Selvatico e coltivato
L’oggetto che vado a descrivere è un volume di 192 pagine, di dimensioni 12.2 X 16.8 cm, edito da Stampa Alternativa con prezzo di copertina di 10 € e dal titolo Selvatico e coltivato – Storie di vita
bioregionale. Autrice del libro risulta la Rete Bioregionale Italiana, ma ciò non tragga in inganno, poiché non si tratta propriamente di un lavoro collettivo quanto dell’assemblaggio di 51 scritti di differenti persone che hanno ritenuto di avere esperienze da divulgare in merito al rapporto tra la vita metropolitana, meccanizzata,
cementificata, plastificata, stressata, industrializzata e i posti che sono fuori, al confine o anche dentro questa vita – contraddicendola e mettendola in discussione.
Il fatto stesso che i contributi siano numerosi indica che sta diventando sempre di più la gente che non sopporta più il legame asfissiante con la civiltà industriale e sente bisogno di spazio, di aria, di terra. Non so dire da un punto di vista quantitativo se questo sia un movimento rilevante o se sia destinato a rimanere del tutto marginale e insignificante, ma qualcosa in giro c'è. Gli articoli, nella loro eterogeneità hanno il pregio di dare una visione ampia e, mi pare, realistica della situazione.
La sensazione complessiva è di persone che si trovano in bilico tra la materialità dei gesti antichi (modo gentile per dire gente che tira la zappa), la nostalgia per un mondo che non c'è più, non c'è quasi più, e il desiderio di un mondo che non c'è quasi ancora.
Forse vorrebbero assediare la metropoli industriale, più facilmente ne sono rincorsi e assediati, anche senza accorgersene. Moltissimi, appena mettono mezzo alluce in campagna cominciano con il fare marmellate, cioè a conservare la frutta che è sanamente e poeticamente cresciuta su sani e poetici alberelli con dosi massicce di un prodotto industriale – C12 H22 O11. Che vi sia una certa contraddizione non li sfiora.
Alcuni scrivono cose che non si capisce che c'entrano, forse si dovevano riempire delle pagine del libro. C'è la tipa che intende lo scrivere come – una sensualità ampliata oltre la sessualità verso la sensazione materica che può erompere dai singoli segni della scrittura… – e quindi ci deve sottoporre due pagine di sensazione materica; quell'altra che – la mia funzione è quella di facilitare l'apertura del canale di comunicazione tra le persone e gli Angeli che le accompagnano dalla nascita – (so che siete impazienti di incontrarla, ma purtroppo non c'è l'indirizzo) e così via.
Poi ci sono quelli che veramente non ne possono più e stanno cercando di fare cose diverse. Come Francesca M., che è nata in campagna, negli anni ottanta finisce tra computer, matematica ed imprenditoria e poi torna alla terra, aggirando le difficoltà economiche con i lavori stagionali e consapevole che a voler essere troppo coerente con le mie idee sull'autosufficienza e la selvaticità rischio di diventare acida, frustrata e un po’ snob, ma ci sto provando.
La parte più interessante mi sembra questa, quella di chi "ci sta provando". Ma provando a far che? Certo se uno crede che la rivoluzione deve per forza partire dai centri di produzione industriale questa è semplicemente una fuga, un desiderio di isolamento (piccolo-borghese si sarebbe detto un tempo). Io ci leggo invece un desiderio di combattere l'alienazione che si sta implacabilmente spalmando sulle nostre vite, la separazione tra i nostri desideri, i nostri bisogni e la nostra felicità e quello che siamo costretti o che scegliamo di fare quotidianamente, rimandando ad un futuro remoto ogni cambiamento.
Anche scontrandosi con l'uliveto incolto, grande maestro zen che ha consentito a Pino P. di fare, dopo un anno, 15 litri d'olio; anche venendo criticati e non capiti per questi nostri discorsi che "sanno di vecchio" come Claudia e Fabrizio che preparano il detersivo in casa, macinano la farina, fanno il pane, coltivano le verdure. Fare le cose per sé, non per un capoufficio o per un padrone, usare le mani insieme al cervello, mi pare un buon passo, un inizio possibile.
Certo è forte il rischio di disperdere ogni apprezzabile pratica in una morale che ripete in modo assillante che chi fa così è buono, che la natura è buona, che dobbiamo tutti essere più buoni – e infatti la parola "etica" si ripete in modo inquietante in tante pagine del libro. Ancora più fallimentare è il portarsi l'alienazione appresso, dimostrare di essere oramai animali completamente addomesticati. Vi riporto delle righe che mi hanno fatto impressione: certo conosco i limiti del posto: innanzitutto non vivo del prodotto della mia terra, ho solo qualche ulivo e qualche albero da frutta che offrono tutto quello che possono dare. Per il fabbisogno quotidiano mi rifornisco a valle da Lina, una contadina che vende la verdura e le uova: è l'occasione per parlare di insalate, zucchine, pomodori, e del tempo che fa. Mi piace vederla muoversi nel fango con i suoi stivali per raccogliere, o correre sul viale verso il pollaio.
Ma come "mi piace vederla muoversi nel fango"? Fossi in Lina mi incazzerei un poco.
Per questi tipi di atteggiamento, anche se questo movimento di selvatici e coltivatori mi è istintivamente simpatico, preferisco senz'altro quelli che sanno porsi contemporaneamente problemi pratici a piccola e grande scala. Perché è vero che se non impari a ricavare da mangiare da quello che fai la tua sorte sarà quella del fatuo esteta disperso tra i campi – ancora più grave è non rendersi conto che per un movimento che si volesse opporre alla società industriale il secondo passo dopo il riempimento della pancia è quello di autodifendersi.
Perché se e quando gli ettari di terra in mano ai selvatici diventeranno troppi allora arriveranno le imposizioni delle antenne, dei tralicci, delle condutture, delle autostrade, dei ponti, delle discariche, dei cementifici, delle piste da sci, dell'alta velocità, degli insediamenti turistici e le discariche nucleari.
E né la bontà né gli angeli custodi sono mai riusciti a difendere la natura, il selvatico o il coltivato.
Giuseppe Aiello
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