serba. Quando a Tuzla è stato recentemente invitato per un festival musicale un gruppo rock di ragazzi della Republika Srpska, il SDA gridò allo scandalo, perché "questi prima ci sparavano e ci massacravano e adesso li invitiamo a suonare le canzonette". Questa assunzione politica da parte nazionalista bosgnacca, assunzione sventolata e gridata, fa da pendant al "settore democratico", dove la memoria dei massacri viene vista come un pericolo per l'avvicinamento tra le due entità della Bosnia, perché inaccettabile alla parte serba. La memoria delle vittime bosgnacche diventa davvero solo "capitale politico" del SDA ­ per taluni addirittura l'unico "capitale politico" che gli consente di avere un radicamento di massa.
Diversamente dalla parte croata e serbo bosniaca, nel campo bosgnacco ampio spazio è dato ai crimini di guerra di cui si rese a suo tempo responsabile l'Armija. Praticamente ogni caso rilevante è oggetto di copertura giornalistica in cui si succedono rivelazioni, accuse e controaccuse, dove la responsabilità personale di Izetbegovic viene sollevata apertamente. E' una vera e propria guerra sotterranea che si sviluppa sulla questione dei crimini di guerra, anche a colpi di falsi(*), sul caso di Grabovica, di Uzdol, di Miletici, di Bugojno, di Zirovac, dei serbi di Sarajevo, di Srebrenica nel dicembre 1992 ­ gennaio 1993, del gruppo Seve, ecc. (3). Questo non impedisce che il discorso ufficiale tenuto dal SDA sia sostanzialmente negazionista: i crimini di guerra dell'Armija sarebbero totalmente insignificanti e determinati solo dalla rabbia e dalla volontà di vendetta di singoli gruppi di soldati (4).
Ai clamori, per un verso o per l'altro, di Sarajevo si oppone il silenzio di Banja Luka e di Mostar. Per entrambe ogni incriminazione da parte del Tribunale internazionale ai danni di propri concittadini è una "colpevolizzazione collettiva del popolo serbo" o "del popolo croato". La posizione del HDZ bosniaco è semplicemente la negazione che vi siano stati crimini di guerra commessi da parte croata ­ solo la conduzione della guerra patriottica. Da parte della Republika Srpska la tematica dei crimini di guerra è invocata a sostegno della lettura che viene fatta della guerra del 1992-1995, che sarebbe stata una guerra civile, etnica: a dimostrazione le atrocità che tutti i contendenti, e non una sola parte, hanno commesso. Ma al di là di questo discorso il silenzio è totale: non sono state fornite stime da parte serba delle proprie vittime durante la guerra; quando il giornale Nezavisne Novine, nonostante l'approccio comunque "patriottico", sollevò nel 1999 alcuni specifici casi di crimini di guerra compiuti ai danni dei musulmani, venne piazzata una bomba nella autovettura del suo direttore, Zeljko Kopanja: si salvò per miracolo, ma dovette subire l'amputazione di entrambe le gambe (5). A Banja Luka il discorso dei crimini è fondamentale per sostenere la propria lettura della guerra passata ­ purché questo discorso rimanga nei confini della semplice evocazione.

La guerra vista dall'Italia
Vi è una imbarazzante sintonia tra questo atteggiamento di Banja Luka e quello che fu durante (e dopo) la guerra bosniaca l'atteggiamento di molta sinistra italiana. Anche in Italia il paradigma di lettura degli avvenimenti bosniaci fu quello della "guerra etnica" (6), e venne pesantemente utilizzato l'argomento che "vittime e carnefici stanno da tutte le parti". Ed infine anche qui in Italia il discorso dei crimini di guerra, pur se utile per una certa argomentazione, rimase ad un livello evocativo.
Che quella bosniaca fosse una "guerra etnica" fu un dogma generalizzato. Secondo le parole di Giulio Marcon, quella bosniaca fu "una guerra interetnica, civile e nazionale non si può in modo semplicistico colpevolizzare solo le leadership nazionaliste [c'era] responsabilità e consenso di vaste parti delle comunità a un nazionalismo che affonda nella cultura e nelle coscienze delle popolazioni [c'è stato un] ricorso automatico alla violenza e [la] degenerazione di un conflitto determinato dall'odio nazionale [con] forme autistiche, gratuite, autodistruttive di violenza" (7).
In questo la sinistra si trovò in sintonia con l'opinione dei maggiori circoli dirigenti italiani. Venivano usate, dalla sinistra e dal governo, le stesse parole per dipingere la situazione bosniaca. Così il ministro della difesa Fabbri, dopo l'uccisione di tre volontari italiani in Bosnia, afferma il 1° giugno 1993 che c'è "un clima avvelenato e intossicato dalle fazioni in lotta, un ginepraio pericolosissimo e gravido di sangue". Matteo Moder su Il Manifesto di pochi giorni dopo (il 12 giugno) dice lo stesso concetto quasi con le stesse parole: c'è un "formicaio di fazioni e controfazioni, bande e controbande, che sparano su tutto ciò che si muove dai pacifisti italiani a chi attraversa la strada è un ginepraio inestricabile" (8). In quegli anni il termine più utilizzato negli articoli che trattavano della guerra bosniaca fu quello delle bande paramilitari, bande irregolari di tutti i colori e le specie - era la loro presenza, le loro azioni che disegnavano questo ginepraio bosniaco.
In realtà non esistevano bande paramilitari fuori controllo ­ ma formazioni militari ciascuna con precise linee gerarchiche. Oggi sappiamo con esattezza, ed al di là di ogni dubbio, che i crimini di guerra commessi furono pianificati dalle varie gerarchie militari e politiche, ed eseguite dai subordinati (9). Le cosiddette "unità speciali" che operarono in Bosnia furono formazioni militari che avevano altre linee gerarchiche rispetto alle unità standard: rispondendo direttamente allo staff di divisione (o gruppo operativo) o a quello del corpo d'armata, o alla direzione centrale del Ministero della Difesa, o a quella del Ministero degli Interni. Le linee gerarchiche potevano essere anche particolarmente complesse, come sembra sia stato il caso della strage di Ahmici (più di cento civili musulmani trucidati nell'aprile del '93), dove a un certo livello i personaggi chiave erano membri dei servizi di sicurezza croati che rispondevano direttamente a Tudjman e a Susak, a Zagabria (10). Ma per quanto complesse queste linee gerarchiche fossero, esistevano e inquadravano tutti i vari attori militari della guerra bosniaca.
Qui risiede l'elemento critico. Il fatto che crimini di guerra siano stati commessi da tutte le parti in conflitto sostanzia la visione di una guerra civile, di una guerra etnica popolare. Ma una volta che si analizzano i massacri terribili che sono stati commessi in Bosnia, il dove, il quando, il come, il perché, e con la responsabilità di chi, un'altra logica emerge, ben diversa.
Per questo i crimini e i criminali di guerra per qualcuno andrebbero sempre evocati, ma mai indagati.

