Numero 11 - Aprile 2003 - Anno 2

Il circo degli sciacalli


Il circo umanitario ha cominciato a muoversi un paio di mesi fa, quando nell’aria la guerra si respirava già. È un cerimoniale sperimentato. La macchina-business parte sempre prima: i funzionari delle ONG, le organizzazioni non governative, e delle agenzie umanitarie telefonano o partono per Bruxelles, dove c’è l’Echo, l’agenzia della UE che cura questi interventi.
Alcuni, i più organizzati, hanno già pronti gli studi di fattibilità predisposti da mesi.
Altri volano sul posto, per offrirsi alle sedi locali delle agenzie delle Nazioni Unite o di altri organismi internazionali. Tutti si preparano al pre-positioning, si preparano ad entrare al seguito delle truppe anglo-americane. Intanto sono partiti i mailing, le liste dei contributori importanti, gli spot, le raccolte fondi…
C’è un business anche per gli aiuti, nessuno lo nega. Non potrebbe essere diversamente, se si considera che in dieci anni il “Terzo settore” è divenuto una potenza planetaria: 19 milioni di persone che ci lavorano, 30 milioni con i volontari a tempo pieno, e un fatturato (dati 2000) di 1100 miliardi di dollari. L’ottava economia mondiale.
Il circo degli sciacalli, dunque, è ripartito, stavolta per l’Iraq. Ma ha trovato una situazione senza precedenti. Alla guerra unilaterale, infatti, sembra corrispondere una volontà di gestire anche un dopoguerra unilaterale. Gli Stati Uniti, in un documento che doveva essere riservato, hanno mostrato chiaramente di voler lasciare all’ONU e alle ONG una piccolissima fetta dell’investimento-dopoguerra: 50 miliardi di dollari.
L’Italia non è considerato un paese forte per l’azione umanitaria. Niente a che vedere, per esempio, con l’Inghilterra, con i paesi scandinavi, gli stati uniti, che hanno veri colossi del settore, con linee di comportamento del tutto simili a quelle delle multinazionali. Se si esclude la caritas internationalis (l’impresa di sciacallaggio guidata dai papalini-vaticanini), le prime sei ONG del mondo sono tutte anglosassoni/americane. Ma nonostante i grandi numeri, come sappiamo l’Italia in tema di sciacallaggio umanitario è stata una buona maestra: il Kosovo.
Con l’operazione arcobaleno il governo sinistroide (oggi convertiti al pacifismo) mise in piedi una azione a due teste: guerra e assistenza. Le cose furono gestite in modo disastroso. Basta guardare che cosa si è costruito di duraturo in quel paese: poco.
In Kosovo sono andate quasi tutte le ONG italiane (molte nate proprio per l’occasione!!). E mentre il volontariato della protezione civile (ora sotto inchiesta: avrà forse spartito male la torta?!) è costato 200 mila lire al giorno, ogni profugo assistito ne riceveva poco meno che 38 mila. In Bosnia il 20% dell’umanitario andò addirittura alle organizzazioni nazionaliste criminali. Anche in Afghanistan spuntarono decine di ONG italiane che da tempo “lavoravano sul territorio”. Una menzogna per darsi un credito inesistente. Su quel territorio non ci lavorava nessuno, fatta eccezione di Emergency che gestisce l’ospedale di Kabul. E oggi sono, invece, rimasti in pochissimi.
In Iraq la situazione non è del tutto diversa, almeno per gli italiani, infatti ci ritroviamo solo Emergency che lavora da anni nel Kurdistan iracheno. Di una cosa siamo sicuri: della confusione che aleggia nel circo degli sciacalli. Confusione tra intervento militare, ricostruzione politica, e intervento umanitario, visto i nessi che ci sono tra chi fa la guerra e chi porta gli aiuti. Non sono una novità i finanziamenti che le ONG ricevono dagli stessi paesi che la guerra la fanno.
L’Iraq senza ombra di dubbio è un bell’affare, nel vero senso economico, per molti poteri; basta pensare che insieme agli anglo-americani, a Bagdad, sono entrate anche le multinazionali dei farmaci e dell’alimentazione: in questa logica l’aggettivo umanitario diviene assoggettamento.

Un bimbo di Maya


 

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