Numero 3 - Luglio/Agosto 2002 - Anno 1

Prendere una posizione


Sembra non vi siano limiti a quanto le condizioni di vita del popolo palestinese possano divenire più drammatiche. A ricordarcelo, dopo l'avvio della costruzione del muro e l'"invito" di Bush ai palestinesi a rimuovere la leadership di Arafat, c'è stata, lunedì primo luglio, la "marcia del pane" di oltre 4 mila (ex) lavoratori palestinesi ridotti alla fame dal blocco economico d'Israele e dalla segregazione nelle proprie abitazioni dovuta al coprifuoco imposto dall'esercito. Nel frattempo continuano, da un lato la politica di Sharon degli omicidi mirati e dei rastrellamenti casa per casa di tutti i palestinesi maschi fra i 15 e i 40 anni, e dall'altro l'interminabile sequenza di stragi fra la popolazione israeliana da parte dei kamikaze palestinesi.
Schematizzando, la svolta degli ultimi anni è rappresentata dall'abbandono, da parte israeliana e statunitense, del precedente progetto di concedere all'ANP di Arafat una certa autonomia amministrativa e i compiti di polizia interna di un territorio politicamente, ossia militarmente, soggetto all'autorità dello Stato d'Israele (un modello, come si è più volte detto, ispirato ai Bantustan del Sudafrica dell'apartheid). Tale politica, che sembrava mettere tutti d'accordo (tranne ovviamente la popolazione palestinese) dall'OLP a Israele e dagli USA agli stati arabi, è stata poi abbandonata in favore del rifiuto di ogni mediazione con Arafat e di una brutale aggressione dell'esercito d'occupazione che sembra avere come unico sbocco possibile il genocidio del popolo palestinese.
Gli interessi a che ciò prosegua, purtroppo, sono molto forti e vanno dal disegno imperialista degli USA, che ha nella zona mediorientale un centro nevralgico di fondamentale importanza, agli interessi del capitalismo mondiale, che ha nel traffico di armi il suo punto di forza, a quelli di un fondamentalismo islamico (Hamas, Jihad islamica, ecc.) che continua a trarre grossi profitti dal suo decennale rapporto di odio-amore con il governo di Washington. Inoltre, ad aggravare la situazione, quel fenomeno che sembra essere al tempo stesso causa ed effetto di ogni guerra: la scia di nazionalismo razzista e di cultura di morte e sopraffazione che i bombardamenti e le esecuzioni lasciano dietro di sé fra chi sopravvive. Nel caso specifico ciò si traduce nel sostengo dato da gran parte dell'opinione pubblica israeliana alla politica criminale di Sharon, giustificata in nome della vendetta dagli attentati dei kamikaze palestinesi, e nella crescente adesione da parte palestinese all'idea che sia giusto farsi saltare in aria per uccidere il maggior numero possibile di israeliani. Si potrebbero giustificare tali comportamenti con l'esasperazione dovuta alla perdita delle proprie persone più care e alla rabbia dovuta a decenni di insopportabile oppressione ed in parte, forse, è giusto farlo. Tuttavia ciò non è sufficiente in quanto non spiega come tali schieramenti filo-palestinese (dunque anti-israeliano) e filo-israeliano (ossia anti-palestinese) monopolizzino il dibattito anche fra chi assiste alla tragedia da una posizione che dovrebbe consentire maggiore lucidità mentale. Non riesco ad azzardare una spiegazione di questo fenomeno e forse una causa unica non esiste (non tutti quelli che condividono un'idea vi sono giunti per le stesse motivazioni) ma mi piacerebbe capire il perché si ritenga necessaria la scelta di una di queste due posizioni. 
A mio parere, ciò che deve fare, chiunque abbia la sensibilità per capire che questo non è un problema di altri ma di ogni abitante della terra, è tentare di interrompere il circolo vizioso generato dalla creazione di entità astratte (popolo, nazione, razza, stato) che consentono di scaricare le responsabilità di alcuni su una categoria di persone estranee all'atto che in noi genera rancore e odio. Se è vero, infatti, che è giusto combattere tutto ciò che viene fatto in nome nostro (della "nostra" religione, del "nostro" stato o del "nostro" popolo) in cui non ci riconosciamo, è anche vero, però, che la responsabilità di ogni atto resta di chi lo compie e che non è sufficiente convivere con degli usurpatori per esserne considerati complici. Ogni uomo è il risultato dello sfruttamento dei suoi governanti e il popolo di una nazione è la somma degli uomini che vivono nel territorio su cui costoro decidono di governare. Pertanto non è più ragionevole addossare le colpe del governo israeliano agli israeliani di quanto non lo sia il ritenere responsabile tutta l'umanità.