Pulizia etnica e massacri di massa in Bosnia
La Bosnia dell'inizio anni '90 è irriconoscibile se raffrontata a quella che è emersa dalla guerra del 1992-95. Dalla fine della guerra non è stato effettuato alcun censimento e quindi non si dispone di dati certi, ma una serie di studi e di dati grezzi consentono di fare comunque tale raffronto (11).
Del centinaio di municipalità che la Bosnia contava nel periodo anteguerra, più di 40 risultano oggi divise tra le due entità in cui è divisa la Bosnia, la Republika Srpska (RS) e la Federazione di Bosnia-Erzegovina (FBH), portando a quasi 150 le municipalità oggi esistenti. Sul territorio dell'odierna RS si stima (a un più o meno il 10%) che la composizione nazionale nel 1991 fosse la seguente:

 Bosgnacchi  550.000  33%
 Serbi  800.000  48%
 Croati  200.000  12%
 Altri  120.000  7%
 Totale  1.670.000  

Dopo la guerra dei 550.000 bosgnacchi non ne rimanevano più di 25-30.000 ­ gli altri espulsi dalle loro case, fuggiti, o massacrati. Dei croati non ne rimanevano più di 10-15.000. Le stime sulle altre nazionalità (che nel 1991 per i due terzi erano persone che si definivano "jugoslavi", e che oggi probabilmente si identificano in una delle tre nazionalità principali della Bosnia) variano tra le 10.000 e le 50.000 persone. Le stime invece della popolazione serba in RS sono estremamente diverse, e variano dalle 800.000 al milione e mezzo (12) (questi dati includono i circa 40.000 rifugiati serbi croati presenti sul territorio della RS). A mio avviso un dato realistico è di circa 1.000.000 ­ 1.100.000 persone, comprensivo di circa 200.000 rifugiati serbi provenienti dalla FBH, ed altri 40.000 provenienti dalla Croazia.
La composizione nazionale della popolazione della RS all'uscita della guerra sarebbe quindi illustrata dal seguente prospetto:

 Bosgnacchi  30.000  2,5%
 Serbi  1.100.000  92%
 Croati  15.000  1,2%
 Altri  50.000  4,3%
 Totale  1.195.000  

La popolazione bosgnacca e croata nei territori della RS è quindi passata nel corso della guerra dal 45% a 3,7%, con un saldo netto negativo di circa 700.000 persone. Tutte le fonti, le testimonianze, i resoconti giornalistici, le ricerche sulla guerra bosniaca concordano nell'affermare che la grandissima maggioranza dei massacri e delle espulsioni di bosgnacchi e croati avvenne nei sei mesi che vanno dalla primavera all'autunno 1992. Se si tiene conto che successivamente, a un livello significativo, vi fu un'ondata di espulsioni a Prijedor nel 1994, le espulsioni e i massacri a Srebrenica e Zepa nel luglio 1995, e un'ondata di espulsioni di croati da Banja Luka nel settembre 1995, si può affermare che nei primi sei mesi di guerra circa 650.000 persone furono o massacrate o espulse dai territori dell'attuale RS. Per l'esattezza le vittime (quasi totalmente bosgnacche) furono in quei mesi tra le 50.000 e le 100.000 persone.
"Ripulire" la RS di tutte queste persone in un così breve lasso di tempo fu un'operazione estremamente complessa e che fu pianificata e organizzata a livello civile e militare per parecchi mesi prima dello scoppio della guerra. La logica dei massacri compiuti non fu solo di terrorizzare la popolazione civile perché scappasse, ma anche creare una definitiva frontiera di sangue e di orrori tra la popolazione serba e tutte le altre - rendere impossibile nel futuro ricreare la Bosnia d'anteguerra (13). La violenza scatenata fu solo apparentemente autistica e gratuita (e per nulla autodistruttiva), ma accuratamente pianificata ed eseguita. Vi furono sicuramente persone inequivocabilmente psicopatiche o sadiche che operarono in questa situazione (basti ricordare gli avvenimenti di Teslic denunciati da Kopanja, o i diversi massacri e uccisioni perpetrati nei campi di concentramento, su cui molto materiale è stato fornito in una serie di processi al Tribunale dell'Aja (14)), ma queste persone erano state appositamente messe in una posizione di responsabilità, perché la loro psicologia rispondeva alle esigenze politiche e militari del momento (15). Lo stesso discorso riguarda gli avventurieri e i puri e semplici gangster che operarono durante la guerra bosniaca.

Tracciare un quadro della situazione della FBH del dopoguerra è compito molto più difficile. All'aleatorietà delle stime (che riguarda evidentemente anche l'analisi della RS), si aggiungono movimenti di popolazione di grossa portata durante e dopo la guerra, che complicano infinitamente il tentativo di tracciare la composizione nazionale della FBH. La situazione al 1991 è con ogni probabilità data dal seguente prospetto (anche in questo caso con un più o meno 10%):

 Bosgnacchi 1.350.000  50%
 Serbi  550.000  21%
 Croati  550.000  21%
 Altri  220.000  8%
 Totale  2.670.000  

