da "Contropotere - giornale anarchico" numero 15 - Settembre 2003 - anno 2

Solo la pratica dice il vero


“L’anarchia è la filosofia della tolleranza” – C.Berneri
Myamoto Musashi, celebre spadaccino giapponese e autore di lucidi scritti sulla tattica, insegna che se il nemico è troppo forte e non raggiungibile direttamente al cuore, è opportuno concentrarsi nell’attaccare i punti più esposti e più facilmente raggiungibili. La spada deve dunque colpire le mani, le braccia, i piedi, se possibile. Un obiettivo parziale, dunque, che renderebbe possibile in un secondo tempo un’offensiva più energica verso un bersaglio privo di difese. Una lotta di liberazione quale quella anarchica, deve dunque sapersi munire di quegli strumenti strategici che le consentano di conoscere il suo nemico e i vari campi di battaglia, in modo da scegliere un terreno favorevole. Dunque conoscenza e analisi, prima di attaccare.
Dei tanti strumenti di cui il potere si serve nella sua corsa liberticida, esiste un manto di sacralità di cui sempre si investe, per legittimare le sue azioni agli occhi dei più. Rendere condivisibile una forma di oppressione è un astuto modo di evitare a priori scomode proteste che potrebbero trasformarsi in aperta opposizione. Così, secondo il modello antico ‘Divide et Impera’, le guerre vengono fatte separatamente nei confronti delle minoranze, col tacito sostegno della maggioranza silenziosa. Il risultato è che vediamo ovunque oppressi.
Presunti incapaci, colpevoli di non avere (o di non aver scelto) le attitudini consone al rapace capitalismo dei padroni, sono ridotti all’umiliante stato di schiavi per scelta, per elemosinare al sistema i pochi quattrini necessari alla sopravvivenza.
Presunti criminali, colpevoli di non aver condiviso il contratto sociale che mai è stato loro chiesto di firmare, sono confinati nelle carceri, spesso per reati che non sono altro che un disperato giocare il tutto per tutto di chi , a causa dello stesso sistema, è ridotto a tale condizione.
Presunti barbari, colpevoli di aver sviluppato culture e forme sociali differenti, sono ridotti all’impotenza dalle strategie della fame del capitalismo umanitario e dalle bombe della democrazia.
Presunti malati, colpevoli di personalità inproduttive e nocive al sistema, se non addirittura colpevoli di vivere male a questo mondo per una beffarda tragicità dell’esistenza, sono ingabbiati in reparti psichiatrici e accusati di pazzia.
Presunti eretici, colpevoli di aver scelto un nume diverso o di aver abbracciato il libero pensiero, sono attaccati da tutti i fronti dall’inquisizione di ieri come dalla intollerante morale di oggi.
Presunte razze e specie inferiori, colpevoli di essere biologicamente differenti dal più forte (o violento), sono emarginate agli angoli della società per uso e consumo dei privilegiati, le une trasformate in forza lavoro o capro espiatorio sempre utile, le altre in oggetti alimentari, d’abbigliamento, divertimento, compagnia, ricerca scientifica.
Ho citato solo alcuni esempi: la meritocrazia liberale, la religione di stato nella guerra interna così come nella guerra esterna, la psichiatria, la morale, il razzismo e lo specismo, ma se ne potrebbero fare tanti. Sappiamo benissimo che il movente di queste forme di oppressione è ben altro, ma come si vede, ad ogni atto di violenza precede un’ideologia, che lo sorregge, lo rende possibile e ne è, in un certo senso, il fondamento sul piano teorico e morale. L’oppressione mascherata dietro l’ideologia da un lato opprime in modo più efficace, dall’altro rafforza sempre più la suddetta ideologia. Certo l’oppressione ha anche altre basi, e fra queste il possesso della forza materiale, ma mentre le ideologie sono attaccabili, il monopolio della violenza in mano allo stato non permette di realizzare con efficacia un vero scontro fisico, almeno per il momento.
Memore dell’insegnamento di Musashi, ritengo allora preferibile attaccare l’ideologia. Ma come non vogliamo sostituire un potere nuovo a quello vecchio, uno stato nuovo a quello vecchio, così non voglio sostituire un’ideologia nuova a quelle vecchie. L’obiettivo deve essere l’ideologia in quanto tale, la sua essenza, il suo stile, e ciò su cui necessariamente deve poggiare, la possibilità di una scienza ultima, di una Verità Laddove esiste una Verità, infatti, esiste la Colpa dell’ignoranza, e presto arriveranno il suo interprete e il suo giustiziere.