Quindi, se "prendere una posizione politica" in merito al conflitto israelo-palestinese significa schierarsi con gli israeliani o con i palestinesi, io una posizione politica non la ho e spero di non averla mai in merito ad alcuna guerra: non perché abbia paura di schierarmi o perché aspetti di acquisire maggiori informazioni storiche in merito, né per disinteresse verso ciò che non è "anarchico" ma perché non credo nell'esistenza di tale dualismo. 
Ho qualche dubbio sul carattere laico dell'Intifada, generato, ad esempio, dall'apprendere che il figlio, recentemente ucciso in un agguato israeliano, del leader del FPLP (orga-nizzazione marxista, quindi laicissima) si chiamasse Jihad. Tuttavia non ho esitazioni a schierarmi con l'Intifada e contro l'esercito di occupazione. Neppure il fenomeno dei riservisti israeliani mi è del tutto affine da un punto di vista ideologico: è da servitori della Patria e da credenti in Dio che la maggior parte di essi si rifiuta di massacrare palestinesi e quindi tale movimento non è né antimilitarista né tantomeno anarchico. Tuttavia la mia solidarietà verso chi, nonostante la repressione carceraria, si rifiuta di obbedire agli ordini militari e diserta è incondizionata. Non so nulla riguardo agli israeliani morti negli attentati dei kamikaze e non mi interessa sapere se e per chi avessero votato: la mia condanna dell'attentatore è totale e non riesco a non stare dalla parte delle vittime di un gesto così vigliacco.
A chi pensa che sia sterile prendere queste posizioni senza inquadrarle in un contesto più ampio che sfoci in un comportamento volto a realizzare le proprie aspirazioni, rispondo che tale contesto, per me, è rappresentato dalla lotta fra oppressi e oppressori e non da quella fra israeliani e palestinesi. In tale lotta, a mio giudizio, gli attentatori suicidi, Hamas, l'ANP, Bush, Sharon, Arafat, gli stati (arabi e non, esistenti e in divenire) sono dalla stessa parte. Sono d’accordo con chi sostiene che la politica di Sharon sia la principale causa del fenomeno dei kamikaze di cui oggi viene incolpato Arafat e che ciò serva da pretesto per poter definitivamente annientare l'ANP. Probabilmente è anche vero che l'unico modo per interrompere lo sterminio è rappresentato da un (attualmente utopico) accordo Sharon-Arafat che riproponga i termini dell'accordo Rabin-Arafat del '94. Tuttavia ciò significa soltanto ammettere la disparità fra le forze in campo e la propria impotenza di fronte al massacro, ma non deve servire a giustificare nessuno né obbligare a schierarsi in un esercito piuttosto che in un altro. Resta la natura dello scontro fra ANP e Esercito Israeliano: una lotta, a spese del popolo israelo-palestinese, per definire modi e limiti dello sfruttamento delle "proprie" popolazioni. La naturale simpatia che in genere suscita in me, fra due contendenti, la parte più debole, non è sufficiente a sposare la causa di chi ha ripetutamente tradito le aspirazioni di un popolo che dice di rappresentare. Né riesco, in nessun modo, a giustificare chi, facendosi saltare in aria in un ristorante, uccide decine di persone per compiere un gesto puramente dimostrativo. Valuto questo gesto, pur nel rispetto del dramma personale da cui è mosso, del tutto analogo a quello del soldato israeliano che stermina, per odio vendicativo, una famiglia palestinese: cambiano i mezzi a disposizione, non il valore dell'atto. In conclusione, a mio avviso, chi continua a difendere le ragioni di un popolo piuttosto che di un altro si fa portatore di un ideologia che della guerra è la causa e non la via d'uscita e ciò da ancor più fastidio se viene da chi non corre nemmeno il rischio di rimetterci la pelle. Rivendico quindi la mia possibilità di pensare e agire su un piano diverso, che non ha niente a che vedere con confini politici e geografici e che è, a mio parere, necessario alla pace più di quanto non lo siano le trattative tra i vertici gerarchici internazionali. Tale piano è costituito dall'abbattimento di quelle sovrastrutture mentali (stato, razza, nazione, religione, ecc.) all'interno delle quali non vi è possibilità per l'uomo di concepire la pace, essendo queste la causa di intolleranza fra persone che di diverso ed intollerabile hanno solo i propri oppressori.

Rocco


 

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