L'unica cosa che si può affermare sulla situazione alla fine della guerra è che la popolazione serba presente nel territorio della FBH era approssimativamente 80.000-100.000 persone. Delle persone rimanenti circa il 45% era rifugiato nella Federazione Jugoslava, un altro 45% nella RS ed il restante 10% in altri paesi, soprattutto europei. Sulla consistenza numerica delle altre nazionalità le stime esistenti sono troppo diverse fra loro per poter tentare una qualsiasi sintesi. Anche le stime sulla suddivisione della FBH tra i territori sotto il controllo dell'Armija e quelli sotto controllo del HVO sono troppo divergenti.
Quindi circa 450-470.000 persone di nazionalità serba, che risultavano residenti nell'attuale territorio della FBH, non risultano più vivere su questo territorio. Il processo per cui sono divenuti rifugiati è però molto più complesso di quello che ha portato all'esodo di bosgnacchi e croati dalla RS.
A differenza dell'esercito serbo bosniaco, la formazione dell'Armija è stata graduale, ed i primi due-tre mesi di guerra hanno visto la formazione di molti gruppi spontanei (16). Le strutture pre-esistenti della Difesa Territoriale e della Polizia sono state sconvolte dall'inizio della guerra e la struttura della Lega Patriottica (una formazione militare clandestina nata all'ombra del SDA nei mesi precedenti della guerra) era troppo limitata per costituire da subito lo scheletro del nuovo esercito bosniaco. Ciò ha comportato che le varie linee gerarchiche si sono via via formate e definite nel corso dei primi due-tre mesi di guerra: nell'arco di questo periodo vennero commessi dei crimini di guerra (come ad es. l'uccisione di civili serbi a Sarajevo, in una situazione di guerra strada per strada, senza ancora una precisa linea del fronte) da parte di singole unità. Questa situazione è stata tuttavia eccezionale e temporalmente molto limitata. A partire dal giugno 1992 l'elemento "spontaneo" della guerra non esiste più (17). I crimini perpetrati dalle formazioni croate sono decisi dai vertici militari del HVO e da quelli politici dell'Herceg Bosna e del HDZ. In campo bosgnacco la situazione è meno lineare. Le autorità di Sarajevo si dichiarano per una Bosnia multinazionale ed unita, e viene formato un governo di "unità nazionale" con i partiti antinazionalisti esistenti, con membri anche di nazionalità serba e croata. Secondo fonti dell'Armija, al suo nascere l'esercito bosniaco contava il 12% di ufficiali serbi e il 18% di ufficiali croati (*). All'interno del potere di Sarajevo esisteva tuttavia una potente lobby diretta dal "nucleo storico" del SDA che creò strutture parallele a quelle statali, e che si appropriò di una serie di leve di potere decisive (18). I crimini commessi da parte bosgnacca rinviano a questo "stato parallelo" creato dal SDA: le formazioni di "Caco" e "Celo" a Sarajevo, il gruppo Seve, l'unità di Zulfikar Ali Spaga, ecc. ecc. avrebbero avuto come linee gerarchiche non quelle formali date dalla struttura militare dell'Armija, ma linee gerarchiche che arrivavano direttamente ai massimi vertici politici del SDA (Izetbegovic) aggirando quelle statali. Questa lobby riuscì nel corso del tempo a controllare dapprima pezzi dell'apparato statale e militare (due punti di forza furono sempre il Ministero degli Interni ­ e quindi le relative forze di polizia, MUP - e il corpo d'armata di stanza a Zenica), e successivamente a "appropriarsene" definitivamente a partire dall'inverno '93-'94. Alcune zone significative, come Tuzla, rimasero tuttavia sotto il controllo di forze ostili al SDA e in questi territori non vi furono crimini di sorta. Alla fine della guerra tra gli ufficiali dell'Armija la percentuale di serbi e croati era scesa al di sotto dell'1%.
I crimini di guerra compiuti dalle forze croate e bosgnacche non raggiunsero comunque mai le dimensioni dei crimini compiuti dal SDS serbo bosniaco. Le vittime dei crimini compiuti dal SDS furono dell'ordine di molte decine di migliaia di persone, quelle dei crimini compiuti da HDZ e SDA nell'ordine di alcune migliaia di persone (di cui una percentuale significativa nel quadro della guerra croato-bosgnacca) (19). Questi crimini furono più legati alla dinamica militare specifica, se non addirittura a lotte politiche intestine. Anche l' HVO, che compì crimini molto più ampi di quelli commessi dalle forze bosgnacche, pur perseguendo la "pulizia etnica" delle zone sotto proprio controllo, non arrivò mai al livello dei massacri generalizzati che vi furono in RS: si "accontentò" delle stragi "strettamente necessarie" a far fuggire la popolazione che si voleva spostare.
La popolazione di nazionalità serba nei territori dell'attuale FBH subì sicuramente in alcune zone (non in tutte) violenze e uccisioni. Ma non vi fu alcun piano di espulsione preordinato attuato tramite massacri generalizzati. L'esodo in alcuni casi e la cacciata in altri di questa popolazione avvenne nel corso di tutta la guerra (l'ultimo atto furono le 50.000 persone che abbandonarono i quartieri di Sarajevo trasferiti secondo gli accordi di Dayton dall'autorità della RS a quella della FBH nel 1996), e in questo processo la progressiva conquista del potere a Sarajevo da parte dei nazionalisti bosgnacchi del SDA a detrimento dei settori contrari alla divisione della Bosnia ha avuto un peso politico decisivo.

"Vittime e carnefici" vi furono sicuramente da tutte le parti in conflitto ­ se si intende con "parti in conflitto" le popolazioni serba, croata e bosgnacca. La dimostrazione della "guerra etnica" sta nel suo stesso assunto, che le "parti in conflitto" siano le tre popolazioni bosniache.
Ma i crimini di guerra non furono il risultato "dell'odio e della vendetta", di forme "autistiche e gratuite" di violenza. Massacri e stragi erano pianificati e organizzati nella misura in cui erano funzionali a determinati fini. Indagandoli si trovano nomi, cognomi, partiti, gerarchie civili e gerarchie militari. Si scopre che quanto avvenne a Prijedor, Bijeljina, Foca non può neppure lontanamente essere paragonato a quanto avvenne a Konijc, a Sarajevo, a Zenica. Si scopre che la situazione del giugno 1992 non è neppure lontanamente paragonabile a quella del giugno 1994.
La logica della guerra civile, etnica non permette di spiegare quanto avvenne ­ la logica all'opera era un'altra.