Il dibattito filosofico sulla conoscenza è complesso e articolato, e non può qui essere riassunto in poche righe, ma ci limiteremo a confutare coloro i quali sostengono parole quali “oggettivo”, “vero”, “universale”, “necessario”, il lessico di ogni ideologia. Nulla è Vero, in un senso univoco del termine. La stessa esistenza di opinioni contrarie, anche se in minoranza, non giustifica l’esistenza di una verità oggettiva e valida per tutti. Sarebbe una contraddizione, infatti, affermare che qualcosa è valido per tutti quando non è valido per qualcuno. Dunque non esiste una Verità, ma vengono prodotte diverse verità.
Certo, l’evidenza di realtà fortemente condivise (la nostra esistenza, le sensazioni, il mondo esterno, etc..) sembra placare quell’istinto metafisico che tutti assecondiamo alla ricerca di una comprensione totale del mondo. Solo un abbaglio tuttavia, una speranza nell’esistenza di una verità e di una stabilità del mondo. Un forte desiderio di dominio e controllo nell’uomo, tanto da voler comprendere tutto l’essere. Necessaria, per un chiarimento, la citazione di un filosofo stoico quale Zenone di Cizio, il quale vedeva nella comprensione (kàtalepsis, letteralmente: “afferrare”) proprio il movimento di una mano che afferra a pugno qualcosa, non lasciandolo più sfuggire. La conoscenza risulta essere così uno dei tanti strumenti che l’uomo utilizza per controllare ciò che gli sta attorno, e rassicurarsi così dalla drammaticità dell’eterno divenire delle cose. Nella parola greca “thauma” Aristotele vide la meraviglia che l’uomo ha per il mondo e che lo spingerebbe a conoscerlo, altri vedono un suo significato più originario e profondo: lo stupore attonito di fronte a ciò che è strano, imprevedibile, mostruoso. Paura esistenziale che, inevitabilmente, chiede il dominio come rimedio.
Ma per tornare all’oggettività, resta comunque valida anche la tesi che vorrebbe certe realtà comuni semplicemente come il frutto di comuni interpretazioni soggettive giunte indipendentemente alla stessa conclusione, il che lascerebbe aperto uno spazio di tolleranza ad eventuali opinioni diverse nel futuro: in questa prospettiva, si parlerebbe di oggettività accidentale, e non necessaria, quindi di una generalità Gli stessi termini sopra citati assumono ora un significato non più religioso ed eterno, ma contingente, che possa essere come non essere. Tutto, in questo senso, è opinione soggettiva: “L’uomo è misura di tutte le cose” diceva Protagora. Confutazioni platoniche quali quella che vorrebbe nella tesi del relativismo un’affermazione di verità, e quindi una contraddizione, sono di poca efficacia: lo stesso relativismo infatti si colloca all’interno del relativismo della conoscenza: è un’opinione.
Sul piano della mera gnoseologia, dunque, un’interpretazione relativista (quale quella da me sostenuta) e un’interpretazione metafisica si possono dire eguali, infatti ognuno sceglie quelle forme concettuali che più gli sono consone, e meglio soddisfano il suo bisogno di stabilità e controllo sulla vita, ma esistono implicazioni pratiche che non bisogna sottovalutare. Ogni grido alla verità ultima e definitiva, ogni anelito all’apodittico, ha in sé un forte contenuto totalitario. Chi si dice possessore della Verità, in virtù di una rivelazione divina così come della presunta solidità dei suoi principi scientifici, di fatto attacca la dignità di chi non possiede tale presunta illuminazione. Il diverso è spogliato della sua libertà di pensiero, del suo lavoro e della sua esperienza, del suo essere, in sintesi: egli per l’illuminato è nulla. E questa è una gerarchia. Nei casi più estremi, la guerra è dietro l’angolo.
Prendere atto dell’arbitrarietà della verità è dunque il primo passo verso la distruzione di ogni ideologia possibile. Col tramonto dell’apofantico, cadono tutti i valori e le certezze, e si apre l’orizzonte a quello scetticismo critico che non deve cadere nel quietismo politico, ma rafforzarsi nell’essere propositivo. Se una verità assoluta non esiste, ciò non significa che non possano esistere diverse verità. Di più, il ventaglio produttivo del soggetto è ora infinito, bacia romanticamente la libertà. Tutto è possibile. La libertà assume qui il significato più autentico della parola, quello che anche un bambino conosce: fare tutto ciò che si vuole, pensare come vogliamo, senza vincolo alcuno.
