Ven 03.Febbraio.2006 h:21.19
Buridda @ Palestine (Report 4)

Ha vinto Hamas o ha perso Fatah?


Andrea "Skandal" Iori
Tulkarem

La vittoria di Hamas non significa che i palestinesi abbiano abbracciato il fondametalismo islamico.
Il voto del 25 gennaio esprime soprattutto la voglia di voltare pagina e superare il malgoverno e l’inconcludenza che, agli occhi dei palestinesi, hanno contraddistinto l’amministrazione precedente, guidata da Al Fatah.
La sinistra “radicale” palestinese, schiacciata fra i due schieramenti, scende sotto il 3%.

Nei villaggi attorno a Tulkarem, lungo il muro in costruzione, così come nel centro città e nelle vie del campo profughi inizia presto la giornata delle elezioni per il rinnovo del consiglio legislativo, gli organi di governo e il parlamento palestinese. Siamo osservatori delle elezioni, un gruppo di circa 20 persone, oltre a noi presenti in città, anche dei canadesi, perfetti, ultra-accessoriati quanto goffi e altri italiani mandati direttamente dall’Unione europea, schivi e veloci sulle macchine addobbate da adesivi ufficiali e bandierine europee. Noi a piedi, un pò sporchi, rumorosi e disordinati.

E' una moltitudine indaffarata di bambini e di donne che si affaccia all’ingresso dei seggi e distribuisce materiali di propaganda che ci accoglie. Le donne delle organizzazioni fermano le conoscenti: amiche, madri, vecchie, ragazze prendono da loro le ultime indicazioni prima di infilare i cancelli dove si trovano le sezioni elettorali. I bambini corrono avvolti nelle bandiere verdi di Hamas e di Al Fatah e ci fermano ad ogni passo per consacrarci, come se noi potessimo votare lì, una formazione piuttosto che l’altra. Ci regalano cappellini, spillette, bande verdi, bandiere palestinesi con le effigi di Fatah. Il ruolo ufficiale, imparziale, garantista che ci siamo ritagliati vieta di accettare i souvenir della competizione elettorale.

Alle nove della mattina, due ore dopo l’inizio delle operazioni di voto, l’affluenza è già alta e file di uomini e donne escono dai seggi con il dito intinto nell’inchiostro e sul volto, la soddisfazione per aver partecipato all’esercizio democratico del voto. Israele d’ora in poi non potrà più essere considerata l’unica democrazia del medio oriente, al di la dell’esito del voto.
Accompagnati dai ragazzi di Kufia, che è l’associazione con cui stiamo lavorando, ci distribuiamo sui seggi: chilometri a piedi, cambio di innumerevoli taxi. È così che attraversiamo in lungo e in largo il campo profughi dove intanto centinaia di ragazzini improvvisano cortei per sostenere le formazioni che concorrono alle elezioni. Ogni tanto si alternano raffiche veloci di kalashnikov sparate in aria. È palpabile l’agitazione e la speranza che accompagnano gli sguardi di quanti ci accolgono nelle scuole e negli uffici che ospitano i seggi elettorali. Tutto si mescola con il passare delle ore. Passiamo dall’incontro con il presidente della commisione elettorale a quello con il rappresentante locale di Hamas, un ragazzo di appena 18 anni che parla del movimento con il sorriso sulle labbra, annusando la vittoria, rispondendo alle decine di domande che gli poniamo sull’esito delle elezioni e sugli scenari possibili, sulla Palestina del futuro e sui problemi di tutti i giorni. E poi ancora incrociamo vari candidati indipendenti, quelli della sinistra laica e radicale del Fronte Popolare e di Al Mubadara. Mani che si stringono, caffe arabo servito senza zucchero in un piccolo ufficio tappezzato di manifesti con i visi dei “martiri” e un grande poster di Arafat. Fuori sfilano i caroselli di Hamas che raggiungono la piazza centrale per poi ripartire rinfoltiti e scomparire rumorosi oltre le case.
Passano le ore e più ci si avvicina alla chiusura delle urne, più aumenta l’attesa per il risultato che non sembra assolutamente scontato, anche se a Tulkarem le bandiere che sventolano formano, a colpo d’occhio, un grande fiume verde che si agita nelle strade.
Per una volta siamo d’accordo con Jimmy Carter, ex presidente americano anch’egli osservatore in queste elezioni: tutto si è svolto regolaremente, con ordine e entusiasmo, rispettando le regole e con la consapevolezza di essere chiamati a dimostrare che in medio oriente esiste la voglia di autodeterminare le proprie scelte e che c’è la capacità per farlo.

Poi dalle otto di sera fino a notte fonda le bandiere verdi si moltiplicano anche se le notizie ufficiali sui primi spogli sono frammentate e incerte.
Inizia a piovere proprio mentre le strade si vanno riempiendo di sostenitori di Hamas e si inizia a sparare per aria, sia pistole che fuochi pirotecnici e cortei di mezzi stipati di militanti, di uomini e ragazzi che cantano e ballano sui cassoni dei camion, sfilano fra ali di folla.
Sembra che Al Fatah tenga, che l’avanzata di Hamas sia significativa ma non sufficiente a ottenere la maggioranza.
Poi, ora dopo ora con un clamore di canti e spari sempre crescente arrivano le prime notizie che non possono essere smentite.
A tulkarem, Hamas ha vinto in tutti i 67 seggi conquistando a mani basse tutti i parlamentari eleggibili. E questo in una città dove Fatah ha amministrato per anni e dove è sempre stata tradizionalmente forte.
Nessuno sembra sentire il freddo che si porta dietro la pioggia scrosciante che trasforma le strade del campo e della città in rivoli di fango.
Hamas ha vinto ed è una vittoria su larga scala, da Gaza alla Cisgiordania. Tutte le principali città sono cadute e a notte fonda arriva la notizia che la formazione islamica ha la maggioranza assoluta per governare. Addirittura a Gerusalemme Est, Hamas ha battuto il partito di Abu Mazen non avendo potuto nemmeno fare campagna elettorale visto il divieto imposto dalle autorità israeliane.
Si ragiona in fretta, inseguendo un taxi e facendosi trascinare dal corteo che attraversa Tulkarem, provando ad individuare le coordinate di un ragionamento per capire dove sta andando la Palestina e cosa succederà adesso.

