Gli zingari: un popolo senza Stato
Se dovessi pensare alle esperienze storicamente realizzate dell'ideale anarchico, sicuramente mi verrebbero in mente la Comune parigina del 1870, l'Ucraina del 1918, la Spagna del '36 e l'ammutinamento di Kronstadt. Tutte queste esperienze, represse nel sangue e nel terrore, mostrano come sia difficile fare diventare realtà un progetto politico che mi sembra tra i più maturi che la storia dell'uomo abbia mai concepito, proprio perché fondato sul senso di responsabilità dell'individuo nei confronti del suo simile e della natura, piuttosto che su inutili coercizioni esterne.
Esiste, tuttavia, un popolo, la cui storia, senza volerlo, è stata da sempre caratterizzata dall'assenza di Stato e da un'organizzazione di tipo comunitario, aliena dai concetti di proprietà privata, di nazionalismo e di militarismo: il popolo zingaro. Ancora oggi, in Europa, gli Zingari, divisi nei tre gruppi Rom, Sinti e Gitani (Kalé) pagano a duro prezzo la loro scelta di libertà nomadica, e il loro innato pacifismo con la violazione dei diritti umani più elementari, il carcere, l'emarginazione e i pogroms. Quello che resta oggi dell'organizzazione sociale rom è, chiaramente, il risultato del lento processo di degradazione di una cultura dalle origini misteriose e affascinanti.
Provenienti originariamente dal Rajastan, regione a cavallo tra Pakistan e l'India, gli Zingari hanno praticato per secoli una forma di nomadismo estensivo legato ai mestieri tradizionali del commercio di cavalli, della lavorazione dei metalli, della musica e della chiromanzia. In Europa sono giunti, in diverse ondate migratorie, tra i secoli XIV e XV; in Italia sono per la prima volta menzionati nel 1422. Dapprima accolti come pellegrini provenienti dalla Terra Santa, nell'età della formazione dei moderni stati nazionali (sec. XVI-XVII) essi cominciarono a essere espulsi, perseguitati, torturati, imprigionati, uccisi. L'accentramento politico e l'identificazione nazionale favoriscono in questa fase un atteggiamento di rifiuto e negazione violenta di tutto ciò che è diverso. Diversi per definizione, i nomadi di origine zingara vengono cacciati dalla Spagna insieme ai Mori e agli Ebrei (1492), condannati a morte in Inghilterra da Elisabetta (1554) e in Francia dall'Assemblea degli Stati di Orléans (1571). La chiesa cattolica sostenne spesso la validità delle persecuzioni e dei pogroms contro questo popolo mite e non-violento, colpevole solo di non possedere una terra e un'organizzazione statale.
A partire dal XVIII secolo, con l’imperatrice Maria Teresa ha inizio la politica assimilazionistica nei confronti di Rom e Sinti, corrispondente alle esigenze del nascente capitalismo mercantilistico. Fu imposta agli Zingari la sedentarizzazione, l'annullamento della specificità etnico-culturale, il lavoro forzato nelle manifatture di Stato. Gli Zingari resistettero fieramente ma silenziosamente anche a questo tentativo di distruggerne l'identità.
Nel nostro secolo, si è ritornati a una politica persecutoria con il Nazismo, espressione di una concezione "etica" e dunque autoritaria dello Stato che intende preservare la purezza della razza anche attraverso lo sterminio delle razze considerate inferiori. Circa 500.000 Zingari furono uccisi nella camere a gas e, contrariamente all'olocausto ebraico, di questo evento si parla ancora poco e male (di risarcimenti, nemmeno a parlarne). Il regime croato di Ante Pavelic fu responsabile del massacro di migliaia di Rom, trucidati o fucilati con la benedizione dei francescani.
Anche il Fascismo italiano cominciò a rastrellare gli Zingari in campi di raccolta nostrani e ne spedì alcune migliaia nei lager nazisti, dove poi parecchi perirono. Pochi sanno anche che parecchi Zingari militarono come partigiani nelle guerre di Resistenza in tutta Europa.
