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27-11-02

  Bergamo, Rinascente-Auchan, terziariato migrante e cooperativo

I capoccia delle imprese di pulizie i latinos da far lavorare in nero li reclutano alla stazione di Bergamo. Chi ha bisogno di una colf la trova a colpo sicuro, e sempre in nero, sotto i propilei di porta Nuova, dove si radunano russe, ucraine, moldave. Per l’edilizia, domanda e offerta s’incontrano di fronte a qualche bar che tira su la saracinesca all’alba: i pullmini dei magut, scendendo dalle valli, fanno tappa e caricano slavi e maghrebini.

Gli ambulanti senegalesi i loro fazzolettoni li stendevano nel «salotto buono», in via XX Settembre; due settimane fa il mercatino è stato sbaraccato dai vigili, braccio armato (di manganello) del sindaco Veneziani. Di notte, nigeriane e albanesi battono sugli stradoni. Si può mappare anche così il lavoro degli immigrati a Bergamo e la mappa risulterebbe identica a quella di qualsiasi altra città. Ma se si allargano di poco i confini, la provincia più lavorista d’Italia – dove la vita aveva il marchio delle quattro effe: fame, freddo, fumo e fatica – è piena di migliaia di immigrati regolarmente al lavoro in fabbriche, capannoni, laboratori artigiani: 30 mila gli extracomunitari residenti, una percentuale alta, anche se non nordestina. Immigrati protagonisti di felici incontri con il sindacato e di belle storie di lotta. Come queste due.

Subito fuori Bergamo, la strada per il lago d’Iseo è costeggiata da tanti lombriconi di plastica; sono serre per la coltivazione di verdure e insalata. Parecchia di quell’insalata viene lavata e confezionata in buste e vaschette all’Ortobell – sponsor dell’Atalanta – di San Paolo d’Argon. Il contratto integrativo dell’Ortobell è tra i migliori nella provincia di Bergamo (metalmeccanici compresi). Dei 140 dipendenti più della metà sono marocchini, vengono dalla provincia di Beni Amir. Sono stati loro, due anni fa, a cercare il sindacato, a farlo entrare in azienda e a conquistare un buon contratto, anche per gli italiani.

Sono marocchini due dei tre delegati, impegnati in questi giorni a mettere giù la piattaforma per il nuovo contratto integrativo. Prima di arrivare a Bergamo, a ridosso della Dalmine, c’è – anche se si fatica a trovarlo – il Centro del Rondò. Se chiedete indicazioni stradali, si sbagliano e vi mandano al centro commerciale di Curno. Il Rondò è il «polo logistico» del Gruppo Rinascente (51 per cento Ifil-Fiat, 49 per cento Auchan). Un grande capannone dove si smistano le merci, esclusi gli alimentari, destinate alle varie catene del gruppo.

Il lavoro di braccia è tutto appaltato alle cooperative. Essere «socio» di una cooperativa significa guadagnare pochissimo e lavorare moltissimo, non avere ferie, liquidazione e diritti. Un anno fa i 150 «soci», con uno sciopero a oltranza, hanno conquistato dalla cooperativa Bb Service salari e orari più decenti; e li hanno mantenuti al cambio dell’appalto, imponendo alla Rinascente di non «strozzare» la cooperativa subentrante, il Consorzio Intesa. Solo una trentina dei «soci» sono italiani; gli altri sono senegalesi, ghanesi, marocchini, somali, filippini. È merito loro se, caso forse unico in Italia, un pezzetto di Statuto dei lavoratori è stato esteso ai soci di una cooperativa.