Il Tribunale dell'Aja e la natura della guerra bosniaca
Ha ragione Danilo Zolo ad affermare che "il Tribunale dell'Aja è un tribunale che asseconda le grandi potenze occidentali" (20). La sua indipendenza è solo formale: per la nomina dei procuratori generali, per l'assenza di polizia giudiziaria, per il suo finanziamento. Le indagini del Tribunale dipendono sostanzialmente dal materiale fornito dall'intelligence delle varie grandi potenze e dal materiale che viene sequestrato dalla SFOR in Bosnia: in assenza di queste documentazioni l'attività principale del Tribunale ­ risalire le linee gerarchiche per punire chi decise dei crimini di guerra - verrebbe sostanzialmente annullata. La vicenda di Milosevic è esemplare: ancora oggi non è affatto incriminato per tutto quello che avvenne in Bosnia, dato che le potenze occidentali non han fornito alcuna documentazione a questo proposito, ma solo per i crimini commessi in Kosova. Appare scontata in questo contesto anche la non incriminazione dei vertici della Nato per il bombardamento di obiettivi civili durante la primavera del '99. Questa dipendenza è, in linea generale, di ordine strutturale, e non di ordine personale di questo o quel procuratore, presidente, investigatore o altro: le investigazioni del Tribunale finora rese note hanno un altissimo livello di professionalità, e ­ per quello che possono ­ cercano di risalire ai responsabili politici e militari dei crimini commessi. I processi ai massimi vertici politici e militari del HVO croato bosniaco e quelli ai massimi vertici dell'esercito serbo bosniaco lo dimostrano.
I processi per crimini di guerra celebrati finora in Bosnia risultano ben più condizionati politicamente: ne sono stati fatti ben pochi (in RS nessun serbo bosniaco è comparso davanti a un tribunale per crimini di guerra), per personaggi di second'ordine, senza alcuna ricerca delle responsabilità anche immediatamente superiori, con investigazioni molto approssimative e con una magistratura strettamente legata ai vertici politici (21).
Ma, al di là delle considerazioni di ordine giudiziario, solo la disponibilità delle "carte della guerra" permetterà di fare vera luce su quanto avvenne negli anni della guerra. In Croazia si è avuta con l'ascesa di Racan e Mesic una "rivoluzione in sedicesimo", e questo ha portato a un'apertura degli archivi presidenziali e dei servizi segreti di gran lunga inferiore al "sedicesimo" di cambiamento politico: ma anche solo questa limitatissima apertura ha mostrato tutta una serie di fatti e responsabilità per nulla marginali. Un discorso analogo potrebbe essere fatto per quanto riguarda la Bosnia. Le carte croate hanno provato gli stretti rapporti tra HDZ croato e SDS serbo, con il ruolo chiave di Ivica Rajic, pressoché di casa nell'esercito serbo bosniaco (22), il ruolo chiave dei servizi segreti di Zagabria nella strage di Ahmici, il fatto che il comandante in capo del HVO, il gen. Petkovic, presiedette di persona alla strage di Stupni Do. Immagino che gli archivi bosniaci possano fornire informazioni ben più importanti, e potranno permettere di vedere la guerra bosniaca in modo ben diverso dalla vulgata tradizionale ­ quella della guerra patriottica e nazionale del popolo serbo, o croato o bosgnacco, in un contesto, per gli uni, di guerra civile, per gli altri di guerra d'aggressione.
Questi archivi potranno permettere di cogliere l'ampiezza degli accordi ­ dietro il fragore delle battaglie ­ tra i tre soggetti politici principali, SDS, HDZ e SDA. Potranno permettere di tracciare la guerra politica che si sviluppò a Sarajevo e l'affermarsi del progetto di "stato dei musulmani" in piena sintonia con gli obiettivi delle leadership serbo bosniache e croato bosniache. Potranno permettere di cogliere il ruolo decisivo della cosiddetta "comunità internazionale" che fin da prima della guerra si mosse risolutamente nella direzione di una divisione della Bosnia con i "progetti Cutiliero", approvò compiaciuta la distruzione della società bosniaca nel 1992 (23), partecipò attivamente alla distruzione delle forze che si battevano per una Bosnia unita rafforzando il settore nazionalista musulmano, e risolse la guerra proclamando la democrazia e realizzando una struttura di apartheid nazionale con gli accordi di Dayton.
