     |
|
Bergamo,
Rinascente-Auchan, terziariato migrante e cooperativo
I capoccia delle imprese di pulizie i latinos da far lavorare in nero
li reclutano alla stazione di Bergamo. Chi ha bisogno di una colf
la trova a colpo sicuro, e sempre in nero, sotto i propilei di porta
Nuova, dove si radunano russe, ucraine, moldave. Per l’edilizia, domanda
e offerta s’incontrano di fronte a qualche bar che tira su
la saracinesca all’alba: i pullmini dei magut, scendendo dalle valli,
fanno tappa e caricano slavi e maghrebini.
Gli ambulanti senegalesi i loro fazzolettoni li stendevano nel «salotto
buono», in via XX Settembre; due settimane fa il mercatino è stato
sbaraccato dai vigili, braccio armato (di manganello) del sindaco
Veneziani. Di notte, nigeriane e albanesi battono sugli stradoni.
Si può mappare anche così il lavoro degli immigrati a Bergamo e la
mappa risulterebbe identica a quella di qualsiasi altra città. Ma
se si allargano di poco i confini,
la provincia più lavorista d’Italia – dove la vita aveva il marchio
delle quattro effe: fame, freddo, fumo e fatica – è piena di migliaia
di immigrati regolarmente al lavoro in fabbriche, capannoni, laboratori
artigiani: 30 mila gli extracomunitari residenti, una percentuale
alta, anche se non nordestina. Immigrati protagonisti di felici incontri
con il sindacato e di belle storie di lotta. Come queste due.
Subito fuori Bergamo, la strada per il lago d’Iseo è costeggiata da
tanti lombriconi di plastica; sono serre per la coltivazione di verdure
e insalata. Parecchia di quell’insalata viene lavata e confezionata
in buste e vaschette all’Ortobell – sponsor dell’Atalanta – di San
Paolo d’Argon. Il contratto integrativo dell’Ortobell è tra i migliori
nella provincia di Bergamo (metalmeccanici compresi). Dei 140 dipendenti
più della metà sono marocchini, vengono dalla provincia
di Beni Amir. Sono stati loro, due anni fa, a cercare il sindacato,
a farlo entrare in azienda e a conquistare un buon contratto, anche
per gli italiani.
Sono marocchini due dei tre delegati, impegnati in questi giorni a
mettere giù la piattaforma per il nuovo contratto integrativo. Prima
di arrivare a Bergamo, a ridosso della Dalmine, c’è – anche se si
fatica a trovarlo – il Centro del Rondò. Se chiedete indicazioni stradali,
si sbagliano e vi mandano al centro
commerciale di Curno. Il Rondò è il «polo logistico» del Gruppo Rinascente
(51 per cento Ifil-Fiat, 49 per cento Auchan). Un grande capannone
dove si smistano le merci, esclusi gli alimentari, destinate alle
varie catene del gruppo.
Il lavoro di braccia è tutto appaltato alle cooperative. Essere «socio»
di una cooperativa significa guadagnare pochissimo e lavorare moltissimo,
non avere ferie, liquidazione e diritti. Un anno fa i 150 «soci»,
con uno sciopero a oltranza, hanno conquistato dalla cooperativa Bb
Service salari e orari più decenti; e li hanno mantenuti al cambio
dell’appalto, imponendo alla Rinascente di non «strozzare» la cooperativa
subentrante, il Consorzio Intesa. Solo una trentina dei «soci» sono
italiani; gli altri sono senegalesi, ghanesi, marocchini, somali,
filippini. È merito loro se, caso forse unico in Italia, un pezzetto
di Statuto dei lavoratori è stato esteso ai soci di una cooperativa.
