La rivolta rende liberi
Nella mensa di un albergo dei poveri di Bilbao, si incontravano e si conoscevano ogni giorno personaggi notevoli per quanto bizzarri; per indole o carattere, per storie di vita vissuta o per qualsiasi altra cosa non contraddistingua la nostra calma e ciclica vita quotidiana.
Quindi, in un angolo, potevi vedere marinai con il fegato ridotto ad un colabrodo e i tatuaggi da galera, in un altro due vecchi punk con la cresta appassita come il loro umore o, di fronte, un elegantone tutto pieno di sé intento a farsi consigliare il bottone della camicia più adatto da essere lasciato aperto per risultare il più sexy possibile.
Al centro della sala, seduto solo al suo tavolo, un personaggio buffo mangiava in silenzio come fosse il protagonista afflitto dalla parodia dei fallimenti della società civile. Lo sguardo basso e assente era quasi celato dalla spessa montatura dei suoi occhiali, la fronte ampia, liscia e senza rughe sembrava servisse da trampolino allo slancio dei suoi capelli elettrizzati, diradati e sparsi in tutte le direzioni, ma comunque indirizzati dai movimenti di sconforto della sua mano, che dalla fronte si alzava ad accarezzare la testa.
Considerando anche la buona rasatura, che puntuale era ripetuta quotidianamente, sembrava un indistinto impiegato di periferia, ma la dentatura praticamente assente e gli abiti luridi e consunti indirizzavano inevitabilmente verso il suo attuale stato sociale di emarginato, diseredato e dimenticato.
Lo “strano tipo” m’incuriosisce e casualmente ci conosciamo parlando delle sue medicine e delle relative malattie. - La cabra está enfierma – ripeteva. La sera dopo cena, nelle ultime ore del giorno, salimmo sul tetto dell’hotel e cominciammo a raccontarci varie storie di vita vissuta. Il suo nome era Walter era di Vienna e prima di finire per strada aveva fatto l’impiegato in una ditta di non ricordo più cosa, aveva condiviso un appartamento con una donna che diceva di non amare e, secondo me, i mobili di casa sua erano di colore scuro e spento. Di nuovo da una mia visione potevo immaginare l’albero secco fuori della finestra del suo salotto, che, forse, era solito guardare, le lampade che ingiallivano di tristezza il muro già agonico di tedio e tutto il resto come nullo.
Riuscivo a scorgerlo sul suo tram che lo porta in galera, o al lavoro, lo immaginavo a viso spento nascosto da una maschera da brava persona in mezzo a tante altre maschere da brava persona, che votano la guerra per far diventare tutti brave persone, che mettono in galera i pazzi (o presunti tali) perché non osino più smascherare interi marciapiedi di pupazzi che si sgretolano di piacere nel veder patire chi tenta di liberarli dai padroni. Lui ora era lì, sul tetto di un hotel dal nome quasi impronunziabile, stagliato contro il cielo e conto il cemento in un contrasto che i nostri occhi non scorgono più, interessato dai motivi del mio mal di pancia (semplice risacca di una sbronza).
Non ricordo più per quale motivo mi fece vedere il suo passaporto in cui oltre al suo volto sembrava fosse ritratto il sottoscala-ufficio nella sua penombra, e la sua ipotetica macchina per scrivere Triumph che, fatto strano, s’inceppava sempre nello schiacciare i tasti I e O.
In quel momento lui era quello che i buoni propositi delle campagne umanitarie o delle raccolte fondi in televisione chiamano clochard, nullatenente, meno abbiente, barbone o meno fortunato (come se si trattasse di aver fortuna). L’atteggiamento curioso da parte sua era la sua fedele convinzione nei canoni di giudizio, comportamento e auto-repressione borghesi. Per tornare alla parentesi sopra citata, era veramente convinto che la sua attuale situazione fosse dovuta alla carenza di fortuna, quando lui raccontava di come fu licenziato senza che né il padrone battesse ciglio sul suo futuro, né lui battesse il pugno sul suo presente.
Mi raccontò di come, abbattuto da tutto e da tutti, se ne andò da Vienna, forse a testa bassa e mortificato dalla “sfortuna” con la convinzione che nonostante fosse (come teneva a precisare) il più bravo ad usare non so quale programma di computer aveva sbagliato qualcosa, forse una storia di termini di consegna non rispettati e perciò punito per i suoi errori. Questo triste e sottomesso personaggio sembrava l’occidentalizzazione di quelli che in Giappone chiamano “evaporati”, gli emarginati locali che si vergognano di aver perso il lavoro e perciò si ritirano silenziosamente in luoghi dove nessuno li possa vedere.
Allo stesso modo lui era quasi invisibile e faceva di tutto per rimanere nell’ombra dei suoi torti al padrone. Alienato. Terribilmente alienato.
Era buffo pensare che le altre persone, quelle che sulla stessa strada stretta e in salita del centro di Bilbao facevano colletta come lui, le considerasse disgraziate e drogate. Lui era integrato. Probabilmente morto di freddo sotto chissà quale ponte di chissà quale città estranea e nemica, però lui era integrato. Un integrato meno “abbiente” (anzi per nulla), un integrato rifiutato da tutti e da se stesso, una sorta di flagellato dai valori, ancora rispettosi degli stessi canoni che lo hanno fatto gentilmente accomodare su un marciapiede.
Triste pensare che dal suo marciapiede e da tutti i diseredati dal sistema dovrebbe venire il grido più forte alla violenza del pensiero e dell’economia dominante; dalla loro estraneità alla logica totalitaria del fatto compiuto dovrebbe uscire lo stimolo evidente della necessità di destabilizzazione del pensiero unico, totale e repressivo.
Lui, prova evidente della violenza subita dai padroni, in contraddizione con quello che era successo sperava di espiare le sue colpe dal suo dio-padrone. L’altro giorno ho letto una scritta su un muro: - Il lavoro rende utili, la rivolta rende liberi -. Avrei fatto bene a dirglielo e sperare che lo capisse.
Gino
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