La posta in gioco nella guerra bosniaca fu ridisegnare la mappa degli equilibri serbo-croati nei Balcani ­ giungere a questi equilibri era nell'interesse sia di Zagabria, sia di Belgrado, sia delle maggiori capitali europee e nordamericane. In questi nuovi equilibri una piccola lobby bosgnacca poteva trovare anche qualcosa per sé. Per questo era necessario arrivare alla divisione della Bosnia attraverso la costituzione di "entità" omogenee sia dal punto di vista territoriale che dal punto di vista nazionale. Il "lavoro sporco" di distruzione nel sangue e negli orrori della società bosniaca venne assunto dal SDS e da Belgrado ­ nessuna divisione della Bosnia sarebbe stata possibile senza quest'opera preventiva - mentre le leadership croate e bosgnacche traevano i frutti di questa distruzione costruendo i loro apparati statali, e mettendoci del proprio per quello che fu loro possibile. La diplomazia internazionale ci mise i cartografi e i costituzionalisti e tutto il suo peso perché chi non accettava questa prospettiva fosse escluso dagli aiuti umanitari e dai rifornimenti militari (24). L'importante era che venissero cancellate quelle forze che fecero adottare a Sarajevo la "Piattaforma della Presidenza della Repubblica di Bosnia Erzegovina nelle condizioni di guerra" il 26 giugno 1992, dove si affermava che "la Bosnia Erzegovina non accetterà negoziati basati sulla costituzione di territori etnicamente omogenei o divisioni regionali della Bosnia Erzegovina secondo esclusive regole etniche" (25).
Il ruolo delle potenze occidentali è stato finora quello più sottaciuto o erroneamente interpretato. E' ben illustrato dal corso degli avvenimenti dell'ultimo anno di guerra (26). Fin da marzo tutti gli attori bosniaci erano al corrente che in estate vi sarebbe stato un intervento da parte della Croazia che avrebbe portato ad una "stretta diplomatica" decisiva, con una definizione della divisione della Bosnia realizzata direttamente sul terreno rispettando le percentuali fissate internazionalmente (49 vs 51%). E' in questa situazione che l'esercito serbo bosniaco decide l'offensiva alle enclaves orientali di Srebrenica e Zepa, e a Bihac a occidente (luglio 1995), e l'Armija si lancia in una (fallita e sanguinosissima (27)) offensiva per la liberazione di Sarajevo (giugno 1995). La definizione del processo negoziale che porterà a Dayton (e che presupponeva una situazione sul terreno che si realizzerà solo a settembre) viene elaborato a Washington a partire da metà giugno. La prospettiva di un intervento Nato si concretizza a metà luglio: Srebrenica è caduta, nessuno più parla di Zepa che sta per cadere e quindi non vi sono truppe dell'Onu che possono essere prese in ostaggio: si decide di cambiare il processo decisionale per dare il via ai bombardamenti e si definiscono entro i primi di agosto gli obiettivi. All'inizio di agosto vi è l'occupazione croata della Kraijna ­ non si può parlare di riconquista visto che l'esercito serbo croato non si impegnò sostanzialmente in nessuno scontro militare, e all'inizio dei bombardamenti ripiegò in Bosnia portando con sé la maggior parte dei civili (per quelli rimasti ci pensarono le truppe croate a cacciarli, compiendo massacri e radendo al suolo i villaggi). Alla fine di agosto iniziano i bombardamenti Nato su postazioni militari serbo bosniache, e all'inizio di settembre scatta l'offensiva dell'Armija e dell'esercito croato fino ad arrivare al fatidico 49-51%. A questo punto riprende il processo diplomatico.
I vari attori bosniaci e internazionali conoscevano anticipatamente le strategie altrui e le operazioni militari in preparazione, almeno quelle più importanti. La caduta di Srebrenica e Zepa furono un passaggio decisivo nel corso degli avvenimenti che portarono a Dayton, senza le quali non si sarebbero potuti realizzare i bombardamenti Nato (a causa del personale dell'Onu che sarebbe stato preso in ostaggio), senza le quali l'esercito serbo bosniaco non sarebbe riuscito a gestire l'offensiva croato-musulmana di settembre e senza le quali non vi sarebbe stato un accordo sulla città di Sarajevo. Sono stati sottolineati alcuni fatti inquietanti. I vertici di Sarajevo fin da marzo avevano richiamato una ventina di ufficiali da Srebrenica, compreso il comandante in capo dell'Armija dell'enclave. Washington fu pubblicamente accusata dal Tribunale dell'Aja per la non collaborazione sull'inchiesta per i massacri di Srebrenica. Il comandante di una delle unità che compì i massacri (la 10° unità di sabotaggio), Pelemis, ebbe successivamente relazioni strette con i servizi segreti francesi, e nel 1997 lavorò per loro, insieme a molti membri della sua unità, come mercenario nello Zaire. Ma anche se Washington, Parigi, Londra e Sarajevo non realizzarono un accordo formale e preventivo sulla caduta di Srebrenica, di certo l'operazione condotta dall'esercito serbo bosniaco fu ben accolta e vista con sollievo. Era perfettamente funzionale al successo del processo diplomatico, alla fine della guerra e alla divisione della Bosnia.

