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La CGIL deve dire SI
Anche se i grandi mezzi di comunicazione lo stanno oscurando, il voto per l'estensione dell'articolo 18 alle piccole imprese è un appuntamento cruciale. Una delle rare occasioni che abbiamo per estendere i diritti. Dopo l'anno dei movimenti in difesa delle conquiste, il referendum può rilanciare quelle energie in sintonia con le trasformazioni sociali. Sarebbe incomprensibile a tutti se la sinistra e la Cgil non sostenessero la campagna per il «sì»
La notizia riportata dai quotidiani negli ultimi giorni è netta: l'80%
dei cittadini italiani ignora l'esistenza del referendum per l'estensione
delle previsioni dell'art. 18 dello statuto dei diritti dei lavoratori
alle aziende con meno di 16 dipendenti. E' un dato inquietante,
che certamente ripropone la questione dello stato dell'informazione
nel nostro paese, ma che intanto sollecita l'immediata attenzione
di tutti i democratici su un quesito preciso: un'iniziativa che ha
a che fare con l'estensione dei diritti di chi lavora può fallire
perché i media hanno fin qui mantenuto un sostanziale silenzio sui
suoi contenuti e sulle sue ragioni?
La scadenza del voto si avvicina e il rischio del non raggiungimento
del quorum può essere scongiurato solo se tutti coloro, comunque organizzati,
che in questi ultimi mesi si sono mobilitati per la difesa e l'estensione
dei diritti, comprese le diverse espressioni della cultura giuridica,
sapranno cogliere gli aspetti positivi del referendum. Certo, sono
state e sono tante le critiche, le perplessità, e comunque le prese
di distanza in vari settori. E però, dopo la decisione della corte
costituzionale ammissiva del referendum, è necessario ragionare non
solo e non tanto per verificare la fondatezza
di queste censure, ma soprattutto per capire cosa conviene fare oggi.
Un'analisi spassionata dovrebbe consentire di superare ogni dubbio.
1. Intanto, una prima considerazione già da sola decisiva, che fa
riferimento al quadro complessivo del diritto del lavoro, alla tendenza
in atto ormai da anni, e alla situazione politica e sociale di oggi.
Ebbene, non si ricordano molte iniziative proposte nel corso degli
ultimi anni di segno positivo - esterne cioè a una logica puramente
difensiva o addirittura di adeguamento a una tendenza neoliberista
- per l'affermazione o l'estensione dei diritti, nonostante che nel
periodo si siano succeduti governi di tipo diverso. Certo, il 2002
verrà ricordato anche per grandi battaglie,
fra le quali la straordinaria mobilitazione in difesa dell'articolo
18: ma si è trattato appunto di una battaglia difensiva. E in positivo?
Oggi, quanto a iniziative di segno costruttivo, cioè di avanzamento,
è in campo questa iniziativa referendaria. E comunque: a prescindere
da questa, quali iniziative fuori da una logica subalterna per la
tutela del lavoro sono oggi concretamente possibili?
E' vero che all'ordine del giorno c'è il problema della ristrutturazione
in corso del mercato del lavoro, che è aperta la questione dei tanti
lavori cosiddetti autonomi senza tutele, come sottolineano molti di
coloro che criticano l'iniziativa referendaria; e però c'è anche la
questione posta dai processi di automazione e dalla diffusione del
decentramento produttivo, con il numero
sempre crescente di imprese con meno di 16 dipendenti, ma di rilevante
dimensione economica e di mercato. Di recente sono state diffuse alcune
cifre, secondo le quali attualmente l'art. 18 si riferisce solo al
37% della forza lavoro.
E allora, perché una sua estensione dovrebbe essere considerata marginale
per effetto dell'innegabile importanza del dilagare dei lavori cosiddetti
autonomi? Eppure, è irrisoria la tutela degli ormai numerosissimi
lavoratori delle imprese sotto la soglia dei 16 dipendenti, se è vero
che in caso di licenziamento ingiustificato è possibile anche un risarcimento
di due mensilità e mezzo della retribuzione, con tutto ciò che può
conseguire a una simile situazione anche in termini di precarietà
e di accentuazione della sottomissione per il timore del licenziamento.
Qui siamo in presenza di posizioni soggettive deboli, in relazione
alle quali è facile dire che la situazione può essere corretta
con un significativo aumento del risarcimento per il licenziamento
senza giusta causa (12 mensilità?).
Rimane però il fatto che alle parole e anche ai progetti non si è
dato alcun seguito in un recente passato, e che oggi è difficile vedere
all'orizzonte concrete soluzioni di tipo legislativo. L'iniziativa
referendaria ha una debolezza oggettiva, non c'è dubbio: è un'iniziativa
isolata, che è impossibile inquadrare in una complessiva
strategia alternativa delle forze di sinistra. Ma ciò dipende
dal semplice motivo che oggi una strategia del genere purtroppo non
esiste. Proprio a partire dall'articolo 18 una riflessione complessiva
potrebbe finalmente aprirsi. Comunque rimane il fatto che si tratta
di un tentativo di uscire dall'angolo, e già per questo merita di
essere sostenuta.