Le due storie sfatano, innanzi- tutto, il luogo comune dell’immigrato
ricattabile e, quindi, anello debole della classe lavoratrice. «Gli
italiani hanno sempre paura, non capisco perché», dice Mamadou Diallo,
24 anni, guineano. Un mese fa è intervenuto a un’assemblea sulla legge
Bossi-Fini in un liceo di Bergamo e gliele ha cantate all’onorevole
della Lega. «La lotta al Rondò mi ha dato coraggio e mi hanno sostenuto
gli applausi degli studenti». Con i «colleghi» Mamadou sta bene, non
ci sono tensioni tra le diverse etnie, «ma a dirti la verità io sto
meglio fuori, perché il lavoro è duro, si fanno anche dieci ore al
giorno e con le cooperative ci sono sempre problemi».
Un lavoro così lo si accetta perché si è costretti. Mamadou sta cercando
qualcosa di meglio anche se il meglio che davvero desidera,«studiare
informatica», è ancora fuori portata. Il sindacato, la Filcams Cgil,
«mi è servito e mi serve ancora». Ha molti amici e, aggiunge, amiche
italiani. Per Samba Khouma, uno dei primi senegalesi arrivati nella
bergamasca, il sindacato è stato davvero «in gamba». Il sindacato
sono le persone che lo fanno, e non sono tutte uguali; «noi siamo
stati fortunati, abbiamo trovato quella giusta» (è Mirco Rota, il
segretario della Filcams di Bergamo). Samba «l’africano» è stato il
leader della lotta al Centro del Rondò. Incassata la vittoria e la
bella soddisfazione – «sarò sempre
contento di quello che abbiamo fatto» – si è messo in proprio, come
artigiano.
Fa cinture, ora guadagna di più, «ma devo lavorare di più». È un quasi
bergamasco, sta con Elsa la sarta, manda i soldi a casa alla moglie
e ai due figli, suona nel complesso Kurghi. Rispetto a quindici anni
fa, per gli immigrati è cambiato «tanto». C’è la Bossi-Fini in arrivo,
«una legge assurda», ma Samba ormai ha più amici italiani che senegalesi,
«ed è giusto così perché qui siamo in Italia mica in Senegal». Certo,
cambiare la testa di certi bergamaschi, in particolare dei leghisti,
è dura. «Però io penso questo. Se uno ci accetta, vive meglio. Se
non lo fa, è più infelice lui di me». Pur se individuali, le esperienze
di Samba e Mamadou incrinano un altro luogo comune. Quello dell’immigrato
che bene o male ha risolto il problema del lavoro, ma non quello della
casa, dei servizi, della lingua, della scuola per i figli.
Quella ormai è una verità solo parziale, perché la forza che gli immigrati
hanno conquistato con il lavoro e nei luoghi di lavoro li rende più
saldi e sicuri anche fuori, nella società. Parecchi hanno comprato
casa, spesso con mutui garantiti dalle aziende. I figli degli immigrati
– ha scoperto una ricerca della Fondazione Agnelli – a parità
di reddito hanno un rendimento scolastico tendenzialmente migliore
degli italiani. Sono segnali d’integrazione al riparo dai calci in
culo minacciati da un Borghezio qualsiasi e dalla ferocia ideologica
della Bossi-Fini, che le «esigenze» delle imprese provvederanno a
smussare.
Gli italiani si attardano nella loro schizofrenia: vogliono che gli
immigrati esistano dall’alba al tramonto e scompaiano per incanto
dal tramonto all’alba; li «utilizzano» ben volentieri, ma si lamentano
di dover pagare i costi sociali della forza-lavoro immigrata. La realtà
li ha già superati. A tal punto che gli immigrati, fatte le prime
prove di conflittualità nei luoghi
di lavoro, smettono di considerare il lavoro come l’unica identità
in un Paese straniero. La vita, anche per loro, non si esaurisce nel
lavoro. Un processo che li rende sempre più uguali ai lavoratori italiani.
Resta diverso il loro bisogno di sindacato e, di conseguenza, il loro
tasso d’adesione al sindacato (il dato andrebbe aggiornato perché
con lo scontro sull’articolo 18 la Cgil sta reclutando parecchio anche
tra i giovani italiani).
