In ogni caso nessun rimorso
Il G8? Non tutti sono intenzionati a chiedere “verità e giustizia” allo Stato; molti pensano che altri “devastano e saccheggiano” le nostre città e la nostra vita, che le vie di Genova liberate da merci, automobili e strumenti di controllo sono stati luoghi momentaneamente restituiti alla vita, che uno sbirro ha ucciso Carlo perché era in atto una rivolta che non si poteva fermare in altro modo. Sono molti e tornerebbero sulle barricate immediatamente.
Può sembrare strano, ma sotto la sempre più spessa coltre delle ceneri dell’alienazione, covano ancora i fuochi della Comune parigina e della rivoluzione spagnola. È con quel fuoco nel cuore, per soffiare su quelle ceneri, che in molti si sono ritrovati per le strade di Genova durante il G8. Ne è nata una rivolta come, a Genova, era già accaduto il 30 giugno 1960. Dal momento che a queste persone non interessava partecipare a quello spettacolo del rifiuto la cui organizzazione è il triste mestiere di molti, quanto esprimere il rifiuto per ciò che qui e ora nega alle nostre vite la bellezza a cui esse hanno diritto, non è servito arruolare truppe né distinguersi con bandiere e tute per incontrarsi in molti e tentare un assalto all’ordine del mondo. Per questi motivi è inutile attribuire le violenze ai 26 imputati di oggi o al fantomatico black bloc; tutti sanno, ma quasi nessuno può permettersi di dire, che a Genova migliaia di persone hanno partecipato agli scontri e al godimento dello spazio urbano liberato dal quotidiano, totalitario, dominio di una non-vita nemica delle passioni. Tra di loro molti genovesi, tra cui Carlo che, poche ore prima di morire in piazza Alimonda, partecipava a piacevoli distruzioni all’inizio di Corso Sardegna. I veri amici di Carlo sono le persone che hanno condiviso con lui quelle ore; gli unici che gli renderanno omaggio e giustizia saranno quelli che porteranno lo spirito di quel giorno in altri momenti di rivolta.
Noi genovesi non abbiamo mai visto Genova così bella come quel venerdì 20 luglio, perché solo nell’ora della rivolta non ci si sente veramente soli nella città. Allora Genova è stata veramente “capitale europea della cultura”, quando genovesi e persone provenienti da tutto il mondo si sono spontaneamente ritrovati in una prassi inequivocabile nel proprio giudizio su questo mondo. Per chi pensa che l’unica risposta alla sofferenza sia la rivolta, che i rapporti umani debbano fondarsi sulle passioni oppure su niente, per chi non si rassegna alla miseria che ci assedia, il 20 luglio 2001 rimane una festa, un carnevale, un intenso momento di libertà: la migliore controprova è che sbirri, giudici, benpensanti e “sinistri” dipingano i fatti di Genova come tragici, fatti per cui vanno trovati i responsabili (di volta in volta, a seconda dei ruoli: i 26 imputati, il black bloc o il complotto delle istituzioni).
La storia si ripete. Subito dopo il 30 giugno 1960, quando gli stessi benpensanti e “sinistri” accusavano la rivolta di essere stata manipolata, qualcuno ebbe il coraggio di dire: “I ragazzi di Genova che hanno bruciato le camionette della Celere erano dei giovani che sanno quello che fanno; sono operai e studenti che hanno maturato un profondo disprezzo nei confronti del potere che grava su ogni momento della loro vita di giovani”. La storia si è ripetuta ed è per questo che, alla cattiva coscienza filistea di questo mondo da abbattere, non si può che continuare a rispondere allo stesso vecchio modo:
se nei vostri quartieri tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate, senza feriti, senza granate
se avete prese per buone le verità della televisione
anche se allora vi siete assolti siete lo stesso coinvolti
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