La Repubblica 10 marzo
Arriva a Milano la clamorosa inchiesta della Procura
di Brescia sul reparto dell'Arma: quaranta indagati
Droga, carabinieri
nella bufera
"Il Ros comprava cocaina in Colombia
e poi la spacciava in Italia"
di CARLO BONINI
MILANO - Nell'ufficio del sostituto procuratore della Repubblica Daniela Borgonovo è arrivata un'inchiesta ampiamente istruita, con una quarantina di nomi iscritti al registro degli indagati, che da due anni va inutilmente cercando un giudice naturale che ne tragga una conclusione. Le domande che quelle carte pongono suonano così: cosa è stata per tutti gli anni '90 la sezione antidroga del Ros dei carabinieri? Un reparto d'eccellenza che ha consentito di tranciare i fili del traffico internazionale degli stupefacenti, eliminandone i protagonisti? O è stato forse, per riassumere le gravi conclusioni dell'inchiesta del sostituto procuratore di Brescia Fabio Salamone, "un'associazione a delinquere" in divisa che del traffico di stupefacenti aveva fatto non il mezzo d'indagine, ma il fine della sua attività? Che ha "abusato" dei suoi poteri, omettendo arresti dovuti? Che ha "riciclato" i proventi in denaro della droga sequestrata?
Questa inchiesta, segreta al punto che nulla per quattro anni è trapelato, ha già seminato molti veleni. E molti ancora ne seminerà, se è vero che il magistrato che l'ha istruita, Fabio Salamone, è imputato a Venezia dove il Ros lo ha denunciato per abuso di ufficio. Se è vero che un ex sostituto procuratore di Bergamo (oggi sostituto procuratore a Brescia), Mario Conte, coinvolto nell'inchiesta da Salamone, ha chiesto conto alla magistratura ordinaria e al Csm dei metodi di indagine del suo collega. Insomma, un pessimo garbuglio che vale la pena raccontare dall'inizio. Quando, 1997, un "cavallino" scosso si presenta alla Procura della Repubblica di Brescia.
Già, li chiamano così: "cavallini". Gente svelta, che nel mercato della cocaina ha una funzione insostituibile nel piazzare una partita importante. Quella di trovare i grossisti disposti ad acquistare la merce che arriva da fuori e quindi i dettaglianti pronti a smerciarla. Il nome di quel "cavallino" scosso che nel 1997 si decide a varcare l'ingresso della Procura non ha importanza. Chiamiamolo B., e diciamo pure che in quel momento sa di non avere nulla da perdere. E' terrorizzato perché capisce di essere finito in un ingranaggio da cui uscire vivi è una scommessa. E' stato arrestato in Germania, ha un futuro in galera. Decide di parlare. Con Salamone.
Dovete immaginarlo quell'interrogatorio. E il pacchetto di "Ms" del magistrato che si svuota mentre il racconto del "cavallino" prende corpo e contorni. "Dottore - spiega - i carabinieri del Ros mi hanno incaricato di comprare cocaina e trovare clienti. Io l'ho fatto e loro mi seguivano. Fotografavano e prendevano nota di chi incontravo. Poi, scattava l'operazione. Ma, ecco la sorpresa, ad essere arrestati erano sempre i pesci piccoli, i cavallini. Mai quelli grossi. Questa storia è andata avanti per un po'. E allora ho cominciato ad avere paura...". Salamone ascolta, ne parla con il "capo", Tarquini, e quindi decide di non cestinare quel verbale. Anche perché le indicazioni del suo interlocutore sono precise. E la "squadretta" antidroga cui quelle informazioni conducono è ad un tiro di schioppo: Bergamo.
E' un nucleo del Ros, comandato dal maresciallo Gilberto Lovato, e composto da quattro sottufficiali: Vincenzo Rinaldi, Michele Scalisi, Rodolfo Arpa, Gianfranco Benigni. Lovato è un uomo brillante, capace. Su di lui, nell'Arma, molti sono pronti a giurare. E ottimi sono i suoi rapporti alla Procura di Bergamo, dove il sostituto Mario Conte, è il terminale delle operazioni antidroga condotte dalla squadra. Il gruppo si muove molto. Le loro operazioni sotto copertura vanno ben oltre la circoscrizione giudiziaria di Bergamo. Si spingono in Emilia, a Genova, Livorno, in riviera adriatica, in Abruzzo. E sempre con successo.
Arresti e sequestro di importanti partite di cocaina. Salamone decide di verificare quelle operazioni e distribuisce le prime deleghe a Guardia di Finanza e Polizia. Comincia così una lunga serie di interrogatori in carcere. Molti degli arrestati dal Ros sono ormai condannati con sentenza passata in giudicato, degli assoluti "signor nessuno" finiti nel dimenticatoio delle cronache, ma i loro racconti presentano curiosi elementi in comune con le dichiarazioni di B., il primo "cavallino" ad aver parlato e ad aver ottenuto (per poi perderlo e tornare in galera) il programma di protezione per i pentiti. Molti sostengono di essere stati direttamente ingaggiati dai carabinieri. Salvo ritrovarsi in manette e quindi condannati al posto dei "grossisti". In almeno un caso - un sequestro di 150 chili di cocaina - Salamone accerta la mancata verbalizzazione del contestuale sequestro di un miliardo e 400 milioni di lire.
