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50 anni nell'impero dei donut
William Rosenberg, fondatore della catena Dunkin' Donuts, è morto nella sua casa in Massachussetts. Aveva iniziato la sua attività aprendo uno spaccio di vendita di ciambelle dopo la seconda guerra mondiale. Da lì partì l'ascesa inarrestabile della multinazionale. Oggi in tutto il pianeta si contano almeno 5000 concessionarie

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William Rosenberg, l'imperatore delle ciambelle
d'America, i donuts, è morto domenica all'età di 86 anni.
Il suo regno della colazione è
nato e cresciuto intorno a una delle icone imprescindibili degli
Stati uniti: i Dunkin' Donut, le ciambelle fritte e dolci, glassate,
al cioccolato, ricoperte di pepite di zucchero, soffici e profumate.
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Dopo aver servito panini e caffè agli operai nelle periferie di
Boston, Rosenberg aprì il primo locale con spaccio di ciambelle
a Quincy, nel Massachussetts, nel 1948, grazie a 1.500
dollari di buoni di guerra che aveva incassato e a altrettanti
presi a prestito. Nel 1950 l'Open Kettle cambiò nome e divenne il
Dunkin' Donuts.
Una di quelle intuizioni che lasciano il segno nell'immaginario,
soprattutto perché la mossa successiva, lungimirante almeno quanto
la prima, fu quella di creare delle concessionarie in franchising.
Otto anni dopo l'apertura del primo locale sul suolo americano c'erano
già 100 ristoranti con il marchio Dunkin'.
Sparsi un po' ovunque, lungo le strade di provincia o nelle città
più importanti, i blocchi bianchi, parallelepipedi a un piano con
l'insegna arancio e rosa, cominciavano a cambiare la fisionomia
dei luoghi in cui si insediavano. Ristoranti buoni per famiglie
e bulimici addicted, adatti a soddisfare
le strane voglie da fame tossica, capolinea di nottambuli per vocazione
o per forza.
L'American graffiti avrà dunque la sua colazione: caffè lungo, aroma
rivendicato come original test, magari lettura del Wall Street Journal
e appunto ciambelline, anelli morbidi di pasta lievitata e fritta,
cui solo una lettura attenta degli ingredienti può oscurare la fama.
Un'ascesa inarrestabile quella della multinazionale delle ciambelle
che in un anno vende nei suoi walky cup usa e getta tanti litri
di caffè quanto pesano mille elefanti africani.
Una maniera di servire cibo che ha cambiato il modo di mangiare
ma anche di guidare e fermarsi per poi ripartire a razzo. Da un
po' di anni infatti sulle vetrine americane di Dunkin' donuts campeggia
la scritta "drive-thru", guidare attraverso (quando il concetto
di non-luogo supera se stesso), cioè il fast food all'ennesima potenza
e senza spegnere mai il motore: 3 secondi netti per ordinare, farsi
servire il breakfast, pagare e scappare via, l'incasso sale alle
stelle, gli inservienti sono un po' stressati.
Il brand di Dunkin' Donut è un marchio esportato in tutto il mondo:
la prima filiale a sbarcare fuori dai confini americani fu quella
giapponse, impresa che risale al 1970, dieci anni dopo a Bangkok
viene aperto il Dunkin' donut con più coperti del pianeta,
130 posti in sala. Fino al 2000, anno del cinquantesimo anniversario,
festaggiato con l'inaugurazione della concessionaria indonesiana
di Bali, si contavano 5.000 negozi con il marchio di Mr. William
Rosenberg sparsi in ogni latitudine.
Tra queste la filiale di Roma presa in concessionaria dalla Sweet
& Co. Solo che ai dipendenti romani non è andata bene, non come
a Madonna, la star che, secondo la biografia ufficiale, ha coltivato
sogni da diva e un posto nel paradiso pop vendendo colazioni Dunkin'.
No perché la cordata di soci italiani della Sweet & Co., presieduta
da Gianluigi Contin, ha messo alla
porta i suoi dipendenti (addetti al laboratorio, segretarie, fattorini,
commessi dei punti vendita) da un giorno all'altro, poi lui è scappato
e l'azienda è stata messa in procedura fallimentare.
Thanx to Manfo
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