Sotto il socialismo reale, non pare che le cose andassero granché meglio per i Rom. Se inizialmente, sulla scorta dell'enfasi posta sulla liberazione delle identità nazionali, pareva che il destino di questo popolo dovesse conoscere finalmente una tregua dalla violenza e il riconoscimento della sua specificità etnica, negli anni '40 cominciò un lento processo di russificazione, sedentarizzazione e assimilazione forzata. Solo nella Jugoslavia di Tito, i Rom ebbero il riconoscimento di alcuni elementari diritti come l'identità, il lavoro, la casa, la scuola, la parità di dignità con le altre etnie. La situazione oggi in Italia e in altri paesi della UE è peggiore di quanto si possa immaginare. I Rom e i Sinti sono ancora discriminati, espulsi, sottoposti alle più incredibili violazioni dei diritti umani e civili più basilari. Pochi sanno, infatti, che i Rom spesso, non avendo documenti che attestano la loro identità, magari come cittadini di uno Stato straniero (Croazia, Serbia, Bosnia, Macedonia, Kosovo), non possono dimostrare di essere i legittimi genitori dei loro figli, non possono sposarsi né dichiarare la morte. La loro età media, per le precarissime condizioni igieniche in cui versano, è di circa 40 -45 anni. La scomparsa dei mestieri tradizionali li costringe a praticare l'accattonaggio (mangel) o il furto (chorel) come uniche alternative possibili alla morte per fame.
Nell'immaginario comune, gli stereotipi e la malafede impediscono la conoscenza della dura realtà di questo popolo fuggito dalle guerre recenti nella ex-Jugoslavia e restituito all'improvviso al suo antichissimo destino di persecuzione immotivata. Si continua a credere, perché fa comodo, che si tratti ancora oggi di un popolo nomade per sua scelta: i nomadi sono, infatti, non-cittadini per antonomasia, non hanno diritti e, soprattutto, non dovrebbero avere pretese a una vita diversa da quella che conducono. L'ipocrisia della nostra società si spinge fino a inculcarci che la protezione coatta dei minori rom sia un atto dovuto per tutelarli dallo sfruttamento da parte dei genitori (cosa assurda: lo sfruttamento esiste nelle fabbriche, certamente non in un tipo di economia familiare come quella rom) ma non si fa nulla per sottrarli all'abbandono e alle violenze cui sono sottoposti quotidianamente. Il recente caso di Rubjana Bajramovic, sequestrata dai carabinieri di Salerno per tre giorni perché somigliante alla scomparsa Angela Celentano, la dice lunga sullo stato dei diritti umani di questo popolo in mezzo a noi. Le continue notizie di morti violente o espulsioni immotivate come quelle ordinate dal sindaco di Roma, Rutelli, qualche anno fa ormai non ci impressionano quasi più per niente.
Non intendo assolutamente avallare l'idea che la cultura dei Rom sia tutta rose e fiori. Si tratta di una società patriarcale, che riserva alla donna un ruolo subordinato e senza dubbio marginale. Sotto le pressioni della modernità, la posizione della donna è ulteriormente peggiorata in seno alla comunità rom, perché accanto al tradizionale ruolo riproduttivo, le donne ne hanno assunto anche uno produttivo, esercitando l'elemosina fuori casa su scala industriale. Gli uomini sono rissosi, alcolizzati, violenti e aggressivi. L'analfabetismo è una delle peggiori piaghe di questo popolo e la degradazione culturale comporta la perdita del folklore, delle arti tradizionali, dell'identità culturale. Gli antichi vincoli solidaristici all'interno del gruppo vanno sempre più sgretolandosi e lasciando il posto a risse e rivalità tra clan. Non intendo ignorare questi aspetti, ma credo che essi costituiscano solo il riflesso deformato di ciò che è diventata la società dei gagé (i non-Rom): una società individualistica, dove la gente si scanna in maniera sofistica ed educata e l'omologazione imperante non lascia posto alla diversità, alla fantasia, al colore dell'umanità.
Con la nostra stupida presunzione di superiorità, abbiamo rifiutato, combattuto, assimilato e trasformato tutto ciò che di buono poteva esserci nella visione dei popoli zingari: il nomadismo, che è anche una forma di internazionalismo, il pacifismo, il rifiuto dei confini, dello Stato e delle guerre.
Gagiò Dilò
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