Università armate
Mentre i giornali si affannano ogni giorno a spiegare che il popolo iracheno è stato liberato dal perfido Saddam e che un nuovo pericolo (la Siria?) sta per essere sventato dall'esercito dei buoni, svanisce, come per incanto, quello storico fenomeno di opposizione radicale alla guerra che, nei mesi precedenti, sembrava aver coinvolto la stragrande maggioranza della cosiddetta "società civile". È ora di rassegnarsi all'idea di qualche migliaio di morti, necessario effetto collaterale della lotta del Bene contro il Male, e di dedicarsi a tempo pieno alle normali attività di produzione e, per i più fortunati, di consumo.
Pronti a riprenderci i nostri momenti di commozione, di riflessione spirituale e, nei casi più gravi, il nostro quarto d'ora di sciopero quando la televisione ci avviserà che ci sono altre "vittime innocenti" da piangere.Peccato che, mentre ci godiamo questo periodo di "pace", saremo costretti ad alimentare la macchina bellica, finanziando lo Stato e le banche armate e producendo (in fabbriche, scuole, università e carceri vari) le giustificazioni, materiali e culturali, dello sterminio di massa di cui l'attuale sistema di dominio è responsabile.
La rivolta contro questo stato di cose è una scelta non facile (la repressione è assicurata) e comporta una messa in discussione di sé stessi prima che degli altri, ma non è possibile eludere il problema dell'esistenza di questa opzione, considerandosi estraneo al processo di militarizzazione della società.
Tale processo coinvolge, infatti, non solo i fabbricanti di mine antiuomo o i militari, ma investe ogni attività produttiva svolta nel regime capitalista. Ad esempio, anche un'attività dallo scopo così alto come quella di comunicazione del sapere, non può che trasformarsi, in una società organizzata militarmente, in strumento di oppressione militare. Infatti, oltre alla progressiva trasformazione dell’università in centro di propaganda e formazione del personale delle aziende, si è assistito, in questi ultimi anni, ad un’intromissione sempre più sfacciata del militarismo in tutte le sue forme (dalla presenza di guardie armate negli edifici, alla sponsorizzazione di interi corsi di laurea da parte delle industrie belliche) all’interno dei vari istituti universitari.
Il fenomeno in atto è sintetizzato alla perfezione dalle parole che il rettore dell’ateneo fiorentino Augusto Marinelli utilizzò nel suo intervento alla cerimonia di inaugurazione dello scorso anno accademico: "Siamo lieti oggi di poter annunciare la nascita di un percorso formativo che vedrà la proficua integrazione, nei docenti come nelle discipline, dell'ambito civile e di quello militare".
Nell’occasione egli annunciò la nascita di un corso di laurea specialistica in scienze aeronautiche (attivo dal 2005/2006 nelle strutture della Scuola di Guerra Aerea, con la collaborazione di vari docenti della facoltà di scienze politiche fiorentina) da inserire in una più ampia convenzione, firmata assieme all'Università "Federico II" di Napoli e all'Accademia Aeronautica di Pozzuoli, che ospitano (a partire dall’anno accademico 2002/2003) il corso di laurea di primo livello (tre anni) con il quale si accede al biennio specialistico di Firenze. Le università in questione vantano inoltre, come del resto le facoltà di Ingegneria di Torino e Roma, intensi rapporti di collaborazione con la principale industria militare italiana, l’Alenia, fornitrice, tra le altre cose, dell’Aviazione Usa. Esempi simili di stretta connivenza tra due mondi all’apparenza così distanti come quello della cultura e quello del militarismo, sono estremamente facili da rintracciare sparsi per tutto il territorio italiano: ricerche per la Nato (nella facoltà di medicina di Ancona ed in quella di fisica di Bologna), convenzioni e contratti delle università con la Fiat Avio (a Napoli e Torino), con l’Esercito e la Marina (a Modena, Pisa, Roma e Torino), e con l’U.S. Navy (tramite la società consortile per azioni Padova Ricerche, il cui socio di maggioranza è proprio l’ateneo padovano). Redigere un elenco completo sarebbe impresa assai ardua e ancor più difficile sarebbe aggiornare i dati in tempo reale.
