Numero 11 - Aprile 2003 - Anno 2

Della pace e della guerra


"Se gli Stati Uniti avessero investito un quarto del costo che stanno pagando per la guerra contro l’Iraq in risparmi energetici, potrebbero sganciarsi definitivamente dal petrolio del Golfo Persico. Basterebbe aumentare il rendimento delle auto americane di tre miglia al gallone per sostituire tutte le importazioni di petrolio americano dall’Iraq e dal Kuwait” (Michael Shuman, in Chester Hartman Pedro Villanova, Paradigma Lost. The post cold war era, Londra Pluto Press, 1992, p.133).

Questo può farci comprendere la reale portata di questa guerra. Non è unicamente per il petrolio, ma per l’espansione territoriale, culturale, economica e politica dell’occidente opulento. È una guerra globale permanente iniziata negli anni ’90 e che dopo l’11 settembre ha modificato i rapporti di forza e gli equilibri internazionali.
Foraggiata dai grandi capitali finanziari e industriali la guerra globale si pone due obiettivi:
1. la controrivoluzione permanente e preventiva, che significa: restringere qualsiasi spazio e reprimere qualsiasi tentativo di ribellione ed estendere militarmente il controllo sulle aree non pacificate del globo, dal centro alla periferia, dal nord al sud. La lotta al terrorismo o ad un “nemico” inventato per l’occasione, è sempre stato ed è tuttora il collante ideologico per mobilitare stati, polizie, eserciti, tecnologie, popolazioni sotto la bandiera della democrazia e della libertà.
2. il riassetto del Nuovo Ordine Globale, modificato dalla fine del Blocco Sovietico, ma soprattutto da un’espansione repentina delle tecnologie e delle tecniche di sfruttamento delle risorse umane, naturali, culturali, dove la comunicazione globale delle informazioni si affianca all’intensificarsi degli scambi internazionali di merci, capitali, materiale umano (vedi emigrazione forzata, profughi, esuli) e a una contemporanea chiusura apparente e ideologica delle frontiere.
I due obiettivi sono naturalmente connessi e rispecchiano l’attuale scenario politico del pianeta: quello di una potenza egemone che si avvale dei suoi stati satelliti per assicurarsi nei prossimi anni il predominio delle risorse del pianeta, messo in discussione da movimenti di massa e di opinione che prendono coscienza della distruttività del capitalismo; da crisi economiche di sovrabbondanza materiale non ridistribuita e di capitali finanziari che speculano e giocano in borsa per favorire un settore produttivo piuttosto che un altro, un area geografica piuttosto che un’altra, un modello piuttosto che un altro.
Banchieri, multinazionali tecnologiche, caste di tecno-scienziati, burocrati, militari e sette religiose sono l’ossatura, la struttura concreta di quello che definiamo: Dominio Globale.
L’obiettivo non è unicamente l’accumulo dei profitti, attraverso la vendita di armi, merci e aiuti “umanitari” per ricostruire ciò che la guerra ha distrutto. Lo scopo ultimo è avviare l’umanità e il pianeta alla sottomissione totale che consiste nel rendere disponibili al “trattamento di esproprio fisico e psichico” individui e popoli. È perpetuare una iniqua e assurda distribuzione delle risorse e rendere i poveri sempre più poveri e i ricchi al di sopra di ogni cosa, anche delle leggi da loro stessi prodotte. È portare all’estreme conseguenze la distruzione materiale di culture cosiddette primitive, non statali, né autoritarie e favorire integralismi, fanatismi o viceversa integrazioni forzate al modello totalitario dell’ovest. È produrre milioni di profughi e naufraghi, costringendoli alla sete e alla fame e a bussare alle porte delle città ricche e superdifese, per elemosinare un tozzo di pane e un lavoro mal pagato. È l’espropriazione dalle terre, dalla memoria, dalle tradizioni, di popoli, tribù, etnie, per azzerarne le conoscenze e porle di fronte all’arroganza dei padroni, delle merci, delle polizie, dei preti, delle associazioni umanitarie, senza più dignità né forza. È rendere ineluttabile un sistema di vita che annulla ogni coscienza critica tramite il bombardamento costante di immagini, di informazioni, di slogan efficaci, di divertimenti organizzati e di cibi preconfezionati; un sistema che proietta l’ esistenza in una scenografia variopinta e luminosa, dove non ci si rende conto di essere prigionieri di un’illusione: quella di vivere in una civiltà superiore e progredita il cui fine moralmente inattaccabile, almeno per la maggioranza delle persone, sarebbe di volere il benessere, la sicurezza, la felicità di tutti.
