Numero 2 - Giugno 2002 - Anno 1

Con cosa sostituire il carcere?


Lo stereotipo dell'anarchico intransigente, pensatore coerente ma avulso dalla realtà, sembra ben rappresentato dalla tipica situazione in cui, in una discussione su temi quali la pena di morte, l'ergastolo e i diritti dei detenuti, un "estremista" interviene mettendo in discussione l'esistenza stessa dell'istituzione carceraria e, con essa, quella delle leggi, dei magistrati e dei gendarmi. Quando tale esternazione non viene bollata come dimostrazione del fatto che "con certa gente è impossibile discutere", l'obiezione che in genere vede rivolgersi chi si dichiara nemico del carcere è del tipo: "Con cosa pensi di sostituirlo? Che fare dei criminali che ledono la libertà altrui?". 
Di solito, questo genere di domande suscita in me un forte senso di debolezza dovuto all'evidente incapacità di essermi spiegato. Infatti, dopo aver sostenuto che nessuno ha mai il diritto di imporre una propria decisione ad un altro essere vivente e che ciò che ritengo non solo possibile ma necessario mettere alla base dei rapporti umani sia la solidarietà anziché la lotta per l'egemonia, mi sembra che queste domande non abbiano ragione di esistere. Il fatto che qualcuno mi chieda io cosa farei dei delinquenti lo avverto insomma come segnale del fatto che egli o non ha ascoltato ciò che ho detto oppure non ha dato peso alle mie parole ritenendomi, in fin dei conti, un ipocrita che parla per parlare.
Ma, mettendo da parte questo piccolo risentimento nei confronti del mio interlocutore, rispondo lo stesso alla domanda facendo presente che va sostituito tutto ciò la cui funzione possa essere esplicata meglio da qualcos'altro e questo non è certo il caso del carcere la cui funzione non voglio venga esplicata affatto. 
Io non credo nel carcere non perché non funzioni come strumento repressivo e dissuasivo (sebbene sia convinto che non una sola violenza in meno sia stata commessa grazie a questa istituzione) ma perché rifiuto l'intervento di qualsiasi autorità nella risoluzione dei conflitti e credo nella soggettività di ogni distinzione fra bene e male, fra buoni e cattivi.
Ciò che contesto è l'idea che qualcuno possa essere considerato un violentatore moralmente superiore agli altri: in tema di violenza l'unica distinzione che faccio è fra violenza subita e violenza inflitta. 
Non sopporto, quasi quanto non sopporto il carcere, le argomentazioni ipocrite di chi difende l'azione repressiva come funzionale agli interessi della collettività: la galera, dicono, "rieduca" gli individui pericolosi e, quando ciò non è possibile li mette almeno nell'impossibilità di poter nuocere; inoltre è giusto e doveroso punire chi sbaglia anche per scoraggiare eventuali aspiranti delinquenti. 
La facoltà rieducatrice del carcere non mi sembra possa essere sostenuta da alcuno che sia in buona fede. Fra le tante menzogne che la cosiddetta scienza ufficiale ci propina, quella che un uomo possa imparare ad amare la stessa società che lo rinchiude in una cella costringendolo a subire ogni tipo di angheria, non molti "specialisti" hanno avuto il coraggio di sostenerla: proprio non regge! 
L'uomo che viene "reintegrato nella società" dopo l'isolamento non può che esserne un nemico più convinto ed arrabbiato di quanto non fosse prima della detenzione.
Sulla funzione deterrente ho già espresso i miei dubbi: se non ho mai violentato o ucciso nessuno non è certo per paura di essere arrestato.
Anzi, per quanto mi riguarda, ogni imposizione che abbia avuto influenza sul mio comportamento, la ha avuta nel senso di "stuzzicarmi" a trasgredirla. Ma, anche ammesso che sia possibile rendere inoffensivo qualcuno terrorizzandolo con la minaccia della galera, trovo assurdo che, per scoraggiare un fantomatico criminale in potenza, si utilizzi la vita di un altro uomo negando nei fatti la sua natura di essere vivente e quindi commettendo un crimine vero e proprio per scongiurarne uno potenziale. 
