Tratto da il Manifesto, 02-02back



Se le imprese lo vogliono fisso

UN'INDAGINE CGIL RIVELA CHE GLI IMPRENDITORI CHIEDONO PIÙ FLESSIBILITÀ MA NE PRATICANO MENO

Confindustria, stai attenta. Quello che chiedi - la flessibilizzazione del mercato del lavoro, principalmente attraverso la modifica dell'articolo 18 - alla tua base, alle imprese italiane, interessa ben poco. Il modello che tira e che tirerà ancora per anni - per tutto il secolo, addirittura, dicono alcuni studiosi - è quello del lavoro dipendente, con una fetta ben precisa e limitata di lavoro "flessibile".

A "mettere in guardia" le associazioni degli imprenditori è l'ultimo studio dell'Ires Cgil, "Il lavoro flessibile: cosa pensano davvero imprenditori e manager", inchiesta condotta tra il 2000 e il 2001 intervistando dirigenti e imprenditori di 467 imprese italiane piccole, medie e grandi di Lombardia, Emilia, Lazio e Campania. Secondo l'indagine, coordinata dal sociologo della Sapienza Aris Accornero, il lavoro "standard", a tempo pieno e indeterminato, è ancora il più praticato dal 96% delle imprese. Seguono i contratti a tempo indeterminato part-time (35%), le collaborazioni coordinate e continuative, i cosiddetti "Co co co" (12,4%), il tempo determinato pieno (8,6%) e, dopo varie altre voci, il lavoro interinale (3%). Un terzo delle imprese, soprattutto le più piccole, già flessibili per le loro stesse dimensioni, non fa ricorso a questo tipo di assunzioni. E per quali motivi si fa ricorso agli impieghi flessibili? Il 27% degli imprenditori risponde "per soddisfare esigenze di specifiche figure professionali", il 23,4% "per far fronte alla variabilità del mercato", il 12,3% per "provare nuovo personale in vista di assunzioni", il 10% "per soddisfare esigenze di lavoro in orari diversi". Non trascurabile, è chi sceglie l'"atipico" per "ridurre i costi del personale" (17,6%) e per "avere minori vincoli in caso di licenziamento" (4%).

Se è vero che alcuni strumenti come il part-time, i contratti a termine, di apprendistato, e in qualche misura anche gli interinali, servono a mettere alla prova i giovani o a far fronte alla crescita di domanda e ai picchi di produzione, è anche vero che, soprattutto nel caso dei contratti di collaborazione (Co co co e occasionali) si annidano i maggiori rischi di sfruttamento dei lavoratori. Casi in cui la flessibilità appare più selvaggia e decisamente soltanto a favore delle imprese. Basti pensare che oltre il 45% delle collaborazioni, secondo lo studio dell'Ires, rappresenta in pratica lavoro dipendente mascherato, essendo il lavoratore perfettamente inserito nella struttura aziendale, e quindi ad essa necessario, e ricevendo disposizioni "molto precise" e che di fatto diminuiscono la sua autonomia. In oltre i due terzi delle imprese gli "indipendenti" sono "interni", tenuti cioè a lavorare in azienda, la maggioranza fino a 15 ore settimanali, un terzo dalle 16 alle 30 ore.

"Insomma - nota Agostino Megale, presidente dell'Ires - si viene a creare un `doppio binario' all'interno della flessibilità stessa": alcuni lavoratori vivono gli impieghi "atipici" come una transizione necessaria verso il posto fisso o come una scelta (soprattutto nel caso dei part-time o delle consulenze professionali), ma molti, sempre di più, sono costretti a subire la flessibilità e a non uscirne, permanendoci anche per anni (soprattutto nelle fasce occupazionali di basso profilo e nel Sud).