da "Contropotere - giornale anarchico" numero 23 - Maggio 2004 - anno 3

Pace tra gli oppressi, guerra agli oppressori


Ora che ci hanno avvisato del fatto che guerra significa necessariamente torture, omicidi e sevizie, c’è da aspettarsi parole di pace da chiunque. Infatti, le immagini apparse nelle ultime settimane in TV e sui giornali chiariscono meglio di qualunque discorso perché un uomo dovrebbe odiare la guerra.
Eppure noi non vogliamo parlare di pace!
Questo perché crediamo che l’alternativa proposta dall’informazione di regime fra le ostentate atrocità del conflitto armato e la tranquilla serenità che uno stato democratico come il “nostro” può garantire sia una falsa alternativa. 
Le uccisioni, gli stupri e le torture, che con grande scandalo si è scoperto coinvolgono anche degli onesti “lavoratori” occidentali, colleghi dei celebri martiri di Nassirya, sono una caratteristica non della guerra in Iraq, ma dell’attuale ordinamento sociale: avvengono dovunque uno stato imponga il suo ordine mediante militari, poliziotti, secondini, giudici, padroni. 
Infatti, la brutalità delle immagini provenienti dall’Iraq non dovrebbe farci dimenticare che la dignità umana viene quotidianamente calpestata anche in caserme, carceri, cliniche psichiatriche e CPT non lontani da casa nostra. In questi luoghi l’annientamento degli individui avviene in nome della pace sociale, così come in Iraq avviene in nome della guerra al terrorismo. La guerra non è un episodio sfortunato determinato dallo scontro fra religioni diverse, dalla particolare avidità di qualche capo di stato o dalla volontà di esportare forme di governo più evolute, ma è la condizione permanente nella quale ogni governo ci costringe a vivere. 
La guerra la viviamo tutti i giorni attraverso il ricatto economico, la polizia e le telecamere ad ogni angolo dei nostri quartieri, le umiliazioni del lavoro, la miseria che ci circonda, la devastazione ambientale, la costruzione di nuove carceri, la militarizzazione del territorio in cui viviamo. È quindi del tutto illogico tentare di affrontare la questione, ingabbiandola nei confini di un particolare territorio nazionale.
Per questo non riusciamo ad unirci al coro di “Via dall’Iraq” che molti rivolgono al proprio governo: la pace richiesta dai fautori di un Iraq libero ed indipendente (ossia dotato di un governo ed un esercito autoctoni) non è che la prosecuzione della guerra con altri mezzi. D’altra parte quei servi del militarismo che lo stato dovrebbe richiamarsi sono, dal nostro punto di vista, indesiderati dovunque vadano e sotto qualsiasi bandiera combattano. Essi sono nostri nemici, così come lo sono anche i molti che partecipano alla resistenza irachena con l’obiettivo di costituire un nuovo stato. Non ci è possibile schierarci a favore di nessuna questione nazionale: pensiamo che il popolo di qualunque nazione sia un insieme eterogeneo di sfruttati e sfruttatori e che la causa degli uni sia incompatibile con quella degli altri. 
Disprezziamo profondamente l’ideale patriottico, che quotidianamente viene propagandato da giornali, televisioni, libri di storia, religioni, politici, militari e tutti quanti abbiano interesse al mantenimento del sistema di dominio. In nome della patria, uno sterminio diventa missione umanitaria, gli Agnelli e i Berlusconi uomini verso cui siamo debitori, gli immigrati un pericolo per la società, i carabinieri martiri e le donne soldato il simbolo dell’emancipazione femminile.
A completare l’opera, la rappresentazione spettacolare dello straniero come un esaltato privo di scrupoli incita all’odio fra gli sfruttati e crea il clima di emergenza che giustifica la repressione interna. Questo meccanismo terrorista, induce l’individuo a prostituirsi ai voleri di chi si presenta come suo protettore e unica fonte di salvezza: lo Stato. Ingoiata questa menzogna, gli sfruttati sono pronti ad ammazzarsi gli uni con gli altri e a morire per la causa delle industrie, delle banche, degli imprenditori e dei politici del proprio paese. Una società fondata sul monopolio della forza armata da parte di alcuni e sul controllo militare della parte restante di umanità necessita di uomini pronti a battersi per difendere l’ordine costituito, oltre a carri armati, mine antiuomo, mitra e via dicendo. Ecco quindi spiegato perché il potere investa tante energie nella propaganda di ideali come patria, religione, autorità e sacrificio: tutto ciò in cui ha bisogno di credere un soldato, ossia un uomo pronto ad uccidere e a farsi uccidere per interessi altrui.
Il nostro antimilitarismo è, innanzitutto, il rifiuto di sacrificare la nostra libertà al funzionamento di questa macchina di morte che è lo stato. È odio di questa società fondata sull’oppressione e lo sterminio, ma è anche fiducia nella possibilità di creare un mondo nuovo sulle rovine di questo in putrefazione. È volontà di disertare la guerra degli stati, ma è anche gioia di combattere la guerra sociale al fianco degli oppressi e dei ribelli di tutto il mondo. 
Si sente spesso dire che gli anarchici sono terroristi. Quindi, veniamo spesso coinvolti in quei discorsi con cui il governo giustifica i propri attacchi ai salari, alle libertà individuali e ai diritti sanciti dalle sue stesse leggi, come un sacrificio collettivo da compiere per fronteggiare il nemico terrorista. Il terrore che incute allo stato tutto ciò che sfugga al proprio controllo viene rovesciato su ognuno di noi, nel tentativo di instaurare un assurdo vincolo di solidarietà (a senso unico) fra sfruttati e sfruttatori. Terrorismo è senz’altro la parola adatta a descrivere l’azione del potere quando attribuisce agli anarchici qualunque nefandezza suggerisca la fantasia del giudice o del pennivendolo di turno: dalle bombe nelle piazze, all’avvelenamento delle acque minerali. Ma il terrore che esso propaganda è fondato sulla menzogna! Gli anarchici non hanno mai colpito a casaccio fra la popolazione, ma hanno sempre individuato i loro nemici fra i tutori del governo e delle disuguaglianze sociali. La risposta dello stato è sempre stata chiara: la galera per chi brucia una bandiera, rifiuta di fare il militare o manca di rispetto ad un giudice, le manganellate sui lavoratori in sciopero, le montature giudiziarie (come quella orchestrata dal PG Marini, che si è recentemente conclusa, tra l’altro, con l’attribuzione a cinque compagni anarchici del reato di “banda armata” e di condanne che vanno dai dieci anni all’ergastolo). È dunque evidente che pace non ve ne sarà prima che l’insubordinazione e la rivolta si diffondano fino ad annientare il controllo militare che lo stato ha su ognuno di noi. Siamo convinti che le pratiche dell’azione diretta, dell’orizzontalità dei rapporti e della solidarietà internazionalista siano un’alternativa alla rassegnazione.
Un’alternativa che vale la pena di prendere in considerazione.

Gruppo Anarchico Contropotere


 

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