Dogville
“A proposito di noi tutti, si potrà concludere
che ciò che spesso ci ha impedito di limitarci ad una sola attività illegale
è il fatto che ne abbiamo avute più d’una”
Guy-E. Debord
DOGVILLE (2003) di Lars Von Trier è un opera anomala nel cinema d’intrattenimento domenicale. Infrange, infatti, regole e aspettative del “buon costume” cinematografico e, più ancora, mostra la possibilità di un cinema radicale dove anche le “stars” hollywoodiane hanno — se non un cuore — almeno la faccia della gente (non proprio) comune che interpretano con dovizia crepuscolare (comunque qui). Il film è acido, irriverente, anarcoide. Qualcuno ha scritto che DOGVILLE è ispirato al teatro televisivo degli anni ’70 o ai romanzoni a puntate del ‘700. Vero niente. Semmai von Trier ha ribaltato la scena morta di tutto il teatro televisivo più consumato ed ha messo sullo schermo una specie di “Opera da tre soldi”… di Bertolt Brecht ha conservato anche lo spaesamento attoriale, l’ambientazione atonale e la secchezza dei dialoghi.
Il film è stato girato in sei settimane negli studi svedesi di Trollbatän. Le case, le strade, gli uffici della cittadina americana sono tracciati con il gesso sul pavimento e lo sfondo è completamente nero. Gli interpreti, diciamolo subito, sembrano sospesi tra la grandezza del gesto e la surrealtà della parola. Nicole Kidman è di una bellezza diafana che illumina il film e la sua bravura sta proprio nel “non” recitare ma nell’interpretare un’icona, quella dell’amore violato. I camei di Lauren Bacall, Ben Gazzara e James Caan hanno affascinato anche l’ultimo dei critici più stupidi che affollavano il Festival cinematografico di Venezia, ma i loro voti e applausi annuali sono stati dirottati poi sul “polpettone” d’autore stanco di Clint Eastwood, MISTIC RIVER.
DOGVILLE si compone di nove capitoli e un prologo. Una bella ragazza, Grace (Nicole Kidman) è inseguita dai gangster. Arriva in una cittadina sperduta tra le Montagne Rocciose, Dogville (la città dei cani). Lì regna l’amorevolezza, la giustizia, il rispetto tra le genti… la bontà è sulle tavole di tutti e tutti sono eguali tra loro (si fa per dire). Il giovane Tom (Paul Bettany) aiuta la ragazza ad inserirsi nella comunità e in cambio di piccoli favori (o sublimi torture), i bravi cittadini di Dogville la tengono nascosta. Poco a poco ogni abitante di Dogville chiede sempre più servigi alla dolce ragazza e così, piano piano, Grace è sfruttata, vessata, umiliata e stuprata. Con la benedizione di tutta la comunità, s’intende. In chiusa, von Trier ci dice che Grace è una gangster e su di lei c’è una taglia. Il capo della banda la riprende e la riporta nel suo ambiente, che non è meno spietato né meno feroce del vivere quotidiano di quella città degli angeli, anzi, dei cani.
Von Trier ambienta il film nell’America della grande depressione. Il film gioca sui generi e li contamina. Se la trilogia dal “cuore d’oro” (LE ONDE DEL DESTINO, IDIOTI, DANCER UN THE DARK) disgelava ipocrisie, compromessi, vigliaccate… la nuova “trilogia americana” si apre sui dissensi, le eresie, gli strappi esistenziali di Dogville e annuncia nuove stagioni di dolore e di rotture generazionali. Von Trier è un “forestaro” del cinema, si batte contro le maschere delle denominazioni e mostra che la bellezza mercantile, ideologica o della fede, sono intrise di pericolo. DOGVILLE è scritto con figure “metalogiche”, per elusione, infatti, von Trier, porta la sua critica radicale alla società istituita in maniera più elevata e si sottrae al contesto del falso spettacolare. Egli considera il mondo come un “garage” o una “città nana”, con molte porte d’accesso e ciascuno ha la propria chiave d’ingresso. Il suo gioco è quello del disertore di anime che sfiora con la punta delle dita cose nuove, strade aperte, segni premonitori di una raffinata civiltà, ancora da inventare.
La sceneggiatura di von Trier è senza sbavature, in contrasto con la lunghezza del film (tagliato abbondantemente dal regista per esigenze di distribuzione nelle sale), che sovente denuncia pesantezze di montaggio (Molly Malene Steensgaard). La fotografia (Anthony Dod Mantle) è magistrale, a tratti sontuosa. L’essenzialità della scenografia (Peter Grant), insieme alla forza e alla duttilità della macchina da presa di von Trier, riescono a dare al film una visione essenziale e insieme apocalittica della civiltà dello spettacolo. C’è il senso della grazia, in tutto il cinema di von Trier, ma non quella fagocitata dalla chiesa, dai giochi di borsa o dai mercanti d’armi… la grazia come violazione del limite, del dialogo con la speranza, e più ancora, di fine dello spavento come simulacro elettorale del delirio collettivo. DOGVILLE, dunque, è una metafora sulla vita quotidiana, che rischiara la parola disobbedienza fino alla trasparenza dei sogni. Un’opera buttata contro la cattiva coscienza degli uomini e con la disinvoltura delle anime grandi grida: dopo di noi il diluvio! Là dove il linguaggio dei miti si è irrigidito nel tanfo delle merci, il verso di un poeta può denudare e incendiare il peso pericoloso ed effimero del proprio tempo.
Pino Bertelli
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