Le due storie sfatano, innanzi- tutto, il luogo comune dell’immigrato ricattabile e, quindi, anello debole della classe lavoratrice. «Gli italiani hanno sempre paura, non capisco perché», dice Mamadou Diallo, 24 anni, guineano. Un mese fa è intervenuto a un’assemblea sulla legge Bossi-Fini in un liceo di Bergamo e gliele ha cantate all’onorevole della Lega. «La lotta al Rondò mi ha dato coraggio e mi hanno sostenuto gli applausi degli studenti». Con i «colleghi» Mamadou sta bene, non ci sono tensioni tra le diverse etnie, «ma a dirti la verità io sto meglio fuori, perché il lavoro è duro, si fanno anche dieci ore al giorno e con le cooperative ci sono sempre problemi».

Un lavoro così lo si accetta perché si è costretti. Mamadou sta cercando qualcosa di meglio anche se il meglio che davvero desidera,«studiare informatica», è ancora fuori portata. Il sindacato, la Filcams Cgil, «mi è servito e mi serve ancora». Ha molti amici e, aggiunge, amiche italiani. Per Samba Khouma, uno dei primi senegalesi arrivati nella bergamasca, il sindacato è stato davvero «in gamba». Il sindacato sono le persone che lo fanno, e non sono tutte uguali; «noi siamo stati fortunati, abbiamo trovato quella giusta» (è Mirco Rota, il segretario della Filcams di Bergamo). Samba «l’africano» è stato il leader della lotta al Centro del Rondò. Incassata la vittoria e la bella soddisfazione – «sarò sempre contento di quello che abbiamo fatto» – si è messo in proprio, come artigiano.

Fa cinture, ora guadagna di più, «ma devo lavorare di più». È un quasi bergamasco, sta con Elsa la sarta, manda i soldi a casa alla moglie e ai due figli, suona nel complesso Kurghi. Rispetto a quindici anni fa, per gli immigrati è cambiato «tanto». C’è la Bossi-Fini in arrivo, «una legge assurda», ma Samba ormai ha più amici italiani che senegalesi, «ed è giusto così perché qui siamo in Italia mica in Senegal». Certo, cambiare la testa di certi bergamaschi, in particolare dei leghisti, è dura. «Però io penso questo. Se uno ci accetta, vive meglio. Se non lo fa, è più infelice lui di me». Pur se individuali, le esperienze di Samba e Mamadou incrinano un altro luogo comune. Quello dell’immigrato che bene o male ha risolto il problema del lavoro, ma non quello della casa, dei servizi, della lingua, della scuola per i figli.

Quella ormai è una verità solo parziale, perché la forza che gli immigrati hanno conquistato con il lavoro e nei luoghi di lavoro li rende più saldi e sicuri anche fuori, nella società. Parecchi hanno comprato casa, spesso con mutui garantiti dalle aziende. I figli degli immigrati – ha scoperto una ricerca della Fondazione Agnelli – a parità di reddito hanno un rendimento scolastico tendenzialmente migliore degli italiani. Sono segnali d’integrazione al riparo dai calci in culo minacciati da un Borghezio qualsiasi e dalla ferocia ideologica della Bossi-Fini, che le «esigenze» delle imprese provvederanno a smussare.

Gli italiani si attardano nella loro schizofrenia: vogliono che gli immigrati esistano dall’alba al tramonto e scompaiano per incanto dal tramonto all’alba; li «utilizzano» ben volentieri, ma si lamentano di dover pagare i costi sociali della forza-lavoro immigrata. La realtà li ha già superati. A tal punto che gli immigrati, fatte le prime prove di conflittualità nei luoghi di lavoro, smettono di considerare il lavoro come l’unica identità in un Paese straniero. La vita, anche per loro, non si esaurisce nel lavoro. Un processo che li rende sempre più uguali ai lavoratori italiani. Resta diverso il loro bisogno di sindacato e, di conseguenza, il loro tasso d’adesione al sindacato (il dato andrebbe aggiornato perché con lo scontro sull’articolo 18 la Cgil sta reclutando parecchio anche tra i giovani italiani).