Che fine ha fatto quel denaro? In parte - sosterrà l'inchiesta - viene utilizzato per acquistare nuove partite di cocaina. In parte, sparisce nel nulla. Gli interrogatori consegnano ai verbali di Salamone una ventina di nomi di altrettanti trafficanti, italiani e colombiani, che le operazioni del Ros avrebbero risparmiato. Molti, verificherà Salamone, sono inseguiti da anni da mandati di cattura. In particolare, il colombiano Otoja, che, arrestato in Italia, conosce una vicenda processuale anomala che gli consente, presto, di ottenere gli arresti domiciliari. Perché?
Il registro degli indagati di Brescia è un fiorire ininterrotto di ipotesi di reato. Traffico di stupefacenti, abuso, associazione per delinquere, riciclaggio. Più l'indagine affonda e percorre a ritroso l'attività del nucleo Ros di Bergamo (vengono verificate tutte le operazioni a partire dal '91), più nulla, agli occhi di Salamone, sembra salvarsi dal sospetto. Soprattutto quando - è il settembre del '97 - una raffineria di cocaina scoperta a Rosciano (Pescara) si rivela essere uno stabilimento sotto copertura del Ros e i quattro campesinos colombiani che vi vengono sorpresi, dei poveri disgraziati che dal Ros sono stati "assunti" e a cui il Ros ha messo a disposizione la materia prima da raffinare oltre agli alloggi a Roseto degli Abruzzi.
Salamone insomma - e siamo ormai nel '98 - si convince che l'attività del Nucleo di Bergamo sia andata ben oltre quello che la legge consente in materia di operazioni sotto copertura. Che un conto è inserirsi in un traffico di stupefacenti, ritardando sequestri e arresti. Altro è importare la cocaina acquistandola in Colombia, ingaggiando e dunque istigando al reato intermediari e consumatori. Altro insomma è agire sotto copertura, altro è "provocare".
Tra le informative che arrivano sul tavolo del magistrato di Brescia, quelle su "carichi controllati" via mare approdati a Genova, Livorno, Napoli. E agli aeroporti di Milano e Bergamo. Quanta di quella droga - si domanda in quei mesi Salamone - era "controllata" dal Ros? E quanta, al contrario, attraverso lo stesso canale, e "grazie allo stesso canale", è potuta approdare sul mercato italiano? I nomi dell'intera squadra antidroga del Ros di Bergamo finiscono nel registro degli indagati insieme a quelli di trafficanti di stupefacenti. Salamone si consiglia con il Procuratore capo Tarquini. Vorrebbe perquisire gli uffici della sezione antidroga di Roma del Ros. Il ponte di comando, insomma. Anche perché è da lì - ne è convinto - che l'intera attività del nucleo di Bergamo è stata diretta. Ma viene scelta la linea della prudenza. Prima di iscrivere al registro degli indagati il colonnello Ganzer e il suo vice (e quindi successore al comando della sezione), Mauro Obinu, si decide di interrogare i sottufficiali. Qualcuno di loro - pensano a Brescia - crollerà.
Ma le cose vanno diversamente. Salamone non lo sa, ma i sottufficiali del Ros che interroga, nascosti sotto il bavero della divisa, hanno dei microfoni che registrano integralmente i colloqui con il magistrato. Anche quel che non viene messo a verbale. Anche dunque gli scoppi di ira di Salamone che nelle pause di interrogatorio lo fanno imprecare nei confronti di Ganzer, un uomo che di fronte ai suoi interlocutori non fa mistero di disprezzare e promette di travolgere nell'inchiesta.
All'inchiesta è rimasto poco da vivere. I sottufficiali del Ros denunciano per abuso Salamone alla Procura di Venezia. Nelle sue parole - sostengono - la prova di un'inchiesta minata dal pregiudizio, da un'antica inimicizia nei confronti del Ros. Ma all'inchiesta è rimasto poco da vivere anche perché nelle sue maglia finisce il nome del magistrato Mario Conte, pm di Bergamo, referente della squadra di Lovato. Per competenza, dunque, gli atti raccolti in 60 faldoni partono alla volta di Milano.
Piercamillo Davigo - è l'estate del '99 - se ne libererà dichiarandosi a sua volta incompetente a beneficio della Procura di Bologna. Me nessuno avrà più tempo e voglia di lavorare su quegli atti. Fino al gennaio scorso, quando la Cassazione decide che è a Milano che quelle carte devono tornare. Sulla scrivania della dottoressa Adriana Borgonovo. Che dovrà ricominciare lì dove tutto si è interrotto. I protagonisti, del resto, sono tutti rimasti al loro posto: inquirenti e inquisiti. A uno solo di loro, il destino ha giocato un tiro mancino: il sottufficiale del Ros Gianfranco Benigni oggi è in carcere. Lo hanno arrestato a Forlì qualche tempo fa. L'accusa: droga.
(10 marzo 2001)