Ma come fare se ognuno va per la sua strada? Un linguaggio comune, come nell’organizzazione politica, è l’approdo naturale che consente unità nella diversità. Se ogni verità è legittima, la tolleranza è necessaria. Per precisare, tolleranza non significa sopportazione o compromesso, ma riconoscimento di pari opportunità nei confronti di ogni singolo soggetto pensante nell’avere un proprio pensiero e nell’agire con la dignità dell’autonomia. La tolleranza è autocollocarsi su una rete di comunicazione interpersonale che affermi con forza il diritto universale all’autonomia. “Tolleranza vale: coscienza del processo relativistico della verità, che non è un quid assoluto anteposto all’errore, ma il passaggio da una ad un’altra verità: un divenire”, così questo concetto è chiaramente definito da Camillo Berneri. Se poi la diversità è una ricchezza, la tolleranza ci arricchisce. Essa rende possibile innanzitutto quello scambio di saperi che nell’uguaglianza trova il suo terreno più fecondo, ma nello stesso tempo si guarda bene dalle pretese autoritarie di chi la minaccia.
Inevitabile dire che una verità ufficiale, per reggersi, ha bisogno di specialisti, chierici o scienziati, che solo un’istituzione totalizzante quale lo stato può desiderare e sostenere. L’abolizione dello stato necessita dunque di una parallela se non preliminare abolizione di ogni conformismo, ma non può prescindere dall’attacco agli strumenti che rendono possibile il potere. Sebbene una presa di coscienza del relativismo sia un primo attacco all’autorità, in quanto ne distrugge il palco ideologico assieme alla stessa possibilità di una ideologia, una sua sopravvivenza in piena libertà abbisogna anche di una liberazione materiale dalle politiche normalizzanti delle istituzioni. Per quanti potrebbero obiettare, un’azione rivoluzionaria non è affatto una contraddizione, quando si limita all’autoliberazione: sottrarsi alle proprie catene è il primo passo verso la libertà, e l’unico che legittimi l’uso della forza, ma in un secondo momento, ottenuto il proprio spazio, la tolleranza verso le altre forme politiche è una necessità, o si cadrebbe in una paradossale dittatura in nome della libertà.
Il vento che deve spingere la rivoluzione è ora il fascino della libera sperimentazione. La tolleranza reciproca infatti rende possibile, da un lato, il rispetto della dignità umana nel diverso, e dall’altro, quel tessuto comune di libertà, uguaglianza e solidarietà che con la sua stessa esistenza e con i suoi errori e progressi, solo, può garantire un’attrattiva verso gli sfruttati e gli oppressi del mondo intero. Libera sperimentazione significa autonomia e responsabilità individuale ma anche amore per la diversità delle forme, e caduto ogni senso necessario della storia che solo una verità oggettiva può generare, solo la pratica dice il vero. Ognuno faccia come è per lui opinabile, assieme alle persone con le quali si trova d’accordo, e nel rispetto reciproco, solo l’esperienza dimostrerà cosa funziona meglio. Nessuno, infine, in assenza di uno stato, potrà farsi legittimo interprete dell’esperienza, e questa non sarà altro che la risultante di tutte le forze sociali in atto. Essere convinti delle proprie idee e dei propri percorsi è segno di forza e vitalità, ma aver presunzione di agire meglio o nel modo giusto è un grave errore di autoritarismo. Per dirla con Malatesta, in tal caso “forse saremmo anche più pericolosi per la libertà, perché convinti fortemente di aver ragione e di fare il bene, saremmo inclini, da veri fanatici, a considerare quali controrivoluzionari e nemici del bene tutti quelli che non pensassero ed agissero come noi. Chè se poi quello che gli altri fanno non fosse quello che vorremmo noi, la cosa non avrebbe importanza, semprechè fosse salvaguardata la libertà di tutti.”
Per riassumere: esiste un parallelismo fra la forma politica e la filosofia della conoscenza. Una filosofia che ricerchi la Verità, può generare solo uno stato. Una filosofia che ricerchi la tolleranza e l’incoraggiamento di diverse verità, deve sfociare in un’area di libera sperimentazione quale è, secondo me, l’anarchismo.
E se non dovesse funzionare, che dire, un’altra illusione di aver compreso la verità? In fondo, queste sono solo le convinzioni di uno che continuamente ripete lo stesso errore, ma che trova nello scrivere un ottimo modo per dialogare con se stesso. Ma come dicevo poc’anzi, solo la pratica dice il vero.

Michele


 

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