Numero 12 - Maggio 2003 - Anno 2 |
Menzogna come propaganda Uno degli effetti caratteristici della propaganda di dominio in tempi di guerra è quello della produzione e moltiplicazione delle spinte sciovinistiche. I vantaggi di questa propaganda per il dominio sono evidenti: rafforzamento della coesione ideologica interna, esercizio della svalutazione morale e del disprezzo nei confronti del nemico, classificazione del dissenso interno come sostanziale fiancheggiamento del nemico, cioè tradimento, trasferimento della responsabilità dell’eliminazione fisica del nemico sul nemico stesso, in quanto la sua fondamentale diversità, la sua barbarie, ha prodotto le condizioni per una sorta di ineluttabile bonifica. La recente “drôle de guerre” che gli USA hanno condotto contro l’Iraq non ha fatto eccezione e ci ha fornito molti esempi della tecnica di propaganda dello sciovinismo occidentale. Questa tecnica consiste nel creare coppie di falsi opposti che si insinuano nella dinamica del linguaggio fino a condizionarla e fino a imporsi come “realtà”. Le coppie esplicite generali sono quelle di occidente/oriente, democrazia/dittatura, quelle implicite di civiltà/barbarie, cristianesimo/islam. In questo modo i discorsi seguiranno questa strana biforcazione. Così se il presidente Bush è attorniato da uno staff di collaboratori, lo stato maggiore iracheno non poteva essere composto che da accoliti del rais, con tutte le caratteristiche del clan. Infatti Saddam aveva scelto i suoi satrapi fra i nativi di Tikrit, sua città natale, per legarli a sé secondo le regole del potere tribale. Mentre l’entourage di Bush è costituito da specialisti, magari selezionati in qualche convention, sorvolando su ogni legame parentale e affaristico. Se Saddam mette a capo della guardia repubblicana i suoi due figli, ci troveremo di fronte al solito caso di nepotismo tipico di tutte le dittature. Se, dopo Bush senior, i cittadini americani dovranno godersi anche Bush jr. sarà opportuno parlare di una dinasty di uomini politici di successo. Il trattamento dei prigionieri americani da parte degli iracheni è decisamente inumano e viola la Convenzione di Ginevra; nel caso dei prigionieri iracheni invece la questione non si pone neppure, visto che per gli stessi soldati iracheni l’esser fatti prigionieri dagli americani rappresenta una liberazione. Le immagini della propaganda televisiva rispettano questa biforcazione. Le manifestazioni anti-americane in Iraq erano sguaiate, scomposte, violente, con l’immancabile bandiera a stelle e strisce data alle fiamme, si trattava di dimostrazioni ovviamente volute ed organizzate dal regime. Le manifestazioni americane di sostegno alla guerra sono invece pacate e spontanee, fatte da gente composta che porta in braccio bambini biondi coi palloncini “support our troops”. E d’altronde, mentre l’esercito iracheno era pronto a usare lo spietato terrore dei suoi quattromila kamikaze e delle sue armi chimiche, l’esercito e l’aviazione anglo-americani si limitavano a mettere a tacere le batterie nemiche oppure a rendere inoffensiva qualche divisione irachena, per poi dedicarsi alla loro attività preferita e cioè di fornire pasti caldi e altri aiuti umanitari alla popolazione civile. Se Saddam brandisce un fucile davanti alle sue truppe, siamo di fronte ad una grottesca esibizione di protervia militaristica; mentre se Bush atterra su di una porta-aerei, scendendo da un aereo da combattimento e con indosso l’uniforme da pilota, lo fa per non far mancare a chi ha combattuto il riconoscimento della nazione. Ma il razzismo può anche utilizzare il giustificazionismo nei confronti dei suoi bersagli; quindi se gli iracheni si danno ai saccheggi, allora si tratta di una reazione prevedibile e comprensibile di sfogo, dopo la compressione dovuta alla dittatura; mentre i saccheggi avvenuti a New York durante i black-out venivano bollati come atti vandalici. Questa manipolazione propagandistica non è basata su raffinate alchimie comunicative, visto che il gioco è abbastanza scoperto, ma si veicola attraverso l’intimidazione, al punto che nelle sedi della comunicazione ufficiale anche le osservazioni più ovvie saranno rigorosamente evitate. In altre parole, la propaganda non è semplice manipolazione dei dati e delle menti, ma è anche, nella sua sfacciataggine, una prevaricazione, ovvero un’esibizione della propria potenza e della propria posizione di forza, in quanto andarla a smentire comporterebbe il pagare un prezzo che molte persone non si sentono di sostenere, un prezzo in termini di aggressione e di isolamento. La prevaricazione propagandistica consiste appunto in questo gioco ambivalente: da un lato si mostra una suscettibilità puntigliosa e vittimistica nei confronti di ogni cenno di sospetto e, nello stesso tempo, si fa capire sfacciatamente che ciò che si sospetta è sin troppo vero. Sarebbe quindi errato assumere un atteggiamento di superiorità o di sussiego nei confronti di questa propaganda, considerandola una dimostrazione di rozzezza culturale. In realtà, chi porta avanti questa propaganda sa benissimo cosa sta facendo, si muove su un terreno consolidato e fa affidamento su reazioni prevedibili. Il vero inganno di questa propaganda non consiste perciò nella versione dei fatti che va a rappresentarti, ma nella enfatizzazione della propria posizione di forza, che viene ingigantita agli occhi di chi riceve il messaggio. Non è quindi la forza a determinare l’atteggiamento di arroganza, ma è l’arroganza che tende a far immaginare una potenza maggiore di quella che in realtà non sia. La “legge del più forte” diviene perciò la menzogna propagandistica più insidiosa, perché fa passare per pura forza ciò che in realtà poggia su meccanismi conformistici. Non a caso, l’aggressione nei confronti dell’Iraq e la sua conquista da parte degli Usa, si sono potuti consumare soltanto attraverso la rete di complicità di soggetti apparentemente neutrali, o che si dichiaravano addirittura critici nei confronti dell’aggressione stessa.
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