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"Il consumo equo può fare a meno del
lavoro equo"
Intervista al presidente di Ctm Altromercato
Sono 122 i soci del Consorzio Ctm altromercato, 116 dei quali Botteghe
del Mondo. Hanno chiuso il bilancio con circa 20 milioni di euro
di fatturato, una crescita di oltre il 60% sull'anno precedente.
Circa il 15% del fatturato è realizzato attraverso la Grande Distribuzione
Organizzata, più un altro 15% dovuto alla vendita di banane (prodotto
vendibile quasi solo nella GDO). Sono 8-9 mila tonnellate di banane
l'anno, l'1,3% del mercato italiano. Vendere banane, spiega Giorgio
Dal Fiume, presidente di Ctm altromercato, è una scelta politica:
«Sono il simbolo dell'ipocrisia neoliberista, degli effetti perversi
della globalizzazione, di sfruttamento violento di persone e natura».
Dovevate proprio scegliere Esselunga come partner commerciale?
La domanda evidenzia lo scarto profondo tra percezione e realtà:
non siamo noi che abbiamo scelto Esselunga, casomai il contrario.
Da 5 anni Ctm altromercato è l'unica realtà del commercio equo italiano
che vende prodotti extra Botteghe del Mondo con criteri fissi e
vincolanti. A tutti i soggetti economici con cui entriamo in contatto
diciamo: se vuoi i nostri prodotti ti devi «compromettere»: prezzo
fisso (non inferiore a quello delle Botteghe); vincolo all'informazione
sul commercio equo; percentuale che va alle botteghe locali, che
hanno diritto a promuovere il commercio equo con un loro rappresentante
nel supermercato; divieto ad utilizzare il termine «commercio equo
e solidale» in modo autonomo e obbligo a confrontare con noi ogni
pubblicità. Qualcuno accetta, altri no e vanno da Transfair o da
altri, che non impongono questi vincoli. Esselunga è il nostro partner
più grosso, ha sempre rispettato questi criteri.
Non c'è imbarazzo nel vedersi associati
a uno dei marchi più spietati circa la violazione dei diritti dei
lavoratori?
Mi sembra una visione angusta della faccenda. Noi abbiamo questa
esperienza diretta: in Ecuador, il 16 maggio di quest'anno, 400
uomini armati hanno assaltato i lavoratori delle piantagioni Noboa,
la quarta multinazionale al mondo per le banane, in sciopero da
febbraio; ci sono stati feriti gravi. Noi importiamo la maggioranza
delle nostre banane dall'Ecuador, e i lavoratori della Noboa conoscono
la differenza tra lavorare per il Fair Trade e no. Non accettiamo
provocazioni per ciò che riguarda i diritti dei lavoratori, in quanto
sono chiare le nostre priorità, i nostri obiettivi, la nostra azione
politica. E non abbiamo paura di affrontare in modo trasparente
eventuali contraddizioni: lo riteniamo assolutamente coerente alla
nostra missione di «agenti di cambiamento sociale», e non di soli
testimoni. Un commercio equo purissimo ma sterile, non ci interessa.
Per contaminare, per modificare «gli altri», bisogna anche esporsi.
Il nostro antidoto è la trasparenza, e la certezza che di fronte
a casi clamorosi o in evidente contraddizione con i criteri del
commercio equo, anche in Italia, passeremmo dall'imbarazzo all'azione.
Però il dibattito tra gli associati è piuttosto
vivace...
Chi frequenta il commercio equo non lo fa certo per stare zitto.
C'è discussione, e il rapporto con la grande distribuzione è uno
dei temi caldi. Per questo ricordo che la decisione di vendere extra
botteghe ed i criteri con cui lo facciamo sono frutto della nostra
discussione interna e democratica. Siamo orgogliosi di continuare
a fare da avanguardia: sono sicuro che la discussione produrrà ulteriori
criteri per meglio relazionarci al grande interesse che il «mercato
tradizionale» sta dimostrando.
Quali vantaggi concreti avete tratto da questo accordo?
Ne cito quattro: 1) sostegno forte ai nostri partner del sud del
mondo; 2) sostituzione di prodotti di multinazionali con prodotti
equi e solidali; 3) ricavo di risorse economiche che investiamo
al servizio delle Botteghe del Mondo e di iniziative politiche;
4) contatto verso un pubblico che non conosce né noi né le Botteghe.
Il fatturato e la visibilità delle Botteghe non è mai cresciuto
come in questi ultimi anni, nei quali sono appunto aumentati i prodotti
Fair Trade nella grande distribuzione.
Non correte il rischio di restare stritolati
dal colosso?
Abbiamo detto che i rischi ci sono, che nel commercio può accadere
tutto, che la nostra indipendenza politica non deve essere messa
in discussione. Conosciamo le cifre, e riteniamo di essere al di
sotto della soglia di dipendenza, quindi di non correre rischi di
stritolamento. Anche perché sono tante le catene che riforniamo.
Se qualcuno non rispetta i nostri criteri, saremo noi ad uscire.
E i lavoratori di Esselunga? Quali margini
pensi ci siano per poter contribuire a tutelare anche loro?
Noi osserviamo Esselunga dall'esterno, e come per tutti i nostri
partner non possiamo esprimere valutazioni dirette. Ma abbiamo anche
l'obbligo di verificare la coerenza rispetto ai principi del commercio
equo, ed alla nostra cultura sociale. Qualcuno si scandalizza, e
non si rende conto che è proprio in quanto abbiamo allacciato rapporti
con la grande distribuzione, che possiamo porci il problema di fungere
da «agenti di cambiamento»: siamo fiduciosi che ci siano dei margini
positivi. Anche per questo ci stiamo informando, e abbiamo chiesto
un incontro con Esselunga: per raccontare le nostre preoccupazioni
di «osservatori», ed esplicitare i criteri e i vincoli che abbiamo.
Vediamo anche l'altro lato della relazione: chi associa il suo marchio
al nostro, deve considerare che in caso di problemi potrebbe avere
anch'esso un impatto negativo.
Thanx to Manfo
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