Il ritorno di Cagliostro
«Il cinema c'è, il cinema non è quello fatto dai film, il cinema è lì di fronte (…) aspetta di essere un pò preso, un pò preso al volo”». Enrico Ghezzi
I. La disumanità della merce
“Il ritorno di Cagliostro” di Daniele Ciprì e Franco Maresco, che le guide dei film o i dizionari per i beoti dello spettacolo a tutto campo (cultori delle schifezze televisive, quanto delle bruttezze cinematografiche), definiscono del genere «grottesco»… è qualcosa d'altro. Nel film di Ciprì e Maresco c'è la rivisitazione di Artaud, Pasolini e anche un certo Renoir non sfigura dentro questa fucina di citazioni che è “Il ritorno di Cagliostro”. Non si tratta né di «teatro della crudeltà», né di «geniale straccioneria pasoliniana» o di «realismo magico» alla francese… Ciprì e Maresco hanno affabulato una sorta di «asilo della diversità» dove si danno appuntamento la poetica della disobbedienza e l'epica dell'utopia.
Il personaggio di Giuseppe Balsamo, Conte di Cagliostro, c'entra poco nella storia raccontata da Ciprì e Maresco. È piuttosto un'icona della differenza, una specie di «freaks» al quale non fa difetto né l'immodestia, né l'onestà. Cagliostro, infatti, è portatore di truffe nobiliari, magnaccia di fine educazione, mago o ciarlatano al seguito delle corti di mezza Europa del '700… sotto ogni aspetto, è un uomo che viola gli schemi della normalità e osa attraversare la propria vita danzando sulle teste della classe dominante. La sola virtù che segue è l'inclinazione verso tutti i vizi, compreso quello più importante, la libertà di pensiero. Il resto sono cose di ordinaria galera e santa persecuzione.
Ne “Il ritorno di Cagliostro”, c'è l'intero percorso espressivo degli autori — dai corto/mediometraggi, “Stanley's Room n.1” (1991), “Verso Vertov” (1991), “Il corridoio della paura” (con Samuel Fuller, 1992), “Martin… a Little” (con Martin Scorsese, 1992), ai lungometraggi, di una bellezza autoriale e di un coraggio laico, non sempre compreso, come “Lo zio di Brooklyn” (1995), “Totò che visse due volte” (1998) — In tutto il loro lavoro, Ciprì e Maresco dicono che non c'è dolore inflitto che l'uomo può sopportare e la non obbedienza alla disumanità della merce che attanaglia o umilia gli «ultimi», è già un invito alla partecipazione della sua caduta. Al culmine della civiltà dello spettacolo, c'è soltanto la distruzione.
“Il ritorno di Cagliostro” è un film-vaudeville che deriva direttamente dal teatro di strada siciliano e, a vedere in profondità, dal cinema d'impegno civile degli anni '60 (Francesco Rosi, Florestano Vancini o Valerio Zurlini), anche. Ciprì e Maresco scrivono il loro cinema con le ombre e con le luci della surrealtà eversiva, profanano l'indifferenza generale e fanno dell'impazienza di esistere, l'assalto agli idoli falsi dei valori codificati. Il principio di ogni bestemmia figurativa è quello di svaligiare i cieli sfigurati dell'arte. Di ogni arte. E la macchina/cinema è il contenitore mercantile, che più di ogni altro strumento di comunicazione di massa (con la pretesa di essere «arte») è inadeguato a pontificare l'anima del mondo.
Nelle fornaci del dolore culturale, gli uomini di «buona volontà» abbassano la loro inclinazione a servire, plaudendo, in eguale misura, “La passione di Cristo” (2004) diretto da quel bigotto di Mel Gibson (che dice di avere fatto il film «ispirato da Gesù Cristo» e non per una semplice questione di dollari americani), quanto i soldati italiani che sparano sul popolo iracheno (preda di ogni potere religioso, criminale e terrorista…) per compiacere un presidente del consiglio che è un idiota e un presidente della repubblica che è rincoglionito dall'inno di Mameli, tanto che sovente sbaglia i ceppi dei partigiani con quelli dei fascisti e versa le stesse lacrime tricolori. È sulla banalità del male e sulle indulgenze dei Papi che sono stati inventati i campi di sterminio. Oggi il mercato delle armi è fiorente. La morte per fame nel mondo impoverito dai Paesi ricchi è in aumento, come sono in crescita i supermercati, e i dividendi delle banche giocano al rialzo sul numero dei morti ammazzati ai quattro angoli della terra. Amen! E così sia.