La cattiva coscienza della sinistra italiana
La sinistra italiana ­ mi limito alle posizioni espresse da il Manifesto, da Rifondazione Comunista e dall'insieme di realtà riunitesi nell'ICS ­ durante la guerra si espresse sempre a favore di una Bosnia Erzegovina unita e multinazionale, con poche eccezioni (Luciana Castellina e tavolta Tommaso Di Francesco). Il problema iniziava allorquando si passava dalle posizioni di principio alle prese di posizioni politiche concrete. Infatti la guerra bosniaca venne subito vista come una guerra civile tra tre popolazioni in cui nessuna speranza concreta vi era di mantenere o ricostruire la Bosnia multinazionale ­ per cui l'unica opzione era quella di terminare un macello senza senso a qualsiasi costo. Di qui l'importanza chiave data al ruolo di interposizione (dei pacifisti nonviolenti o delle truppe dell'Onu), di arrivare a un cessate il fuoco che congelasse le linee del fronte, della condanna delle azioni militari che venivano intraprese ­ e siccome dall'estate 1992 le forze serbo bosniache erano sulla "difensiva strategica" controllando il 70% del territorio e l'Armija era all'offensiva, era quest'ultima ad essere stigmatizzata il più delle volte, eccetto naturalmente il bombardamento di Sarajevo (ma larga diffusione ebbero le fantasiose costruzioni sull' "autobombardamento dei musulmani") e la conquista e il massacro di Srebrenica. La fine della guerra poteva arrivare solo da una soluzione diplomatica tra i vari attori della guerra, e venne quindi dato un sostegno alle varie soluzioni diplomatiche che vennero elaborate a livello internazionale.
Avendo questo approccio la sinistra in Italia non solo non fornì alcun appoggio ai settori che in Bosnia si battevano per una Bosnia unita (dall'aprile al novembre 1992 lo stesso governo di Sarajevo, e dal novembre 1992 al settembre 1993 importanti settori dello stato bosniaco), scoprendo la realtà di Tuzla solo nel 1994 quando questo settore era oramai marginalizzato a livello nazionale (più volte il Manifesto stigmatizzò Tuzla nel 1992 come sede degli "estremisti musulmani"!), ma soprattutto fece proprie posizioni diametralmente opposte a quelle sostenute da questo settore, che si concretizzavano nel rifiuto della divisione esistente della Bosnia, rigettando le soluzioni diplomatiche basate su questa divisione e affidando la ricostruzione della Bosnia multinazionale alla sconfitta militare in primo luogo del SDS e dell'esercito serbo bosniaco. Questo settore richiese sempre come rivendicazione principale la fine dell'embargo militare a Sarajevo, tutta la sinistra italiana richiese sempre come rivendicazione principale il rafforzamento dell'embargo militare a tutti gli attori della guerra. Inoltre con queste posizioni la sinistra italiana non colse assolutamente la catastrofe umana e sociale che la Bosnia visse nella primavera ­ estate del 1992, e non fece nulla (anche solo a livello di prese di posizione) per opporsi a questa catastrofe - non si poteva "prendere posizione per una delle parti in conflitto".
Ebbe quindi una posizione largamente in sintonia con quella dei governi occidentali. Si oppose a ogni ipotesi di intervento della Nato e denunciò l'allineamento statunitense alle posizioni di Sarajevo ­ confondendo completamente le posizioni politiche degli attori internazionali. L'allineamento di Washington alle autorità di Sarajevo fu sempre uno specchietto per le allodole neanche troppo velato: Washington non si differenziò in nulla dalle potenze europee nella sua volontà di arrivare a una divisione della Bosnia, e mai fino all'estate 1995 un intervento Nato fu all'ordine del giorno. Il problema era che se intervento Nato ci fosse stato (come vi fu nell'estate 1995) sarebbe stato solo e unicamente funzionale agli obiettivi politici delle potenze che componevano questa struttura militare (come in effetti fu allorquando si realizzò), e quindi l'opposizione alla Nato poteva avere un senso solo per questo motivo, come conseguenza dell'opposizione alla divisione della Bosnia. Invece si fecero discorsi largamente sprovvisti di senso sul fatto che "violenza chiama violenza" e che un intervento avrebbe solo fatto precipitare il conflitto (come se non fosse già precipitato dalla primavera 1992!). Quando i bombardamenti Nato ci furono davvero per due settimane, dal 31 agosto al 13 settembre a sinistra si tacque: non ci fu l'escalation mille volte esorcizzata, ed anzi si arrivò davvero in capo a qualche settimana a quello che a sinistra si chiedeva da anni: cessate il fuoco e soluzione diplomatica. In sostanza un bel pasticcio: a sinistra ci si oppose alla Nato non per quello che effettivamente perseguiva (la divisione della Bosnia), e vi fu un imbarazzato silenzio allorquando si scoprì che la Nato perseguiva ­ e otteneva - proprio quello che la sinistra chiedeva a gran voce (una soluzione negoziale).
Questa sintonia sostanziale tra sinistra e governi occidentali si concretizzò nell'intervento sul campo. L'ICS venne formata nel maggio 1993, e dopo l'uccisione dei tre volontari italiani in Bosnia centrale si ebbe stretta collaborazione tra Ministero degli Affari Esteri e "mondo del volontariato" italiano. Su questo Luigi Marcon, presidente dell'ICS, fornisce una ricostruzione precisa di quanto avvenne nel suo volume pubblicato lo scorso anno. Naturalmente difende il proprio percorso, senza alcuna autocritica. La logica era di effettuare una serie di interventi per ricostruire "dal basso" il tessuto sociale multinazionale bosniaco in assenza di prospettive politiche o militari a livello bosniaco generale. Questo intervento si tramutò però nel suo opposto: per poter operare nelle zone interessate dalla guerra le organizzazioni di volontari dovevano arrivare ad accordi con le autorità esistenti, operando nel quadro definito dalle strutture di potere bosniache. Ciò comportò che mai nessuna organizzazione dell'ICS denunciò crimini o criminali di guerra nelle zone in cui si trovarono ad operare, o sostenne o si fece promotrice di mobilitazioni della società bosniaca contro queste strutture di potere. Il problema era quello della "conciliazione nazionale" tra popolazioni che si odiano e si massacrano vicendevolmente, "conciliazione" assicurabile naturalmente solo dall'intervento dei volontari esteri (28).

