da "Contropotere - giornale anarchico" numero 28 - Novembre 2004 - anno 3

E allora, finocchietti?


Leggevo, tempo addietro, un interessante articolo riguardante i co.co.co. su “Il Sole 24 ore”. L’autore rilevava che questo moderno precariato vive un’evidente contraddizione fra i livelli di scolarizzazione e di abilità richiesti per lavorare, ad esempio, nel call center e modestia delle retribuzioni e delle garanzie sociali. In termini classici, una forma della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione. Passando dalle teorizzazioni generali all’esperienza pratico sensibile, sono stato colpito, in diverse occasioni da una caratteristica di questo tipo di lavoratori che, almeno per quanto riguarda la mia esperienza diretta, sembra diffusa. Mi riferisco ad un’attitudine democratica, formalmente corretta, improntata alla più tradizionale buona educazione. Si tratta, sovente, di ragazze e ragazzi con un titolo di studio elevato, che abitano in famiglia, che hanno buoni rapporti con i genitori, che non sono abituati a gestire relazioni conflittuali. Di conseguenza, sembrano cogliere nel dispotismo padronale non la manifestazione della natura delle relazioni sociali che vivono e dei caratteri propri delle classi dominanti quando non sono tenute a bada ma una rottura di regole di correttezza che vengono percepite come doverose. Sebbene siano spesso figli di persone passate per i movimenti degli anni settanta, e forse proprio per questo motivo, sembrano ignorare la vecchia canzone di Giorgio Gaber “I padroni son tutti dei porci, più sono porci e più sono lerci, più sono lerci e più ci hanno i milioni, i padroni son tutti coglioni!”. Una giovane collaboratrice a progetto (la nuova definizione di Co. Co. Co.), passata ieri in sindacato per denunciare alcune porcheriole, mi raccontava che la sua caporeparto le ha dato tranquillamente della stupida e, alle sue rimostranze, l’ha informata che se non le piaceva il lavoro non c’era alcun problema a licenziarla. Onde evitare il sospetto di vessazioni riservate alle donne, mi ha anche detto che i capi sono soliti interpellare dipendenti maschi dando loro dei finocchietti. Ammetto che non sono restato scandalizzato tanto dall’evidente omofobia dei poderosi quadri aziendali quanto dal fatto che nessuno ha provveduto a replicare loro come meritavano. Senza mitizzare la rude razza pagana proletaria, ritengo che un paio di ceffoni ben dati sarebbero stati, in questo caso, più che opportuni. In fondo, i cani da guardia aziendali, quando insultano i lavoratori e le lavoratrici esprimono una sorte di invito alla rivolta o, ad essere meno freudiani, l’arroganza di chi non teme una reazione. Credo che vada sviluppata un’azione puntuale di informazione e di denuncia sulla vita quotidiana dei lavoratori atipici e, comunque, di tutte le figure più deboli del mondo del lavoro. Non è detto che anche i “finocchietti” non possano dimostrare virtù guerriere insospettabili.

Cosimo Scarinzi


 

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