Fermare Bush
Quando uscirà questo giornale la guerra in Iraq potrebbe essere un dato di fatto (ufficialmente, intendo dire, poiché il massacro del popolo iracheno non si è mai interrotto dal '91).
Al di là delle analisi geopolitiche e delle diverse cause a cui è possibile attribuire l'attacco statunitense, mi interessa qui sottolineare come non ci siano dubbi su quali possano essere gli effetti della tanto pubblicizzata "guerra al terrorismo": (tanto per citarne alcuni)
- l'uccisione di ogni sentimento di solidarietà umana, assieme a quella di uomini, donne e bambini (si prevedono, nella sola fase iniziale, mezzo milione di vittime);
- l'ulteriore rafforzamento dell'attacco ad ogni forma di opposizione sociale (grazie alla logica "o con noi o con Saddam") mediante l'incremento delle strutture repressive e la militarizzazione della società;
- l'impoverimento di milioni di persone, giustificato dalle spese belliche;
- la propaganda degli ideali razzisti utili a giustificare lo sfruttamento su cui è fondata la cosiddetta "società civile";
- il riassetto dell'area mediorientale su posizioni consone agli interessi di Bush & soci, ossia quelle volte a favorire un'altra guerra (Arabia? Russia? Cina? Europa? chissà).
È insomma chiaro che l'obbiettivo che questa guerra si appresta a distruggere siamo noi, più che Saddam Hussein. Penso che questo debba essere il punto di partenza di ogni movimento contro l'aggressione all'Iraq: la consapevolezza che esso rappresenta nient'altro che una delle tante manovre politiche ed economiche volte a perpetuare l'oppressione di qualche miliardo di individui da parte delle élite del capitalismo mondiale. Una manovra, soltanto che, a differenza di altre, è necessario camuffare da scontro fra due poteri, uno buono e l'altro cattivo, poiché difficilmente potrebbe godere del vasto consenso di cui ha bisogno, se venisse pubblicizzata per quello che è. Un episodio questo, dunque, che non turba alcuna pace (poiché nessuna pace può esistere in una società fondata sullo stato e sul capitalismo) ma che, senza dubbio, accelera il processo di distruzione a cui chi ci governa ha deciso di accompagnarci.
D'altro canto, quali che siano le valutazioni personali, è impossibile negare che la questione ci coinvolga direttamente: sono notizie degli ultimi giorni la "perfetta riuscita" dei colloqui tra il "nostro" presidente operaio e Bush, il quale ha autorizzato il 31 Gennaio il ricorso al nucleare da parte statunitense, e la disponibilità espressa il 29 dal ministro Martino per la concessione delle basi aeree italiane in caso di attacco.
È quindi necessario, da parte nostra, agire in maniera tale da inceppare un meccanismo che sembra essere irreversibilmente predeterminato. Sulla possibilità di agire in questa direzione non ci sono dubbi: le esperienze di La Spezia, Davos e Shannon (dove è stato occupato l'aereoporto), assieme alle prospettive di sciopero generale e di manifestazione nazionale (a Roma il 15 Febbraio), sono solo alcune fra le innumerevoli testimonianze. Più difficile è invece trovare un accordo sulla scelta delle forme di lotta da adottare, ossia su quali esperienze fare proprie: manifestare assieme agli ex guerrafondai di sinistra oppure creare mobilitazioni libere da ogni ingerenza partitica (come a La Spezia)? lavorare per lo sciopero generale o impegnarsi nell'azione diretta contro la presenza militare nella nostra città? Promuovere il boicottaggio delle cosiddette banche armate (Banca di Roma, BNL, Unicredito, ecc.), oppure rinunciarvi "tanto le banche sono tutte uguali"? Propagandare l'antimilitarismo e l'antiautoritarismo sul proprio posto di lavoro (per chi ce l'ha) oppure discuterne con i compagni con cui è più facile trovare un terreno comune di azione? Il dibattito su cosa fare, senz'altro vivo nel movimento anarchico, coinvolge a mio avviso questioni di carattere più generale del singolo episodio militare e sembra contenere posizioni totalmente divergenti.
Penso che ciò sia dovuto, in ultima analisi, ai diversi modi possibili di risolvere l'inevitabile contraddizione che vive chi odia la società per le regole che essa ha deciso di imporsi ma, al tempo stesso, cerca il suo aiuto poiché percepisce la necessità, per il proprio progetto di liberazione individuale, di una rivolta collettiva contro quelle stesse regole. Io credo che ora ogni tentativo di risolvere questa contraddizione in generale e una volta per tutte sia destinato al fallimento: essa sarà logicamente risolta solo quando tutti saranno anarchici, ossia quando non vi sarà più bisogno di esserlo.
Stabilire dunque se bisogna avere un atteggiamento conciliante o di rottura verso coloro che potrebbero unirsi alla nostra lotta, se solo
se percepissero la propria condizione di sfruttati e quindi il proprio potenziale rivoluzionario, è a mio avviso impossibile e sarebbe, tutto sommato, inutile.
Ogni soluzione generale è evidentemente inconsistente: perché mai dovrei attendere che la mia idea sia sufficientemente "radicata" prima di tentare di metterla in pratica? Viceversa, che possibilità ho di attirare altre persone alla mia idea attaccandole quotidianamente?
L'unica soluzione possibile è procedere per tentativi ed imparare dagli errori, evitando, se possibile, di buttare merda (in nome dell'anarchia) sui compagni di cui non si condividono le scelte.
Per tornare al caso specifico della guerra in Iraq, io penso che il terreno di un'opposizione di massa, che sembra finalmente aver perso fiducia in una visione dell'ONU come garante della pace mondiale, possa essere praticato. Pur non nutrendo alcuna fiducia in girotondini, social forum e simili, credo nell'utilità del fatto che il fronte di opposizione all'aggressione militare statunitense sia quanto più ampio è possibile e soprattutto credo che l'azione degli anarchici in tale movimento non debba temere di apparire un appiattimento sulle posizioni della nuova socialdemocrazia nata a Porto Alegre. La valutazione positiva dell'esperienza di La Spezia e la condivisione dell'idea, come ha detto qualcuno, di "portare La Spezia nel proprio quartiere", non giustifica a mio avviso la pratica di aderire alle manifestazioni a seconda di chi le indice. Di per se ciò non garantisce alcuna radicalità di contenuti, né il partecipare ad un corteo tipo quello che si terrà a Roma il 15 febbraio, impedisce di portare avanti prima, dopo e durante quel corteo battaglie specifiche sulle quali magari non si è ascoltati come può esserlo chi si limita ad affermare che la guerra è brutta. Penso quindi che le proposte che sono circolate in questi ultimi giorni di partecipare al corteo di Roma e, soprattutto di impegnarsi nella costruzione di uno sciopero generale in caso di attacco militare, siano da valutare positivamente, soprattutto in funzione del restringersi dei tempi.
Fermo restando che, nel caso in cui questi restassero episodi isolati, andrebbero considerati come un inutile dispendio di energie: ciò che non è e non può essere in discussione è la necessità di continuare l'azione diretta quotidiana, contro il militarismo, il razzismo, il carcere e l'oppressione economica e l'incondizionata solidarietà a chiunque lotti contro un sistema che ci vorrebbe complici di un massacro che gli organi di informazione ufficiali si ostinano a presentarci come inevitabile..
Siffredi
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