Ovviamente, gli immigrati del Rondò e dell’Ortobell si sono tesserati
in massa alla Filcams. Ma non sono gli unici. Sono stranieri il 20
per cento degli iscritti alla Filcams di Bergamo e, dato ancor più
significativo, lo sono oltre la metà dei nuovi tesserati. Il trend
vale per tutto il Nord e per tutte le categorie industriali e dei
servizi. Resta basso, invece, il numero di delegati immigrati e la
loro presenza negli organismi direttivi del sindacato. C’è una differenza
sostanziale tra la lotta al Rondò e il caso dell’Ortobell. La prima
è stata preparata da un lungo e paziente lavoro della Filcams che,
presente nel Gruppo Rinascente, è riuscita a gettare una testa di
ponte e poi a dilagare tra i soci-lavoratori della cooperativa.
L’Ortobell, invece, fino a due anni fa era terra incognita per il
sindacato. Ricordate la lotta per il permesso di soggiorno degli immigrati
a Brescia? I marocchini dell’Ortobell videro alla tv (qualche volta
la televisione fa bene) i «fratelli» che facevano lo sciopero della
fame in piazza Loggia, capirono che la Cgil stava dalla loro parte.
Si presentarono in folta delegazione alla Cgil di Bergamo e tutto
il resto venne di conseguenza. Non
ci fu neppure bisogno di scrollare l’albero, i fratelli Bellina –
allora proprietari dell’Ortobell – alzarono le mani e firmarono: straordinari
pagati di più, mezz’ora di pausa-mensa retribuita, scatti di categoria,
aumento fisso di 3 milioni di lire netti l’anno, banca ore, ferie
lunghe per andare in Marocco, corsi d’italiano in azienda fuori dall’orario
di lavoro ma pagati per chi li frequenta. E 700 milioni per «sanare
il pregresso», le magagne del passato.
«Sarei un bugiardo a lamentarmi dei marocchini», ci disse allora il
signor Fulvio Bellina. L’Ortobell adesso è della multinazionale francese
Bonduelle. Un colosso da cui i marocchini non si fanno intimidire.
Hanno respinto in massa la richiesta d’iniziare a lavorare alle 5
invece che alle 6. Se qualcuno vuole pregare in orario di lavoro,
«si lava le mani e si ferma per qualche minuto», dice il delegato
Khalil Abdelali. I marocchini fanno i delegati,
ma non fanno i capi. «Qui tra noi marocchini siamo tutti fratelli,
se a uno fai fare un lavoro meno pesante, gli altri magari pensano
che l’hai privilegiato», risponde Khalil, «meglio che a comandare
siano gli italiani». Le donne non ci sono in queste storie di lavoro
degli immigrati. Stanno al Paese d’origine o si sono «ricongiunte»
con i mariti. Qui o là, devono badare ai figli e ai vecchi.
All’Ortobell ci sono alcune operaie italiane. A pranzo si mangia,
tutti insieme in uno stanzone, quel che ci si porta da casa. Si sta
allestendo un locale più idoneo e al «grigio», uno dei marocchini
più anziani con i capelli brizzolati, è scappato detto che «la mensa
sarebbe meglio farla separata per uomini e donne». È rimasto un sussurro,
senza conseguenze (per il momento).
Al Rondò gli immigrati hanno vinto, ma non possono abbassare la guardia.
L’ultima trovata della Rinascente è un classico per rompere il fronte.
Ha creato un nuovo piccolo reparto per i «capi appesi», dove gli abiti
girano sulle grucce, e l’ha appaltato a un’altra cooperativa, la Zapping.
Che i suoi «soci», tutti senegalesi, li paga meno, 10 mila lire all’ora
tutto compreso, e li ha fatti iscrivere d’ufficio a un altro sindacato.
Nulla di nuovo sotto il sole, succedeva così anche quando c’erano
solo gli italiani, dice Mirco Rota. Le esperienze del Rondò e dell’Ortobell,
aggiunge il segretario della Filcams di Bergamo, danno al sindacato
il coraggio d’avere una spinta in più anche dove gli immigrati non
ci sono. «Ci siamo riusciti lì in una babele di lingue, perché non
ci possiamo riuscire dove si parla in bergamasco?».
Thanx to Manfo |