"Oggi, dopo la guerra, le ragioni per odiarsi sono più numerose che mai. Rivolgendosi verso il passato, verso le montagne di cadaveri e di rovine, ogni uomo di buon senso fremerà di collera, piuttosto che versare lacrime di dispiacere e di tristezza. Chi ha fatto questo? Dov'è? Come è potuto succedere?" (29).
Solo le popolazioni bosniache potranno dare una risposta a queste domande, svelando i segreti, le responsabilità e la logica della guerra. In questo il Tribunale dell'Aja non sarà di loro aiuto ­ un esposto fatto dalle organizzazioni delle donne di Srebrenica contro i dirigenti dei paesi occidentali come complici dei massacri è stato definito "illogico" dall'Aja. Quando le popolazioni bosniache prenderanno in mano il loro destino non vi saranno spazi per le farse odierne sui Karadzic e Mladic ricercati ma che se vanno in giro tranquillamente. Per i carnefici sarà davvero la fine.
E allora, e solo allora, gli uomini e le donne bosniache potranno ricostruire la loro Bosnia.

 

NOTE

(1) Noel Malcolm, Storia della Bosnia, Bompiani, 2000
(2) Nel 1996 è stato pubblicato: Zlatko Dizdarevic ­ Gigi Riva, L'ONU è morta a Sarajevo, il Saggiatore; Paolo Rumiz, Maschere per un massacro, Editori Riuniti; Mimmo Lombezzi, Bosnia. La torre dei teschi, Baldini&Castoldi; Goran Todorovic, Sarajevo. Cronaca delle illusioni perdute, Ediesse; Toni Capuozzo, Il giorno dopo la guerra, Feltrinelli. Nel 1997: Fabio Martelli, La guerra di Bosnia, il Mulino; Edgar Morin, I fratricidi, Meltemi; M. Cherif Bassiouni, Indagine sui crimini di guerra nell'ex Jugoslavia, Giuffrè. Nel 1998: Luca Rastello, La guerra in casa, Einaudi; Josep Palau, Gli ultimi Moicani del Danubio, Selene. Nel 1999: Izbjeglice/Rifugiati, peQuod. Nel 2000: Giulio Marcon, Dopo il Kosovo, Asterios e il citato volume di Noel Malcolm.
(3) Si possono consultare, tra l'altro, le versioni inglesi di articoli del croato Nacional, e dei bosniaci Dani, Oslobodenje, Slobodna Bosna.
(4) Bernard-Henry Levy, Le testament d'Izetbegovic, Le Monde, 14 octobre 2000
(5) Alcuni degli articoli in questione sono disponibili anche in inglese nel sito Ex-YU Press.
(6) Per Tommaso Di Francesco una guerra non solo etnica, ma anche religiosa. Si v. Il Manifesto, 4 maggio 1993.
(7) Giulio Marcon, Dopo il Kosovo, Asterios, 2000, pp. 94-96. La tesi della guerra etnica sviluppata a sinistra non ha naturalmente nulla a che vedere con quella che vede la causa della guerra in presunti odii secolari: "la portata violenta dei nazionalismi [è] la veste moderna dei conflitti caratterizzati dalla reazione alla modernizzazione, dalla deformazione etnicista del principio della cittadinanza e dalla crisi dei modelli economici e del fondamento laico dello stato" idem, p. 135. A sinistra vi fu anche chi sposò le tesi elaborate a Pale, l'allora capitale della Srpska: si v. Luciana Castellina, Benzina sul fuoco, Il Manifesto, 10 agosto 1995.
(8) In realtà nel caso dei volontari italiani il responsabile non fu uno degli innumerevoli capobanda che infestavano la zona, come si disse all'epoca, ma il comandante di un battaglione della 317° Brigata dell'Armija, una persona con un grado equivalente a quello italiano di colonnello, e che aveva sotto i suoi ordini dai 300 ai 500 uomini, collocato in una precisa linea gerarchica, e che in precedenza (fino al gennaio 1993) ricoprì anche la carica di comandante della polizia militare della stessa brigata, e a questo titolo fu uno dei tre uomini che costituivano il massimo vertice della brigata in questione. Questo al tempo Fabbri lo sapeva - e mentì. Incredibilmente ancora nel marzo 2000 Giulio Marcon, presidente dell'ICS, si riferisce ai fatti del maggio '93 parlando ancora di "banda irregolare di musulmani bosniaci" (Dopo il Kosovo, Asterios, p. 191).
(9) Si vedano le decine di migliaia di pagine delle trascrizioni dei vari processi tenuti all'Aja (quelli più significativi sono i processi Blaskic, Kordic e Krstic), la montagna di documentazione resa nota, le stesse battaglie giornalistiche che riempiono quotidiani e periodici bosniaci, l'analisi minuziosa che di alcuni casi è stata fatta (Srebrenica, Prijedor, Brcko, ecc.) da ricercatori e giornalisti.
(10) Si v., tra i tanti, l'articolo di Nacional dedicato a questo caso.
(11) Mi baso sugli studi di Murat Praso (Bosnia Report, july-october 1996), di Ile Bosnjovic (in: Rusmir Mahmutcehajic, The Denial of Bosnia, Pennsylvania State University Press, 2000), sui dati relativi in massima parte al 1999 forniti dall'International Centre for Migration Policy Development (sito internet: www.icmpd-ric.org), su quelli forniti dall'ACNUR nel corso dei vari anni (particolarmente importante è Bosnia and Herzegovina, Repatriation and Return Operation ­ 1997, april 1997), e sui dati forniti da varie organizzazioni non governative, istituzioni e fonti giornalistiche.
(12) Il dato di un milione e mezzo di residenti serbi della RS deriva dalle autodichiarazioni fornite dalle varie autorità municipali della RS (dati ICMPD), molto probabilmente sopravvalutati per ottenere maggiori quote di aiuti umanitari internazionali.
(13) La finalità è quella di recidere nel modo più implacabile i legami sociali esistenti nella popolazione. Sulla tradizione del "komsiluk" in Bosnia si v. Xavier Bougarel, Bosnie. Anatomie d'un conflit, La Découverte, Paris, 1996 e in generale Jacques Semelin, Penser les massacres, febbraio 2001.
(14) Il processo Tadic ha ottenuto un po' di pubblicità anche in Italia. Il processo per il campo di Omarska, contro cinque imputati, è iniziato nel febbraio 2000, quello per il campo di Keraterm, contro tre imputati, nel marzo 2001. In aggiunta si veda Roy Gutman, A Witness to Genocide, New York, Macmillan, 1993 (trad. fr. Bosnie: témoin du genocide, Desclée de Brouwer, Paris, 1994) e Rezak Hukanovic, The Tenth Circle of Hell, New Republic.
(15) Molto si è parlato di crimini di guerra commessi "dai vicini di casa", con migliaia di persone che si sarebbero macchiate di atrocità. Sicuramente casi del genere sono avvenuti ­ le testimonianze in merito sono incontrovertibili ­ ma tuttavia la mia impressione è che il numero di persone che hanno commesso crimini sia largamente inferiore a quanto si ritenga normalmente. In molti casi i "vicini" che commisero crimini lo fecero perché sotto la minaccia di morte da parte di comandanti militari.
