Genovamente modificati
Un anno fa circa partimmo per Genova. Due anni prima, a Seattle, era partito un movimento di contestazione all'esistente capitalistico e statale come non se ne vedevano da tempo, un movimento che aveva preso di sorpresa gli Stati e le polizie di tutto il mondo, oramai abituati a pensare che niente e nessuno, salvo pochi derelitti, potesse pensare di mettere seriamente in questione le magnifiche sorti e progressive del libero mercato e della liberal/democrazia. Il movimento invece era sorto, era cresciuto, esprimeva finalmente la voce di rivolta verso l'impoverimento politico, economico e culturale generalizzato che l'esistente portava con sé. Riaffermava, sia pure in mezzo a mille anime e contraddizioni, l'idea che fame, miseria, malattie endemiche, guerre, oppressione fossero l'essenza del presente, un presente tutt'altro che inevitabile: un altro mondo era possibile, e lottava di nuovo per esso. Il fatto poi che la teoria e la prassi anarchica, la sua pratica sociale e di critica radicale, fossero stati la molla scatenante di questo movimento e divenute parti a pieno titolo del suo immaginario collettivo, ci rendeva orgogliosi. Gli Stati, però, e gli U.S.A. in testa, non erano rimasti a guardare.
Presi di sorpresa all'inizio, non ci avevamo messo molto a scegliere la strada di un repressione sempre più feroce contro chi osava mettere in dubbio la superiorità gerarchica di chi si rinchiudeva nelle varie "zone rosse", ed affermava invece la volontà di contestarne il dominio, a partire dall'infrangere i divieti che i potenti del mondo disseminavano nelle città che occupavano militarmente per i loro incontri.
Summit dopo summit, le polizie del pianeta davano vita ad una strategia di repressione militare sempre più violenta e selvaggia. Non gli interessava oramai più disperdere le folle sempre più numerose di manifestanti: occorreva terrorizzarli, evitare la crescita ulteriore del movimento, creare spaccature.
A Napoli la cosa si era fatta, per noi italiani, manifesta: la polizia che chiudeva la piazza senza lasciare alcuna via di fuga, che impediva l'uscita dalla piazza a chiunque anche prima dell'inizio degli incidenti ("abbiamo l'ordine di tenervi rinchiusi qui dentro"), che infine si dedicava al pestaggio generalizzato e diffuso, giungendo poi anche al sequestro delle persone negli ospedali dove si erano fatte ingenuamente ricoverare. Genova fu ancora peggio. Non che non ce l'aspettassimo, ma la morte di un ragazzo in cerca di una via di fuga dall'accerchiamento e colpevole solo di aver sollevato un estintore lanciatogli contro, ci bruciò e ci brucia dentro; le cariche senza ritegno del giorno dopo, nonché la storiaccia di Bolzaneto, furono sale sulle ferite. L'essenza dello Stato, dopo Genova, è oramai nei nostri corpi e nelle nostre menti.
Ora ritorniamo a Genova, con la volontà d'essere il vento che non si può fare ostaggio. Ci ritorniamo con i nostri desideri, le nostre speranze in un mondo nuovo possibile che portiamo dentro i nostri cuori, con la nostra intelligenza di sfuggire alle trappole del potere, di continuare la strada di un movimento di massa che, accettando e facendosi forza delle proprie diversità, lasciandole spazio e possibilità d'agire senza disturbarsi a vicenda ma, al contrario, rinvigorendosi reciprocamente, riprenda quella strada che una pallottola per niente vagante voleva chiuderci per sempre.
Shevek
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