Quel che è certo è che, in tale panorama, uno studente può difficilmente pensare alla “sua” università come ad un luogo di stimolo e di proposte culturali, impegnato com’è a rispettare l’unico ruolo che l’apparato militare, di cui l’università è un’appendice, può assegnargli: quello di soldatino obbediente. Difficile è anche pensare a margini di riformabilità del sistema universitario senza prima scardinare le basi su cui esso è posto: competizione, obbedienza, meritocrazia.
Ogni sistema meritocratico ha bisogno di un giudice e ogni giudice di un esercito. Ogni esercito ha bisogno di soldati ed ogni soldato di educazione ed addestramento. È dunque naturale che mondo militare ed accademico interagiscano, esistendo l’uno in funzione dell’altro ed avendo in comune lo scopo di conservare il privilegio che alcuni hanno di giudicare e punire. Migliorare il sistema universitario significa, quindi, renderlo maggiormente efficiente nel suo compito di trasformazione degli individui in semplici meccanismi della macchina statale: elettori, dirigenti, operai e soldati. Per questo non è un compito che come anarchici e libertari ci appartiene. Ciò non significa che non bisogni far propria ogni battaglia volta all’ottenimento della libertà da parte di tutti, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza, di usufruire di quel poco di buono che l’università attuale può mettere a disposizione; o che non bisogni lottare contro riforme peggiorative per le condizioni di tutti gli studenti. Significa, invece, che è necessario cercare percorsi di crescita culturale, in maniera quanto più autonoma e conflittuale possibile rispetto all’istituzione universitaria sulle basi dell’auto-organizzazione, dell’orizzontalità della comunicazione e della propositività rivoluzionaria. Sulla possibilità che tali principi possano essere “suggeriti” al mondo accademico ufficiale e da questo anche solo tollerati penso non siano possibili ragionevoli dubbi.
Emblematica, a tal proposito, la situazione vissuta in questi giorni all’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Il 28 Aprile, alla riapertura dell’edificio dopo la disinfestazione seguita ad un mese di occupazione contro l’attacco anglo-americano all’Iraq, il rettore Ciriello ha pensato bene di far trovare le storiche aule occupate del palazzo (che ospitavano una il Collettivo dell’Orientale, l’altra il Centro Studi Anarchici) chiuse per mezzo di porte blindate. La risposta alle varie azioni di protesta, se si esclude il presidio della digos, partito il 28 e ormai permanente alle porte dell’istituto, sono state il dispiegamento di vari blindati di polizia e carabinieri contro un presidio di una trentina di compagni davanti al rettorato, e una dichiarazione del rettore e di alcuni docenti della volontà di mettere le aule presto a disposizione degli studenti, a patto che questi non ne facciano un uso “esclusivo” (così hanno detto) come hanno fatto finora comunisti ed anarchici. A mio avviso, lo straordinario livello repressivo denunciato da questa situazione è un indice, oltre che della militarizzazione delle università di cui si diceva, del fatto che le esperienze che si sono volute reprimere vanno nella direzione giusta: il turbamento della generale assuefazione allo schema segui, impara, dai l’esame, cerca di primeggiare… e non pensare ad altro. La sola presenza e visibilità nell’istituto di luoghi di confronto orizzontale, fra studenti, lavoratori, disoccupati, sfruttati e chiunque abbia voglia di mettere in discussione l’attuale ordine sociale, viene vista, a ragione, come un elemento di sabotaggio da eliminare con ogni mezzo. La libertà è un morbo infettivo, si sa, e per questo nessuno deve venirvi a contatto.
La repressione, che trova terreno fertile nel clima da “leggi speciali” ufficialmente giustificato dal pericolo terrorista, non può che essere, quindi, un incitamento ad insistere.
Ruòk
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