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20-05-03

  Cresce l'Italia precaria: 5 milioni gli atipici, interinali triplicati

Un'Italia dove il 12% delle famiglie risulta sotto il livello di povertà: oltre 2 milioni e mezzo di nuclei familiari, per un totale di 7 milioni e 800 mila persone. Uno stivale diviso sempre più nettamente in due, perché «solo» il 5% delle famiglie del nord è povero, mentre al sud la cifra raggiunge il 24%, ovvero quasi un quarto delle famiglie meridionali. E poi c'è l'aumento dei lavoratori atipici, che ormai sfiorano i 5 milioni, con la crescita esponenziale degli interinali, gli operai «in affitto», triplicati in soli 2 anni. Un'Italia sempre più povera, precaria, insicura, quella descritta dal rapporto annuale dell'Istat.

Nel 2002 l'occupazione ha continuato a crescere, per il settimo anno consecutivo (1996-2002 crescita media annua +1,2%). Negli ultimi due anni è aumentata di più quella standard (+2,4%, a fronte del 2,1% del quinquennio precedente) mentre quella atipica si è stabilizzata (+2,1%), perché il vero boom è stato nel '96-2001 (+6,8%). Il tasso di disoccupazione è del 9,6%, a fronte del 7,4% Ue; penalizzate le donne italiane, disoccupate al 13,1%, contro l'8,6% Ue. I lavoratori «atipici», come si è detto, sfiorano i 5 milioni di persone: 2 milioni e 200 mila sono infatti i dipendenti a termine o part-time, mentre 2 milioni e 400 mila sono i collaboratori coordinati e continuativi; senza contare gli interinali, circa 80 mila.

Una crescita sostenuta nell'universo dell'atipico è stata registrata nel part-time (in Italia tra il `95 e il 2000 è cresciuto del 2,1%, nell'Ue dell'1,9%) e nel ricorso al tempo determinato, cresciuto in Italia del 2,4% e nella Ue dell'1,4%. I dati parlano anche dell'insoddisfazione di queste tipologie di atipici: un part-time su tre lo è suo malgrado, così come un dipendente a termine su due. Anche dal ritratto dei co.co.co. emerge un quadro di precarietà e di accettazione per ripiego: la maggior parte dei redditi bassi si concentra nelle fasce giovani, di ingresso nel mercato, mentre più ricchi risultano i co.co.co. anziani, che in genere scelgono questo tipo di contratto, sommandolo a un altro impiego o alla pensione: il 41% dei giovani fino a 24 anni non supera i 3 mila euro di reddito annui, il 73% di quelli fino a 29 prende meno di mille euro al mese. In media i rapporti di lavoro non superano i 6 mesi, il 67% dei co.co.co. sono maschi.

Sorprendenti i dati sugli interinali: a parte la crescita esponenziale delle missioni (+230% dal '99 al 2001), risulta che il 50% di loro lavora meno di 26 giorni all'anno, mentre il 7% un solo giorno. E' cresciuto anche il ricorso al lavoro irregolare: dell'8,9% dal 1995 al 2000, attestandosi a un tasso del 15%. La regione dove il lavoro è più «pulito» risulta l'Emilia Romagna, quella con la percentuale più alta di irregolari la Calabria.

Infine uno sguardo all'inflazione programmata, istituto che ha perso progressivamente la sua funzione di regolazione anticipata rispetto all'inflazione reale. Nel 2000 si attendeva il 2,3%, nel 2001 e 2002 l'1,7%: si sono avuti invece, rispettivamente il 2,5%, il 2,7% e il 2,4%, mentre le retribuzioni contrattuali non riescono a tenere il passo rispetto all'inflazione reale, perdendo 3 decimi di punto all'anno sui recuperi.

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GERONTOBOOM
Siamo in testa alla classifica europea dell'invecchiamento. Restano pochi i nuovi nati

L'Italia ha un primato, rivela il Rapporto annuale dell'Istat: il più alto indice di anziani al mondo. Centotrentatre ultrasessantacinquenni e oltre cento giovani con meno di 15 anni, una sproporzione che è superiore anche a tutti i paesi europei, tanto da porre seri problemi di indirizzo per qualsiasi politica sociale e assistenziale. Il ciclo vitale si allunga e si diventa anziani sempre più tardi. Nel 1952, un uomo poteva aspettarsi di vivere 12,5 anni in più dopo avere raggiunto i 65 anni di età mentre una donna poteva far conto su altri 13,7 anni. Nel 2002, la situazione è notevolmente diversa, tanto che gli uomini possono aspettarsi un prolungamento della vita di oltre i 16 anni e le donne, addirittura, di oltre i 20 anni.

Rimane da vedere come si continua a vivere sulla base della conservazione della propria autonomia e dell'«autopercezione» del proprio stato di salute. Considerando i due aspetti, afferma l'Istat, «per merito della prevenzione e delle cure, le donne vivono in modo autonomo più a lungo degli uomini (16 anni mediamente contro i 13 dei maschietti), ma in un peggiore stato di salute». Ovvero: l'assistenza medica ha dato ottimi risultati nel debellare determinate patologie (quelle infettive, ad esempio), ma non ha potuto scongiurare gli effetti sulla salute della cronicità di moltre altre patologie. Quali, ad esempio, quelle delle ossa (artrite, osteoporosi) e cardiovascolari (ipertensione). E' evidente che le donne vivono in maniera differente secondo regione: nel mezzogiorno, un'anziana vive più a lungo ma peggio di una coetanea del nord-est.

L'altra faccia della crescita dell'invecchiamento della popolazione italiana è la modesta crescita demografica del paese, ovvero il tasso di natalità o, meglio, di «fecondità», com'è scritto nel Rapporto. Nel 2002. la situazione non si è sostanzialmente modificata rispetto all'anno precedente: l'andamento della fecondità per ogni singola donna è passato da 1,25 figli nel 2001 a 1,26 nel 2002. La scelta della famiglia con un solo figlio rimane «un obbligo» economico, ma non corriponde al reale desiderio femminile. Da un sondaggio, infatti, emerge che le donne dichiarano di volerne almeno due, ma allo stesso sono pronte a rinunciarvi in considerazione dell'onere (non solo economico) che ne deriva. Ad esempio, la trasformazione del proprio ruolo nella società. «Il 20% delle donne alla fine della gravidanza - rivela l'Istat - cessa di lavorare». La rinuncia alla seconda gravidanza è condizionata soprattutto dal fatto che il 52,9% delle madri ha un lavoro fuori di casa e spesso non ci sono strutture di intervento per la protezione dell'infanzia. Il fatto di avere un posto di lavoro è invece un altro motivo valido per ritardare la maternità.

Negli anni venti si mettevano al mondo in media quattro figli; negli anni `60 e `70 erano già poco più di 2,3; nel primo decennio del duemila, poco più di uno solo. Mediamente, il primo figlio viene fatto oltre i 27 anni di età e la fecondità è differentemente rappresentata secondo la specificità territoriale. A Napoli spetta ancora il primato (2,96), mentre a Trieste i livelli di fecondità sono pari al 1,50. A metà strada, in questa tradizionale differenza, si collocano l'Emilia- Romagna, il Veneto e la Toscana.

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