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La nuova
razza flessibile
Metà dei nuovi assunti negli ultimi anni sono reclutati mediante contratti
"atipici" Sono una generazione che si adatta, e per questo incerta
di fronte al futuro.
È SINGOLARE il modo di affrontare la questione giovanile, in Italia.
Meglio: di "non" affrontarla. Ci si stupisce perché il tasso di disoccupazione
giovanile nel nostro paese sia il più alto, fra i paesi
industrializzati. Raggiunge il 30 per cento, secondo l´Ocse.
In crescita rispetto all´anno scorso, mentre tutti gli altri indicatori
vedono l´Italia migliorare la situazione dell´occupazione.
Tranne che fra i giovani, appunto. Ma il confronto sulle politiche
del lavoro e della previdenza, causa di polemiche
roventi tra sindacati, governo e forze politiche, viene affrontato
"a prescindere". Senza fare i conti con la "questione giovanile".
Certo, l´esigenza di allungare l´età pensionabile riflette il cambiamento
demografico.
Il protrarsi della vita attiva (avere sessanta ma anche settant´anni
oggi è ben diverso rispetto a trent´anni fa). Riflette, inoltre, l´aumento
insostenibile della spesa sociale, in un paese in cui il peso dei
trasferimenti "pensionistici" è preponderante.
Tuttavia, allungare l´età pensionabile, favorire la compresenza della
pensione con altre attività, secondo le linee previste dal governo
(non solo questo, naturalmente) rallenta le possibilità di ricambio;
frena l´ingresso dei giovani sul mercato del lavoro. E li costringerà
a pagare un costo elevato, per sostenere
le pensioni dei padri e dei nonni. Inutile, peraltro, attendersi uno
"sciopero generazionale", dei figli contro i padri, come paventò,
provocatoriamente ma non troppo, Mario Monti qualche anno fa.
Perché i padri continuano e continueranno a "mantenerli" a lungo,
i loro fili. Perché, inoltre, questa situazione riflette un modello
culturale "dato per scontato". Assecondato, in modo più o meno consapevole,
dalle strategie dei soggetti istituzionali ed economici, in materia
di giovani. È la "politica della non politica". La scelta di non scegliere.
Di lasciare che giovani si arrangino da soli, nel lavoro e nella vita.
Che a sostenerne i problemi ci pensino le loro famiglie. Al più, gli
enti locali, dove la pressione giovanile è più forte e diretta.
In fondo, per restare al tema del mercato del lavoro, sono loro il
bersaglio delle strategie riassunte nella formula di "flessibilità".
Fa un po´ specie assistere alle polemiche furiose sull´esigenza di
"adeguare" il modello italiano ad altri, ritenuti più efficienti del
nostro: gli Stati Uniti, l´Inghilterra. Perfino il Giappone. Rendendo
anche l´Italia più "flessibile". Per legge. Visto che in Italia, se
valutiamo l´ingresso nel mercato del
lavoro, la flessibilità è generalizzata. Da tempo. Su livelli che
l´Inghilterra e la stessa America ci dovrebbero invidiare (ammesso
che si tratti di un aspetto comunque "invidiabile"). Più di metà dei
nuovi assunti negli ultimi anni, infatti, sono reclutati mediante
contratti cosiddetti "atipici".
A tempo determinato, parziale, interinali, di formazione-lavoro. Oppure
si tratta di "co.co.co.": acrostico che fa pensare ai polli di allevamento,
ma sta a indicare i contratti di collaborazione
continuativa. Forme di lavoro "autonomo", che sostituiscono, spesso,
rapporti di lavoro, ma senza vincoli per l´azienda. E poi, le mille
e mille partita Iva. Nel complesso, considerando l´insieme dei lavori
"atipici" sul totale degli occupati, secondo l´Istat, si passa dal
18 per cento nel 1996, al 23,4 nel 2000. Il che significa, da un milione
e mezzo di persone a 2 milioni e 200mila, in 4 anni. Va ricordato,
peraltro, che nell´ultimo anno questo processo ha registrato
una ulteriore progressione.