(16) Non esiste a mia conoscenza uno studio approfondito dei primi mesi della guerra bosniaca. Su Sarajevo: "Study of the battle and siege of Sarajevo" (allegato al rapporto della Commissione di esperti presieduta da M. Cherif Bassiouni), Laura Silber ­ Allan Little, The Death of Yugoslavia, London, 1995, gli articoli apparsi nel '92-'93 sulla rivista "YugoFax"-"War Report". Su Mostar: Francesco Strazzari ­ Nebojsa Bjelakovic, The Sack of Mostar, 1992-1994, working paper. Su Tuzla: Muhamed Borogovac, The War in Bosnia-Herzegovina 1992-1995, The Bosnian Congress, USA. Su Srebrenica: Jan Willem Honig ­ Norbert Both, Srebrenica. Record of a War Crime, Penguin Books, 1996, Chuck Sudetic, Blood and Vengeance, Penguin Books, 1998. Su Bihac : Brendan O'Shea, Crisis at Bihac, Sutton Publishing, 1998. Sulla Bosnia centrale alcune informazioni si possono trarre dalla sentenza e dai dibattimenti al processo contro Kordic e Cerkez al Tribunale dell'Aja. Non conosco alcuno studio in lingua occidentale sulla situazione che si ebbe nella Posavina. Alcune informazioni sulla situazione di Konjic si possono trarre dalla sentenza e dai dibattimenti al processo per il campo di Celebici al Tribunale dell'Aja.
(17) Una situazione anomala sembra che si sia creata nell'enclave di Srebrenica: nel periodo dal settembre 1992 al gennaio 1993 le forze bosgnacche sotto il comando di Naser Oric allargarono considerevolmente il territorio sotto il loro controllo compiendo diversi crimini di guerra ai danni di civili serbi di vari villaggi. Questo sembra essere l'unico caso di vera "guerra etnica": le forze bosgnacche erano per lo più formate da rifugiati che avevano visto e subito gli orrori della "pulizia etnica" e che si batterono secondo schemi di guerriglia quasi all'arma bianca, massacrando gli abitanti dei villaggi che conquistavano solo perché serbi. L'unità militare di Srebrenica era di fatto isolata e rispondeva ai vertici dell'Armija solo per decisioni di ordine strategico.
(18) Si v. Xavier Bougarel, Bosnian Islam since 1990: cultural identity or political ideology.
(19) La contabilità delle vittime della guerra bosniaca è materia evidentemente di scontri politici che durano tutt'oggi. Secondo alcune valutazioni di demografi (Praso e Bosnjovic) le vittime furono in totale tra le 270.000 e le 330.000 persone. Questi calcoli implicano però un tasso di crescita della popolazione bosniaca tra il 1992 e il 1995 identica a quella del periodo d'anteguerra, che mi sembra un'assunzione improbabile. Le cifre dei due demografi scenderebbero a 200-220.000 vittime se si ipotizzasse una crescita demografica nulla nel periodo della guerra (cioè un numero di nascite pari al numero di decessi per cause naturali). Anche così rimangono incongruenze significative: almeno secondo i dati di Bosnjovic (quello più dettagliato) le vittime croate, ipotizzando un tasso di crescita demografico nullo, sarebbero circa 22.000 persone, mentre le autorità croate han parlato di circa 10.000 vittime croate in Bosnia. Le vittime serbe sarebbero 50-55.000, mentre fonti non ufficiali di parte serbo bosniaca han parlato di 30.000 vittime nel proprio campo (cifra che personalmente mi sembra comunque largamente sopravvalutata). Un po' più realistiche mi sembrano le cifre avanzate dal segretario alla difesa statunitense William Perry nel giugno 1995: 130.000 vittime nel 1992, 12.000 nel 1993, 2.500 nel 1994; a queste si devono aggiungere circa 15.000 vittime nel 1995 (si v. Tim Ripley, Operation Deliberate Force, CDISS, 1999). Secondo questi dati vi sarebbero state circa 160.000 vittime. Personalmente mi sembra sopravvalutata anche quest'ultima stima.
Per quanto riguarda il rapporto tra vittime bosgnacche, croate e serbe un'indicazione di massima può essere il dato relativo agli scomparsi. Esistono due serie di dati: quelli della Croce Rossa che accettano l'iscrizione di una persona come "scomparsa" solo dietro denuncia di un familiare, e quelli delle Commissioni statali per gli scomparsi che invece accettano anche denunce fatte da vicini o conoscenti. Naturalmente anche questi ultimi dati sono una sottorappresentazione della realtà per tutti i casi in cui non vi sono più sopravvissuti in grado di denunciare la scomparsa di qualcuno. La Commissione statale di Banja Luka denuncia comunque 2.000 scomparsi serbi; quella di Sarajevo 28.000 tra scomparsi bosgnacchi e croati. I dati della Croce Rossa parlano invece di 1.000 scomparsi serbi, 700 croati e 16.000 bosgnacchi.
(20) Si v. Danilo Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, 2000.
(21) La fonte migliore per seguire in lingua inglese questi processi è Bosnia Press Digest. In aggiunta si può utilmente consultare il sito internet della missione Onu in Bosnia.
(22) Slobodna Dalmacija, giornale della destra tudjmaniana croata, per difendere la tradizione della guerra patriottica croata in Bosnia è arrivata fino ad affermare che in realtà Rajic era un'agente dei servizi segreti della Federazione Jugoslava!
(23) "Dev'essere saputo, e dev'essere sempre ricordato, che i cosiddetti leaders del mondo occidentale hanno saputo nello scorso anno e mezzo cosa stava succedendo qui Possa Dio perdonarli, possa Dio perdonare tutti noi". Dichiarazione di Luis Gentile, capo operazioni UNHCR a Banja Luka, cit. in Michael A. Sells, The Bridge Betrayed, Berkeley, 1996, pag. 115.
(24) Si v., tra l'altro, Rusmir Mahmutcehajic, The Denial of Bosnia, Pennsylvania State University Press, 2000 e David Campbell, Apartheid Cartography: the political anthropology and spatial effects of international diplomacy in Bosnia, Political Geography, 1999, pp. 395-435.
(25) Ampi stralci della piattaforma sono pubblicati in appendice a Catherine Samary, La fragmentation de la Yougoslavie, Amsterdam, 1992. Queste forze erano i vari partiti derivanti dalla disgregazione della vecchia Lega dei Comunisti (e organizzazioni collegate) e del Partito delle Riforme, varie realtà associative e sindacali e buona parte della stessa Lega Patriottica, che pur essendo stata creata all'interno del SDA espresse posizioni per l'unitarietà della Bosnia. Queste forze si definirono variamente: "civiche", "antinazionaliste" o "nazionaliste bosniache".
(26) La migliore ricostruzione fattuale del 1995 bosniaco è rintracciabile in Tim Ripley, Operation Deliberate Force. The UN and NATO Campaign in Bosnia 1995, CDISS, Lancaster, 1999. La strategia dell'esercito serbo bosniaco è stata illustrata sulla base di documenti riservati del periodo nel processo per Srebrenica all'Aja. Il processo di formazione della strategia statunitense è illustrato da Ivo H. Daalder, Getting to Dayton, Washington, 2000. Per altre opere si veda la bibliografia ragionata fornita dal Bosnian Institute di Londra.
(27) Dall'estate 1992 la guerra tra esercito serbo bosniaco e Armija fu una guerra di posizione, molto simile alla situazione che si ebbe in Europa durante la prima guerra mondiale. Il sistema di trincee e di campi minati faceva sì che le offensive fossero costosissime in termini di vite umane. E' stimato che due giorni di offensiva a Sarajevo costarono la vita a un migliaio di soldati.
(28) Si v. il volume molto stimolante del gruppo Alfazeta "L'illusione umanitaria. La trappola degli aiuti e le prospettive della solidarietà internazionale", pubblicato dalle ed. EMI nel 2001.
(29) Boris Buden, L'urbanità come alibi, Balkan n. 1, febbraio 2000.