Numero 7 - Dicembre 2002 - Anno 1

I due volti del razzismo


Non si può parlare di razzismo senza parlare dell'emigrante. Chi è l'emigrante? A titolo esplicativo intendo per emigrante lo straniero che lascia il proprio paese per motivi economici, per sfuggire a conflitti etnici o a una persecuzione politica nel proprio paese d'origine. Per l'emigrante il viaggio è una costrizione. A causa delle sua condizione, egli si trova ad un bivio: rimanere nel suo paese rischiando di morire, oppure emigrare sperando in una vita migliore. Spesso però la sua condizione stride con il dinamismo di una società globalizzata, in cui la possibilità di comunicazione e di spostamento si sono ampliate. Ma se la distanza spaziale si è enormemente ridotta, resta la dimensione del disagio e della solitudine per chi vive la sua esistenza all'insegna dell'esclusione e dell'isolamento sociale. 
L'emigrante è un uomo la cui condizione è contrassegnata dallo sradicamento che si sostanzia nella perdita dell'identità' culturale e nell'emarginazione. L'emarginazione è tanto più oppressiva quanto più l'emigrante si situa nei gradini più bassi della scala sociale. È difficile che un intellettuale, un professore universitario, uno scrittore famoso, uno scienziato, vivano l'emigrazione come esclusione sociale.
Costoro sono sopraffatti da uno stato d'animo che prende il nome di nostalgia. Il razzismo s'innesta là dove l'emigrante viene percepito come straniero e quindi come colui che minaccia e scardina l'identità di un popolo e/o di una comunità. "Il razzismo" scrive Albert Memmi per l'Encyclopaedia Universalis" è la valorizzazione, generalizzata e definitiva, di differenze, reali o immaginarie, a vantaggio dell'accusatore e ai danni della vittima, al fine di giustificare una aggressione o un privilegio". Lo scopo del razzismo è il dominio.
Una variante del razzismo biologista, che crede nella superiorità di una razza su un'altra, è il razzismo differenzialista. Il razzismo differenzialista riconosce le differenze, le esalta, non per riconoscerle, ma per porre una diga tra le comunità o gli individui che si incontrano. Il suo credo si basa su una semplice affermazione:"Io non ho nulla contro gli stranieri, purché vivano a casa loro".
Il razzismo differenzialista cristallizza gli individui all'interno della loro cultura di riferimento. In questo caso l'identità di appartenenza diventa una gabbia dalla quale è difficile uscire. Al razzista differenzialista fa paura la contaminazione, lo scambio, perché teme che la sua identità possa venire polverizzata dall'incontro con l'altro. Sembra un uomo attento alla cultura dello straniero ma nella realtà è un uomo violento. Egli fonda la sua convinzione su un mito che non ha alcun fondamento razionale, e cioè che la sua cultura sia pura,e per mantenerla pura, è necessario che le comunità non si incontrino. Secondo Taquieff, “questo concetto - statico - di cultura si opporrebbe alle contaminazioni culturali provocate dal metissage e alla "dinamicità che necessariamente deriva dall'incontro tra culture diverse”.
Il razzismo differenzialista, sempre secondo il nostro autore, “si caratterizza per un'inversione concettuale rispetto al razzismo classico: mentre quest'ultimo aveva come principi fondamentali, della propria elaborazione ideologica il concetto di razza, l'eterofobia e l'ineguaglianza, il razzismo differenzialista li sostituisce rispettivamente con quelli di etnia, eterofilia ed esaltazione delle differenze”.
Chi emigra, scrive Taquieff, ha già messo in discussione la sua appartenenza etnica-culturale. Ma che succede quando il razzista è costretto a convivere con lo straniero? Lo tollera, se è un democratico, lasciando ai fanatici la violenza. Non permette che lo straniero condivida lo stesso spazio. Un esempio ce lo danno "i ghetti" che nascono nelle città. "Ghetti" che non hanno muri o cancelli, ma che un osservatore attento riconosce senza problemi. Basta non essere distratti o camminare per le strade con la stessa idiota indifferenza che si vede nel volto dei turisti.