Ovviamente, gli immigrati del Rondò e dell’Ortobell si sono tesserati in massa alla Filcams. Ma non sono gli unici. Sono stranieri il 20 per cento degli iscritti alla Filcams di Bergamo e, dato ancor più significativo, lo sono oltre la metà dei nuovi tesserati. Il trend vale per tutto il Nord e per tutte le categorie industriali e dei servizi. Resta basso, invece, il numero di delegati immigrati e la loro presenza negli organismi direttivi del sindacato. C’è una differenza sostanziale tra la lotta al Rondò e il caso dell’Ortobell. La prima è stata preparata da un lungo e paziente lavoro della Filcams che, presente nel Gruppo Rinascente, è riuscita a gettare una testa di ponte e poi a dilagare tra i soci-lavoratori della cooperativa.

L’Ortobell, invece, fino a due anni fa era terra incognita per il sindacato. Ricordate la lotta per il permesso di soggiorno degli immigrati a Brescia? I marocchini dell’Ortobell videro alla tv (qualche volta la televisione fa bene) i «fratelli» che facevano lo sciopero della fame in piazza Loggia, capirono che la Cgil stava dalla loro parte. Si presentarono in folta delegazione alla Cgil di Bergamo e tutto il resto venne di conseguenza. Non ci fu neppure bisogno di scrollare l’albero, i fratelli Bellina – allora proprietari dell’Ortobell – alzarono le mani e firmarono: straordinari pagati di più, mezz’ora di pausa-mensa retribuita, scatti di categoria, aumento fisso di 3 milioni di lire netti l’anno, banca ore, ferie lunghe per andare in Marocco, corsi d’italiano in azienda fuori dall’orario di lavoro ma pagati per chi li frequenta. E 700 milioni per «sanare il pregresso», le magagne del passato.

«Sarei un bugiardo a lamentarmi dei marocchini», ci disse allora il signor Fulvio Bellina. L’Ortobell adesso è della multinazionale francese Bonduelle. Un colosso da cui i marocchini non si fanno intimidire. Hanno respinto in massa la richiesta d’iniziare a lavorare alle 5 invece che alle 6. Se qualcuno vuole pregare in orario di lavoro, «si lava le mani e si ferma per qualche minuto», dice il delegato Khalil Abdelali. I marocchini fanno i delegati, ma non fanno i capi. «Qui tra noi marocchini siamo tutti fratelli, se a uno fai fare un lavoro meno pesante, gli altri magari pensano che l’hai privilegiato», risponde Khalil, «meglio che a comandare siano gli italiani». Le donne non ci sono in queste storie di lavoro degli immigrati. Stanno al Paese d’origine o si sono «ricongiunte» con i mariti. Qui o là, devono badare ai figli e ai vecchi.

All’Ortobell ci sono alcune operaie italiane. A pranzo si mangia, tutti insieme in uno stanzone, quel che ci si porta da casa. Si sta allestendo un locale più idoneo e al «grigio», uno dei marocchini più anziani con i capelli brizzolati, è scappato detto che «la mensa sarebbe meglio farla separata per uomini e donne». È rimasto un sussurro, senza conseguenze (per il momento). Al Rondò gli immigrati hanno vinto, ma non possono abbassare la guardia. L’ultima trovata della Rinascente è un classico per rompere il fronte. Ha creato un nuovo piccolo reparto per i «capi appesi», dove gli abiti girano sulle grucce, e l’ha appaltato a un’altra cooperativa, la Zapping.

Che i suoi «soci», tutti senegalesi, li paga meno, 10 mila lire all’ora tutto compreso, e li ha fatti iscrivere d’ufficio a un altro sindacato. Nulla di nuovo sotto il sole, succedeva così anche quando c’erano solo gli italiani, dice Mirco Rota. Le esperienze del Rondò e dell’Ortobell, aggiunge il segretario della Filcams di Bergamo, danno al sindacato il coraggio d’avere una spinta in più anche dove gli immigrati non ci sono. «Ci siamo riusciti lì in una babele di lingue, perché non ci possiamo riuscire dove si parla in bergamasco?».

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