Operazione Blackout
"Conformemente all’autorità rogante è emersa l’esistenza nelle Province di Massa Carrara, Lucca e Pisa di un gruppo di individui ai quali sono riconducibili attentati di matrice eco-terroristica e, precisamente, attentati incendiari e dinamitardi contro tralicci dell’energia elettrica, impianti di ripetitori per la telefonia mobile, inceneritori di rifiuti e impianti di risalita sciistica, nel contesto di un disegno criminoso finalizzato all’eversione dell’ordine democratico. Dalle indagini il sodalizio risulta far capo a Marco Camenisch, attualmente detenuto presso il carcere di Pfaffikon/ZH e alla moglie Emanuela C., la quale, fungendo da tramite, ha di fatto permesso a Camenisch di continuare a dirigere il sodalizio dal carcere, impartendo le disposizioni necessarie al suo funzionamento e all’attuazione di attività delittuose”.
Queste le motivazioni ufficiali con le quali la Procura di Genova giustifica le perquisizioni e gli avvisi di garanzia che hanno colpito, nelle ultime settimane, una cinquantina di compagni in tutta Italia, nell’ambito di quella che hanno emblematicamente chiamato “Operazione Blackout”.
Il primo a fare le spese dell’attacco repressivo, ordinato dai PM genovesi Anna Canepa e Andrea Canciani (gli stessi dell'indagine sul G8), è stato proprio “Martino” Marco Camenish, che il 17 settembre ha visto piombare nella sua cella del carcere di Pfaffikon gli agenti della Polizia Criminale Federale, i quali gli hanno sequestrato il portatile, la corrispondenza, libri, spartiti musicali, il libretto sanitario e quello di lavoro. Assieme a queste inconfutabili prove del sodalizio criminoso, hanno portato via, giacché c’erano, anche tutti i documenti della difesa al processo, previsto per dicembre ed appena rinviato, che lo vede accusato dell’omicidio di una guardia di frontiera risalente al 1989. Lo stesso giorno sono state perquisite anche le abitazioni piemontese e toscana di Emanuela, la moglie di Marco.
Una settimana dopo, la mattina di mercoledì 24 settembre, i ROS hanno perquisito varie abitazioni di compagni e sedi di gruppi anarchici e comunisti, in Abruzzo, Toscana, Liguria, Emilia Romagna, Piemonte e Lombardia, presentando anche diversi avvisi di garanzia, sempre con lo stesso capo d’accusa: art 270 bis.
I risultati delle perquisizioni, che dovrebbero dimostrare l’esistenza di un’associazione sovversiva “capeggiata” direttamente da Martino (dall’interno della sua cella per tramite di Emanuela !!!), sono stati il sequestro di vari computer, circa 250 CD, videocassette, lettere, opuscoli, bombolette, petardi ed agende.
È evidente, a chiunque abbia anche solo sentito parlare di Marco Camenish o di anarchismo, l’assurdità dell’accusa: un capo degli anarchici coordinerebbe, da una galera svizzera, le azioni di gruppi sparsi sul territorio nazionale, accomunati dalla sensibilità alle tematiche ecologiste e dalla fedeltà al proprio leader. Di queste “cellule Camenish”, come le chiama Ruggiero Capone in un delirante articolo dal titolo “Ecoterroristi islamici” seguaci di Allah e di Camenish (comparso su L’Opinione del 29 Gennaio 2003 - www.opinione.it), farebbero parte, tra gli altri, i gruppi anarchici di Pisa Il Silvestre e Incontrolados, lo svizzero Sécrétariat International pour un Secours Rouge International, il Laboratorio Marxista di Pietrasanta, il sito web www.anarcotico.net e un compagno della FAI.
Si è insomma deciso di colpire nel mucchio tra coloro, e siamo in molti, che mostrano una qualsiasi forma di simpatia e solidarietà nei confronti di Martino. Ciò nel tentativo di schiacciare la coscienza rivoluzionaria di un prigioniero che non si è mai piegato alle infamie di dodici anni di carcere, e di arrestare la resistenza popolare alla devastazione ambientale che lo sviluppo capitalista si porta dietro. La strategia è quella classica, annientare chi è dentro e non mostra segni di ravvedimento, colpendolo negli affetti, che sono l’unica fonte di sollievo dalle umiliazioni della cella, e terrorizzare i “liberi”, agitando lo spettro della repressione.