II. “Il ritorno di Cagliostro”
“Il ritorno di Cagliostro” si chiama fuori dai vestimenti innocui della «commedia all'italiana» post-moderna, viola i codici e le aspettative mercantili delle categorie e apre altri modi di fabbricare e ricevere il cinema. È la storia, tra il tragico e il comico, dei fratelli Carmelo e Salvatore La Marca, ex fabbricanti di statue sacre, che si improvvisano produttori cinematografici. Nel 1947, a Palermo, fondano la «Trinacria Cinematografica» e insieme a personaggi di una certa caratura siciliana, come il cardinale Vincenzo Sucato, l'onorevole Porcaro ed il Barone Cammarata, mettono insieme i soldi e le idee per finanziare “Il ritorno di Cagliostro”. Nei piani di tutti, il film avrebbe dovuto risollevare le sorti economiche della casa cinematografica (che usciva da «flop» clamorosi, come La vita di Santa Rosalia) e restare nella storia del cinema come un novello Nosferatu, forse. La regia è affidata al «maestro» Pino Grisanti e il ruolo di Cagliostro al mito di Hollywood, Errol Douglas (attore americano ormai in pieno declino e dedito più alla bottiglia che alla recitazione).
I due registi siciliani realizzano un film sovra le righe, un'opera che fa del grottesco, del folle e dello straordinario qualcosa che travalica ogni genere e forse li contiene tutti. Gli stilemi narrativi di Ciprì e Maresco sono elaborati su sequenze atonali, graffianti, velenose… e anche il sorriso dello spettatore è reso acido, corrorsivo, abrasivo, per l'intero film. Gli interpreti (Robert Englund, Luigi Maria Burruaro e Franco Scaldati) esprimono una freschezza visiva non proprio comune nel cinema italiano e il pubblico, come la critica, non sempre sostiente tutto ciò che rappresenta vivacità, innovazione, rovesciamento di prospettiva, perché è incline ad applaudire film decotti come “La meglio gioventù” o le idiozie giovaniliste alla Muccino, insieme, s'intende, al più sopravalutato ed inutile dei comici italiani, Roberto Benigni. Gli attori "non professionisti" che ruotano intorno ai personaggi centrali, richiamano, in maniera estremizzata, i volti sottoproletari dei film pasoliniani, entrano ed escono dal film con quella naturalezza straniante che valorizza i loro corpi e il loro passaggio sulla terra (come il nano alla Buñuel, più di Linch). Il montaggio alternato di “Il ritorno di Cagliostro” è un esempio di grande cinema. Intreccia la storia dei due fratelli produttori con inserti giornalistici attuali (si vedono i critici cinematografici Gregorio Napoli e Tatti Sanguineti, che interpretano se stessi) e il ritrovamento di una copia del film. Bella la fotografia (curata da Daniele Ciprì), elabora uno splendido bianco e nero, che ricorda lo splendore figurativo di Gianni Di Venanzo. Anche i costumi di Patrizia Quaranta sono centrati, addossati a quelle scenografie spoglie e un pò casuali, danno al film un che di memoria perduta o di un passato presente tutto ancora da scoprire. “Il ritorno di Cagliostro” mescola, senza un'ombra d'imbarazzo, Orson Welles a Ed Wood e aggiunge Ozu, Fellini, Murnau a Pasolini… il viale del tramonto della «Little Hollywood siciliana» può essere rovesciato in critica radicale del cinema italiano (tutto intero) e “Il ritorno di Cagliostro” ci lascia negli occhi e nel cuore la bella anarchia di un piccolo film che libera la testa e di sicuro insuccesso. Buona visione.
Pino Bertelli
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