Per l'emigrante più numerose sono le occasioni di contatto e di confronto con la società locale, più aumentano le possibilità di scontrarsi con le barriere sociali.
Vivere in un paese straniero vuol dire "superare giorno per giorno gli ostacoli della diffidenza, di una lingua che non conosce, di leggi e regolamenti che a volte risultano insensati".
Non c'è da meravigliarsi che di fronte a tanti ostacoli, la reazione più "razionale" è chiudersi in se stessi o tra pari. È facile comprendere come la chiusura di una parte provochi la chiusura dell'altra,creando un circolo vizioso in cui le distanze diventano "abissi incolmabili". Anche quando ci si adatta al nuovo stile di vita, si sente la mancanza di rapporti profondi, di contatti immediati, di comunicazione vera. La cosa più buffa è che il razzista differenzialista viene considerato un sincero democratico. E, infatti, molti di questi "democratici", che non rinuncerebbero mai ai "privilegi" della democrazia, si dimostrano ostili e refrattari a riconoscerli agli stranieri.
Il diritto di cittadinanza, che sembra una cosa ovvia per i residenti, viene posta in un limbo istituzionale quando a richiederla sono gli stranieri. 
Ma c'è un'altra forma di razzismo che paradossalmente non viene vissuto come tale. Un razzismo che è difficile notare perché vive all'ombra della legalità ed è rispettoso delle leggi del mercato. Mi sto riferendo naturalmente al razzismo che vede nell'emigrante non un uomo, ma un risorsa umana per l'economia del paese che lo accoglie. Egli viene accolto e riconosciuto fino a quando le leggi del mercato lo permettono. Al manager non interessa la fede, la cultura, lo stile di vita dell'emigrante. 
È possibile che nella sua stessa fabbrica lavorino contemporaneamente individui di diverse nazionalità. Non è stato forse realizzato il regno dell'uguaglianza? Può darsi, purché non ci si lasci ingannare dallo spettacolo che i pronipoti di Adam Smith ci offrono.
Dove sta il trucco? È presto detto: l'umanità' dell'emigrante è subordinata alle leggi del mercato. È il profitto che interessa al manager, e non l'uomo. I suoi diritti (dell'emigrante) vengono riconosciuti fino a quando non viene espulso dal ciclo produttivo. Perdendo il lavoro, entra nel regno dell'irregolarità e poi della clandestinità. Questo razzismo è tanto più vile quanto più si avvale delle leggi dello stato.
Scrive Massimo Fini nel suo libro “Il lato oscuro dell'occidente”: "Privati della loro storia, delle loro tradizioni, della loro economia, della loro socialità, di quel tessuto di solidarietà, (.) ridotti a vivere in desolate periferie dell'impero e con i suoi materiali di risulta, questi uomini cercano di raggiungere il centro". E a pag. 59 del libro, l'autore scrive: "l'omologazione è una conseguenza ovvia della globalizzazione e della mondializzazione che esigono e presuppongono una omogeneità, omogeneità di stili di vita, di consumi, di istituzioni". I due razzismi, pur partendo da punti differenti arrivano allo stesso risultato: la discriminazione sociale ed economica dell'emigrante. Il razzismo ha molte facce, e spesso è difficile scovarlo. Non sempre si manifesta con la brutalità che lo contraddistingue. Sta a noi, anarchici, e a coloro che sta a cuore la dignità e la libertà dell'uomo, smontare l'ideologia che guida e sorregge il razzismo.
È difficile, lo so, ma la lotta contro il razzismo, se vogliamo che scompaia dalla faccia della terra, va di pari passo con la distruzione di una società che giustifica le gerarchie e lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

Malega


 

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