Nessuno scandalo, ma ordinaria amministrazione, tanto che si confondono nella memoria le storie tragicamente simili di altrettanto vigliacchi attentati alla vita e alla dignità dei ribelli: la montatura Marini, le inchieste sui movimenti di piazza, gli omicidi mirati di Pinelli, Sole, Baleno, Horst Fantazzini, Barry Horne, Paco Ortiz (una lista completa potrebbe riempire l’intero giornale).
Ciò che abbiamo da dire, non ai giudici e agli sbirri, ma a tutti quelli che si ritengono osservatori imparziali ed equidistanti di questo fenomeno che qualcuno ha chiamato lotta di classe, è che il tentativo di arrestarlo o anche solo di indebolirlo con la repressione è destinato al fallimento. Non ha mai funzionato e non funzionerà mai, primo perché l’istinto di sopravvivenza condurrà sempre lo sfruttato a ribellarsi al proprio oppressore e secondo, perché gli anarchici hanno imparato dalla storia a considerare gli attacchi repressivi non come incidenti di percorso evitabili standosene buoni buoni, ma come necessario comportamento naturale della classe dirigente nei confronti dei suoi altrettanto naturali oppositori. E questa nostra coscienza della quotidianità e dell’irreversibilità del fenomeno repressivo all’interno di qualunque forma gerarchica di organizzazione sociale, non può suggerirci che una soluzione al problema: la lotta per l’abbattimento ed il superamento di tale sistema. Il rilancio dell’azione diretta, della propaganda anarchica, antiautoritaria e antimilitarista, la presenza nelle lotte sociali al fianco degli oppressi.
I metodi con i quali intraprendere questa lotta sono a portata di mano e ognuno può scegliere a seconda delle proprie sensibilità e delle proprie convinzioni come muoversi, ma ciò che più conta è non spezzare il legame di solidarietà che ci lega a tutti coloro che condividono la nostra condizione di sfruttati e di ribelli. È questo legame soltanto, infatti, che ci consentirà di non soccombere nell’isolamento, davanti alle prossime ondate repressive. In questo sì che dovremmo “imitare i padroni”, nella loro capacità di fraternizzare quando gli interessi di uno di essi vengono minacciati. Evitiamo dunque, almeno in occasioni del genere i distinguo, i dibattiti sulle differenze metodologiche, che fra di noi non facciamo quasi mai, e che in certi momenti sembrano rivolti al giudice che ci accusa o al poliziotto che ci arresta (come se questi avessero dignità di interlocutori). È vero, gli asti personali e politici all’interno del movimento anarchico sono eredità di un passato fatto di successi della politica del “divide et impera”, ossia di errori e scorrettezze che fra compagni ci si è finiti con lo scambiare. È però ora di chiedersi se non sia il caso, non di dimenticare, ma di tacere per ragioni di opportunità quelle argomentazioni che potrebbero favorire la tesi di un anarchismo incapace di dare una risposta univoca anche alla più elementare e storicamente sperimentata esperienza, come può essere una retata di perquisizioni. Al di la di tutto il resto, come anarchici, abbiamo in comune un patrimonio storico, di cui la solidarietà attiva ad ogni genere di lotta contro l’oppressore è parte integrante, che non può essere messa da parte per rancori passati o per differenze teoriche.
E testimonianza di quanta paura faccia l’arma della solidarietà rivoluzionaria sono proprio attacchi repressivi come questo, che non a caso colpiscono un movimento, quello dell’ecologismo radicale, attorno al quale si sono riunite sensibilità diverse, anche esterne all’anarchismo.
Occorre quindi esprimere incondizionata solidarietà a tutti coloro che quotidianamente subiscono la repressione statale e passare immediatamente all’azione, secondo i mezzi che ciascuno predilige. Da parte nostra raccogliamo l’appello per una giornata internazionale di solidarietà, proposta dalla “Commissione per un Soccorso Rosso Internazionale” (info@sri-rhi.org), per il 2 novembre 2003.
Organizzazione Anarchica Napoletana / F.A.I.
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