Ci dividiamo per la notte, saluti, abbracci, ancora raccomandazioni.
Torniamo nelle case e dalle famiglie che ci hanno ospitato in questi due giorni. Abbiamo imparato a conoscerli perché non solo ci hanno dato un letto per dormire, ma anche si sono presi cura di noi come fossimo i loro figli, le loro figlie.

Dignitosi ma esasperati, stanchi e tuttavia ancora fiduciosi nelle loro possibilità, nelle possibilità del loro popolo. Sono anche queste famiglie, quelli con cui siamo stati a contatto per due giorni, che hanno scelto Hamas e che lo hanno sostenuto. Non sono pazzi integralisti, non vogliono essere sopraffatti da Israele ma non per questo vogliono distruggere Israele, sono musulmani ma non dei fondamentalisti. Sono persone povere, le cui famiglie vivono dal 1948 nel campo profughi, che amavano Arafat, che scelsero Fatah alle presidenziali dello scorso anno, ma che ora, con queste elezioni vogliono denunciare la corruzione che attraversa il partito che fu di Abu Ammar e di come la linea di Abu Mazen nella conduzione delle trattative con Israele abbia sostanzialmente trascinato i palestinesi a subire, privazione dopo privazione e senza difese da parte dell’ANP, l’incarceramento dietro il muro con l’ulteriore impoverimento delle famiglie, il rafforzamento dei checkpoint, l’aumento delle esecuzioni mirate dei leader della resistenza, le incursioni nelle case e gli arresti preventivi.

È vero, si dice che queste elezioni le abbia perse Fatah, ancor prima della vittoria di Hamas. Stretta nella morsa interna fra la passività della vecchia leadership e lo sforzo grandioso ma insufficiente di Marwuan Barghouti, che dal carcere voleva scuotere dal torpore il suo partito, Al Fatah si è presentata a queste lezioni nel peggior modo possibile: attarversata dai conflitti, con capi che godono di scarsa popolarità (Barghouti escluso ma è in carcere), soggetta a corruzione dilagante nelle sue strutture. Così almeno è la percezione del popolo palestinese: nell’opinione pubblica Al Fatah ha sempre concesso troppo alla controparte non riuscendo ad incidere sulle mosse israeliane nei punti della road map. Abu Mazen e i membri del governo, i funzionari, i sottosegretari, l’estabilishment nuota nel lusso, scorrazzando su macchinoni americani e vivendo nei quartieri residenziali di Ramallah in ville costruite con i soldi degli aiuti europei. Se chiedi cos’è Al Fatah oggi ad un palestinese medio ti risponderà più o meno così. E poi aggiungerà che è per questo che ha votato Hamas: i cui leader o vengono uccisi dai missili israeliani o finiscono arrestati dalle forze di sicurezza palestinesi. Lo sceicco Yassin vecchio capo spirituale di Hamas, appunto fatto saltare da un razzo israeliano all’uscita da una moschea, viveva in una casa minuscola, umile e spoglia nel campo profughi di Gaza. I leaders di Hamas che abbiamo incontrato in questi giorni a Tulkarem vengono tutti dal campo profughi, sono ricercati dall’esercito di Tel Aviv e malvisti dall’ANP. Quando parlano delle sofferenze del loro popolo lo fanno sapendo ciò che dicono perchè sono anche le loro privazioni e le loro sofferenze.
La religione centra poco. Hamas non ha vinto perchè in Palestina è in atto una rivoluzione islamica e nemmeno questa vittoria potrà innescare un fenomeno del genere, anche se pare chiaro che molte cose potranno cambiare. È vero che centinaia di bandiere verdi sventolano sulle moschee della Cisgiordania e di Gaza ma non è attraverso i muezzin che Hamas ha vinto. Se si volesse liquidare in poche parole la questione si potrebbe dire che è la disperazione unita alla voglia di dire basta che ha concentrato la grande massa di voti (compresi quelli di Al Fatah) sulla formazione islamica. Uno schiaffo ad Abu Mazen e all’ANP, uno schiaffo anche alla sinistra radicale che schiacciata fra i due schieramenti scende sotto il 3% e infine uno schiaffo agli Stati Uniti che speravano nella riconferma di un governo facilmente controllabile pronto a condannare fermamente qualsiasi atto di resistenza armata popolare.

Ora cambieranno molte cose, nelle relazioni internazionali più che internamente alla società palestinese. Cambierà anche l’approccio della cooperazione e della solidarietà dei movimenti italiani ed europei. Bisognerà forse insistere ulteriormente e appoggiare fortemente quei soggetti nella società civile palestinese, che lottano dal basso per tenere aperti spazi di democrazia e libertà, spazi di rivendicazione di diritti e giustizia sociale. Sono anche queste le soggettività che devono lottare per abbattere il muro della vergogna voluto da Sharon e far si che non venga costruito un altro, culturale, religioso, estremista, dentro la Palestina che amiamo.