Lo scopo ultimo è, allora, di far ottenere un consenso di massa irreversibile, alla tirannia dell’economia, della scienza, della cultura, del diritto, della religione. Rendere reale il sogno di tutti coloro che anelano al potere, siano essi laici-cattolici o integralisti islamici: la produzione illimitata di sudditi obbedienti e fedeli, disposti a farsi modellare come creta dalle mani di pochi decisori. Questo progetto, esteso a dimensioni globali, sta producendo conflitti internazionali, alleanze sopranazionali e rinnovate corse tecnologiche agli armamenti, che avviano il pianeta e le sue risorse alla distruzione. La ricerca scientifica, le tecnologie biogenetiche, l’informatizzazione del pensiero e delle percezioni fisiche, la distruzione della terra, dell’aria, dell’acqua, l’indebolimento e l’impoverimento delle difese immunitarie, la diffusione di monoculture e la distruzione della varietà biologica; l’imposizione di tempi e modi di lavoro, di prestiti, debiti, investimenti, di controlli pervasivi tramite le tecnologie digitali; la riaffermazione del carcere, della tortura, delle logiche manicomiali, per allontanare ciò che dà fastidio alla vista e alla coscienza, sono una guerra.
Una guerra invisibile, parallela, che produce morti reali, forse in una percentuale anche maggiore di una guerra tradizionale. Non un evento eccezionale, ma un quotidiano, lento, subdolo tentativo di fiaccare il genere umano; renderlo un ibrido senza volontà, passivo, di fronte o alla violenza militare o alla trasmissione massiva di una cultura fondata sulla competizione, sul guadagno monetario, sul desiderio di possedere.
La pace, dunque, non esiste. Non si può sventolare la sua bandiera se non si vuole capire o non si capisce se essere a favore o contro tale meccanismo. Il dominio vuole pace, sicurezza, ordine, democrazia, libertà. Nel frattempo fa le guerre, costringe migliaia di uomini e donne ad abbandonare le loro terre; produce razzismo, lotte, tra chi non ha nulla se non la disperazione, controlli militari; annulla ogni tentativo di ribellione; reprime assassinando, massacrando e torturando chi osa opporsi alle sue strategie; accusa di terrorismo chi difende la propria esistenza, i propri affetti, le proprie idee; rinchiude nelle prigioni chi disobbedisce, chi diserta, chi non si sottomette, chi difende e chi attacca.
Gli anarchici nel corso della storia possono vantarsi di aver disobbedito, disertato, attaccato il potere. Sia esso economico, nazionale, o sopranazionale, statale o imperiale, statunitense o europeo, il potere esercitato sulla società, per loro, è sempre stato e sarà un nemico. Il potere delle banche e delle multinazionali che finanziano conflitti e producono distruzione è un nemico. Il potere di un modello e di un’educazione culturale imposta, degli apparati polizieschi, delle caste mafiose, partitiche, sindacali, di tutti coloro che esercitano un controllo sulle spontanee azioni di critica e ribellione, è un nemico. Il potere degli eserciti, dei governi, dei media, che invadono, distruggono e sterminano con assoluta indifferenza è un nemico. Il potere di chiunque voglia ergersi a giudice e deliberare sul bene e sul male, sul buono e sul cattivo, togliendo all’individuo ogni possibilità di capire, di sapere e di decidere è un nemico. Il dominio è un nostro nemico e gli stati, a qualunque bandiera e a qualunque principio assoluto e morale facciano appello, sono nostri nemici, di fronte ai quali è inutile e deleteria qualsiasi forma di dialogo e di compromesso. In tale situazione, anche gli anarchici sono in guerra. Una guerra contro lo stato e contro ogni forma di coercizione e sottomissione; una guerra sociale, in una società che si fonda sulla guerra e sulla divisione tra ricchezza e povertà, forza e debolezza.
Gli anarchici sono in guerra, non perché odino la pace, ma perché quella pace che tante istituzioni oggi sventolano, ricordandosi dell’Iraq e dimenticando chi muore ogni giorno nel mondo, grazie alla loro “umanitaria” e democratica tirannia, è solo il simbolo di un lutto collettivo che riguarda le sorti della nostra esistenza. Issare un arcobaleno macchiato di sangue è non solo ipocrita, ma una provocazione per chi vorrebbe che il mondo o semplicemente la propria vita non fossero gestiti dall’arroganza di chi ritiene di avere tutto sotto controllo e sotto chiave. C’è ancora chi non ha perso la memoria e ricorda cosa significa libertà, ribellione, rivolta.


 

Indice