2. A questo proposito vanno fatte alcune realistiche osservazioni
anche a proposito delle possibilità di resistere alle tendenze in
atto. Intanto si ricomincia a parlare della modifica dell'articolo
18 dello statuto, nell'ultima versione contenuta nel «patto per l'Italia»,
evidentemente accantonata solo momentaneamente. Poi, non va dimenticato
che sono in corso le procedure di attuazione delle indicazioni del
cosiddetto libro bianco. Si va dal lavoro a chiamata al lavoro accessorio
o occasionale, dalla possibilità di ripartire un lavoro fra due o
più lavoratori per l'esecuzione di un'unica prestazione all'ampliamento
del lavoro part time, con l'allargamento delle ipotesi di lavoro intermittente
o a chiamata (con inevitabili gravi riflessi per il lavoro femminile,
per il quale la determinazione dei tempi di lavoro è ovviamente funzionale
all'impegno familiare).
Tutto ciò si aggiungerà alle modifiche che sono intervenute nell'ultimo
decennio. «Dalla volontà della legge alla legge della volontà», questo
è lo slogan che ha già ispirato molti interventi legislativi. Così
la legge n.196 del 1997, di disciplina del lavoro interinale, ha introdotto
una sostanziosa deroga al divieto d'appalto di manodopera; con il
decreto legislativo n.61 del 2000 è stata rimessa alla
contrattazione collettiva la possibilità di consentire prestazioni
lavorative part time con maggiore flessibilità rispetto ai limiti
previsti dalla legge; con il decreto legislativo n.368 del 2000 si
sono ampliati gli spazi del lavoro a termine. Insomma, da anni è in
atto un processo di precarizzazione dei rapporti di lavoro del quale
non si intravede la fine.
Allora, come non vedere che questa iniziativa referendaria, se avesse
successo, sarebbe un «contropiede» di grande efficacia rispetto alla
tendenza, contro chi sia pure in modi diversi si è mosso e si muove
in favore della adattabilità del lavoratore a qualsiasi situazione
determinata per propria convenienza da chi opera esclusivamente, e
del tutto liberamente, per il profitto? D'altra lato, va sottolineato
che l'iniziativa referendaria propone una questione di principio.
Si tratta di un diritto fondamentale
oppure no? Se si, come in tanti anche fra i perplessi dicono, allora
perché limitarlo alle aziende con più di 15 dipendenti nelle quali
opera poco più di un terzo del lavoro subordinato?
3. Quanto poi ai dubbi circa il possibile esito della consultazione,
potrebbero davvero ridursi se solo si riflettesse un attimo sul fatto
che dopo il successo elettorale della destra, quando avvilimento e
rassegnazione erano diffusissimi, ben difficilmente erano prevedibili
la misura straordinaria, e le convergenze, delle diverse mobilitazioni
di questi ultimi mesi, da Genova in poi, diverse e dettate dal molteplici
ragioni, ma che avevano in definitiva la tutela dei diritti fondamentali.
Queste mobilitazioni ci sono state,
e hanno avuto il loro peso. Dunque il «sì» può avere successo. Il
problema è essenzialmente quello del conseguimento del quorum, per
cui è necessario attivarsi subito per una diffusa sensibilizzazione
al fine di togliere efficacia al silenzio delle televisioni.
4. Vi è poi un'altra obiezione che circola, quella della divisione
che il referendum determinerebbe o avrebbe già causato fra le forze
di sinistra e quelle democratiche. Sul punto si possono proporre un
quesito, con riferimento alle prime, e una considerazione, in relazione
all'atteggiamento delle seconde. Intanto: quali sono le ragioni di
una simile divisione? Una riflessione razionale dovrebbe indurre facilmente
al loro superamento, se le cose stanno come si è detto. Insomma, chi
si divide, e da chi, e per che cosa? Forse pesa ancora il fatto che
fra i promotori c'è Rc, che a suo tempo mise in crisi il governo Prodi?
Le obiezioni, se potevano avere un
valore prima, oggi, con l'iniziativa in campo, appaiono superate.
Le scadenze di contrasto efficace ai disegni di radicale ridefinizione
delle relazioni industriali dell'attuale governo non sono tante: questo
solo dovrebbe interessare a chi si considera di sinistra.
E poi. Certo, è esperienza di questi mesi, ogni battaglia per la difesa
e l'estensione dei diritti avrà sempre bisogno dell'impegno forte
del centro democratico. Ma anche questo problema, per la cui soluzione
i promotori del referendum dovranno lavorare, va inquadrato
nel comune interesse di un'opposizione radicale, su tutti i fronti,
alla politica governativa. Questa, sulla vicenda della guerra come
sulla questione dell'informazione, sulla giustizia come sull'articolo
18, non è stata messa in difficoltà dalle perplesse obiezioni di alcuni
leader dell'Ulivo, ma da grandi mobilitazioni unitarie di massa.
Come non trarre un insegnamento, anche da parte delle forze di centro,
da queste vicende? Dunque, la scadenza elettorale si avvicina. Se
il quorum non verrà raggiunto, le possibilità di difesa
dei diritti di chi lavora (anche per coloro ai quali il referendum
non si rivolge direttamente) si attenueranno. Per il successo è pertanto
necessario l'impegno di tutte le forze democratiche.
Thanx to Manfo
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