Ormai una persona su 4, fra gli occupati, ha un rapporto di lavoro
atipico. Questa componente, tuttavia, fra i giovani diventa molto
più ampia. Nell´industria e ancor di più nei servizi. Nelle "imprese
sociali". Nel campo della comunicazione. Quasi tutti sono "atipici".
Per questo poco interessati (nel senso di "coinvolti direttamente")
dalla discussione sull´articolo 18.
E dal dibattito sulla "flessibilità". Perché per loro la "flessibilità"
è diventata "norma". Mentre atipiche sono la "routine", la continuità,
la regolarità. I giovani, una "razza flessibile". Abituata a badare
a se stessa. Da sola. Con l´aiuto fondamentale della famiglia. Sono
"flessibili", i giovani, non solo nel lavoro, naturalmente.
La loro competenza tecnologica è totale. Usano il cellulare, gestendone
tutte le funzioni, già alle scuole medie. Navigano su Internet, senza
difficoltà, fin dalle elementari. Consultano motori di ricerca, comunicano
per e-mail, chattano. Mentre, su questo terreno, i loro genitori arrancano.
E i nonni (cinquant´anni d´età, non un secolo...) si perdono… I giovani:
conoscono le lingue. Viaggiano. Nel tempo libero. E soprattutto per
motivi di studio. Basti pensare alla diffusione
esponenziale che hanno conosciuto le borse di studio all´estero tra
laureandi e neolaureati. La nuova "razza flessibile". Che ha di fronte
una carriera instabile e discontinua, punteggiata di molti "lavori",
un reddito incerto e aperto, una previdenza sanitaria e una pensione
collegate al sistema assicurativo e bancario-finanziaro (affidandosi,
coraggiosamente, all´àlea).
La "nuova razza flessibile". Agisce racchiusa in piccoli gruppi oppure
all´interno dei perimetri generazionali che essa stessa ha tracciato
(le discoteche, ma anche i centri sociali). Agile. Adattiva. Tattica.
Comunicativa. Costretta al "rischio". E, per questo, incerta nei confronti
del futuro. Le politiche del governo (dei governi) trascurano questo
aspetto. Lo specifico giovanile. La sua impronta
sempre più flessibile. La sottovalutano anche gli attori sociali.
Il sindacato, ad esempio. Perché dovrebbero riflettere criticamente
sul proprio modello di rappresentanza. Anche per questo i giovani
tendono a divenire un´enclave.
La barriera che separa loro, "flessibili", da noi, i genitori, i nonni:
gli "inflessibili", diventa evidente. Ma non diventa un muro, una
frattura. Perché fra noi, fra le generazioni, c´è complicità. Noi,
i genitori, la famiglia, compensiamo i costi della "loro" flessibilità.
Noi, con un lavoro relativamente stabile e la speranza di
arrivare alla pensione, garantiamo la precaria e zigzagante
carriera dei giovani. Siamo la stazione in cui essi si fermano, tra
un segmento e l´altro della loro vita lavorativa. Della loro vita.
Noi. Il chiodo a cui si appigliano, nei momenti di emergenza. Di insicurezza.
Per questo i giovani, anche se, anzi: proprio perché "flessibili",
restano legati alla loro casa e alla loro famiglia. Sempre più a lungo.
Anche se fisicamente sono poco presenti.
(E noi li attendiamo, pazienti e disponibili, perché sono figli unici,
e senza di loro soffriamo la solitudine...).
I giovani, nuova "razza flessibile": la mente aperta, un presente
e un futuro lavorativo composito e scomposto, scarsamente assistito.
E per questo "protetti", ma anche "condizionati" dagli adulti, dalla
famiglia. È l´effetto, lo specchio di una società flessibile, che
non ha un progetto. Che non ha un modello
di welfare alternativo. Sfalda quello precedente senza crearne un
altro. Scarica sui giovani e sulle famiglie il compito di pensare
al futuro. Di affrontarne i rischi. Secondo il tradizionale modello
del bricolage. Inutile sorprendersi. È il "liberismo all´italiana".
Thanx to Manfo
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