Negare ad una persona tutto ciò che ciascuno per sé riconosce come irrinunciabile significa dichiarargli guerra e quindi, giustificare la repressione come mezzo di difesa, non è più logico di quanto non lo sia il parlare di "guerra umanitaria". È illogico rinchiudere un uomo che si ammette di non riconoscere come tale: è più "giusto" sopprimerlo se si vuole eliminare il pericolo che egli costituisce per gli altri. In effetti questo è quello che qualcuno va sostenendo mostrando così l'unico argomento a favore del carcere in cui sia possibile credere: la vendetta. Per quanta impressione possa fare questa parola, essa è espressione di un sentimento sincero ed umano che non posso dire mi sia estraneo. Il fatto che non capisco è perché obbligare tutti ad affidarsi a vendicatori di professione ed impedire così a chi subisce un torto di regolarsi come meglio crede. Se qualcuno viene punito la punizione deve, a mio parere, giungere direttamente da chi ritiene di aver subito un'offesa e non certo da un'entità superiore a tutti e tutto, la cui superiorità non può che essere arbitraria.
Tanto più se tale entità è rappresentata da uno Stato che si fa portatore di tutti quei "valori" alla base dei crimini che esso stesso condanna: denaro, sessismo, competizione, potere, guerra, autorità. Con ciò non voglio dire (francamente mi sembra una forzatura) che in un futuro post-rivoluzionario possa essere, con lo Stato, abolita ogni causa di conflitto e di violenza fra gli uomini ma solo che lo Stato ne è la causa prima e non un freno.
Può quindi anche darsi che con violenti e truffatori si avrà sempre a che fare ma non ho alcun intenzione, per questo, di considerarli come un blocco omogeneo da individuare all'unanimità delle "persone perbene" e deciderne "cosa farne" (come se fossero un elettrodomestico che non funziona). Voglio tutta la libertà di decidere come comportarmi con ciascun individuo con cui ho a che fare e il fatto che adesso non sappia rispondere a chi mi chiede cosa farei all'assassino di mia figlia non mi preoccupa.
Mi preoccupa, invece, che qualcuno possa uccidere mia figlia ma, allo stesso modo mi preoccupa che qualcuno possa rinchiudere mia figlia in una cella e lasciarvela morire dentro. La soluzione che in genere si trova a questo tipo di preccupazioni è quella di pensare che ciò accada agli altri e questo è sempre un errore. L'arresto è però una "disgrazia" verso la quale tale atteggiamento è particolarmente sbagliato essendo il "tasso di detenzione", ossia il rapporto tra popolazione carceraria e popolazione complessiva (che oggi è di uno su mille ed è il più alto degli ultimi 50 anni), in continua crescita ben più di quanto non lo sia, ad esempio, la percentuale di morti ammazzati. Non credo sia possibile parlare di miglioramenti o peggioramenti della situazione carceraria essendo infame supporre l'esistenza di una vita carceraria accettabile ma è un fatto che, come testimonia la recente rivolta nel Marassi di Genova e lo spaventoso aumento di suicidi fra i detenuti (triplicati in dieci anni), l'esasperazione cresce di giorno in giorno di pari passo col sovraffollamento delle celle.
Mi rendo conto che chi in carcere ha ancora la forza di lottare spesso si trovi a perseguire obbiettivi minimi, che chiunque sia fuori da per scontati, nel tentativo di rendere accettabile una vita che accettabile non può essere. Ciò fa parte dello spirito di sopravvivenza ma, per noi che siamo fuori, cercare di riformare quest'istituzione significa soltanto dare il proprio contributo a rafforzarla e perpetuarla. Bisogna perciò riconoscere i tentativi riformisti di politici, dottori, psicologi e altri specialisti del settore per quello che sono: il tentativo di mantenere in vita un sistema che permette loro di vivere della morte di altre persone. 
Non è accettabile che qualcuno parli di carcere come di un problema di altri essendo questa un'istituzione che agisce in nome di tutti, scavalcando ogni diversità. 
È quindi per noi stessi che dobbiamo trovare una soluzione: il fine è quello di evitare ogni atrocità inflitta e subita; il mezzo non può che essere, a mio giudizio, la solidarietà e la cooperazione con le persone di cui ci fidiamo nella lotta contro tutti gli oppressori.

Occor


 

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