La patente dell’imbecille
Il 12 e 13 giugno sarà offerta ad una grossa parte di popolazione italiana (esclusi minorenni, criminali, pazzi, immigrati e qualche altra eccezione) un’importante occasione di partecipazione alla vita della collettività: le elezioni. Qualche milione di persone, maggioranza non so di cosa, avrà la possibilità di imporre ad altri esseri umani il potere del suo candidato preferito su una certa fetta di territorio. Questo potere, indipendentemente da chi vincerà le elezioni, continuerà a rinchiudere ribelli, poveri e disadattati e ad assecondare il bisogno di aggressione che la spartizione del mondo in stati rivali comporta. Ciò che cambierà, a seconda del risultato elettorale, sarà, al massimo, la strategia che i governanti assumeranno per conservare il proprio posto di privilegio. L’unica cosa, infatti, su cui i vari statisti non riusciranno mai a mettersi d’accordo è la scelta fra la repressione violenta della rabbia popolare e le piccole concessioni in grado di placare questa rabbia. Nessuna delle due scelte sarebbe, da sola, sufficiente al mantenimento del potere essendo necessario ad ogni padrone, sia il sostanziale assenso degli schiavi, sia la punizione esemplare di chi aspira alla libertà. Ecco, quindi, che i vari partiti elaborano ciascuno una propria teoria su come sia possibile governare in eterno e la propongono agli elettori, farcita di promesse menzognere e di accuse ai partiti avversari.
Quelli che credono alle promesse, o restano affascinati dalla teoria, vivono ogni cinque anni il loro momento di partecipazione candidandosi o votando, spesso realmente convinti di compiere un gesto altruista nei confronti di una società sempre più manifestamente alla deriva. Purtroppo, però, democristiani, fascisti, comunisti e liberisti non sono gli unici a sostenere la farsa elettorale. Moltissimi sono quelli che vanno a votare perché così si fa: il sabato sera si beve, a Natale si va a messa, un venerdì l’anno non si mangia carne, a diciotto anni si parte militare e ogni cinque anni si vota. Nessuno crede in un reale cambiamento, che non sia un vantaggio personale per sé o per il proprio amico candidato, ma tutti sono ben disposti ad utilizzare quel poco di potere che il sistema mette nelle loro mani. Per quello che costa, vale la pena di scegliersi i propri padroni! La scelta è spesso difficile perché tutti promettono la stessa cosa: pace sociale. Pace sociale, che in un sistema fondato su autorità, denaro, proprietà e competizione, significa necessariamente repressione di ogni istanza di libertà. La promessa è insomma quella di un posto da integrato in un sistema che tende ad estendere sempre di più la fascia di individui a cui un tale posto non è concesso. Questa promessa, che i governanti manterranno solo se ciò sarà compatibile con la propria permanenza al potere, è, insieme alla possibilità di rivotare fra cinque anni, l’unica ricompensa che l’elettore ottiene dall’abbandono di ogni facoltà decisionale nelle mani del candidato vincitore. Tanti sono quelli che, nonostante abbiano fiutato la truffa, vanno a votare per limitare i danni: “niente di buono c’è da aspettarsi ma, potendo scegliere, un governo di sinistra sarà pur sempre meno peggio di Berlusconi e dei fascisti”. A patto di voler considerare la precarizzazione del lavoro, la legge razzista Turco-Napolitano, i bombardamenti sull’ex Jugoslavia, la repressione delle manifestazioni di piazza e tanti altri provvedimenti partiti da governi di sinistra come dei semplici incidenti di percorso, bisogna ammettere che il ragionamento fila. Ammettiamo, per un attimo, che un governo di sinistra possa risultare più tollerabile di quello attuale: senza alcuno sforzo, potremmo contribuire al verificarsi di una condizione a noi favorevole, recandoci al seggio ad esprimere la nostra preferenza. Ma siamo sicuri che ciò non costi nulla? Non avremmo noi, col nostro voto, firmato un assegno in bianco ai vincitori delle elezioni, accettando le regole di un gioco che assegna a noi il ruolo di servi e a loro quello di padroni? Non avremmo contribuito al diffondersi di quel pregiudizio pecorile, che assegna ai “grandi uomini” il compito di salvare l’umanità e che è il presupposto di ogni forma di fascismo? Non avremmo dimenticato in un colpo l’insegnamento storico che il male che un governo può esercitare sui suoi sudditi dipende dalla capacità di questi di opporsi e non dalla simpatia o dalla bontà dei governanti? Siamo sicuri che l’elezione di un governo diverso sia una conquista pacifica che evita spargimenti di sangue? Non sono l’esercito, il carcere, la polizia e la miseria che ci circonda una testimonianza del contrario? Non votare è la prima risposta che uno può dare a queste domande. È ovvio che, come gesto isolato, andare al mare il giorno delle elezioni non cambia di più di quanto cambi il mettere la croce su un simbolo piuttosto che un altro. D’altra parte qualunque gesto isolato ognuno di noi può compiere, ha scarsa influenza sulla vita del resto dell’umanità. Ciò che da un senso all’astensionismo elettorale è la prospettiva di una riappropriazione della propria vita, da parte di ogni individuo, attraverso le pratiche dell’autorganizzazione, dell’azione diretta, dell’orizzontalità dei rapporti e del rifiuto, quindi, di ogni delega a favore di politici e poliziotti di ogni specie.
Orazio
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