Numero 4 - Settembre 2002 - Anno 1

Il potere della parola


C’è bisogno di dialogo. Perché ci sia dialogo, bisogna che vengano rispettate alcune condizioni: parità e reciprocità. In che consiste la reciprocità? Essa consiste nello scambio della parola, del gesto e si situa all'interno del campo simbolico condiviso dai due dialoganti.
Ma c’è un limite alla reciprocità, ed è l'insostituibilità. L'insostituibilità è il limite contro il quale va a cozzare l'idea di aiuto e la capacità "di mettersi al posto di". Non ci si "mette al posto di". In ogni caso, "mettersi al posto di" non significa occupare il posto dell'altro. Sarebbe come scacciarlo dal suo posto. Si può raggiungere il posto dell’altro, ma senza sostituirlo. Nel dialogo, oltre alla reciprocità e al rapporto paritario, è presente il disporsi dei dialoganti all'apertura. L'altro dà senso alle mie parole, ascoltandomi.
Chi mi ascolta mi fa capire di fidarmi di lui. La fiducia è la terza condizione del dialogo.
Non c’è reticenza nelle parole, né nei gesti. L’altro viene visto come un interlocutore al quale affido me stesso. Nel dialogo mi espongo, ma nell’espormi non perdo nulla, perché l’altro con la sua sollecitudine diventa - per usare una metafora - "il nido in cui posso far dormire il mio essere". Stesso discorso vale per il corpo. 
Chi dialoga lo fa spontaneamente. Non ha bisogno di essere "sollecitato" o motivato. Se non lo fa, soffre. Il silenzio diventa una tortura. Si ha bisogno di parlare con l’altro perché dell’altro ci si fida. Perché so che mi ascolta e mi offre il suo sostegno. 
Ci sono luoghi dove la parità e la reciprocità tra i dialoganti non sono permesse: il carcere, l’aula di un tribunale, il manicomio, i luoghi di lavoro; e uomini, che per il ruolo che rivestono, non le ammettono :lo psichiatra, il giudice, il datore di lavoro. Il giudice, ad esempio, lascia che l'altro parli, ma non contempla la reciprocità. Il rapporto tra i due attori è asimmetrico. 
Esso va da A a B, ma non viceversa. L'asimmetria presuppone che uno dei due eserciti un potere sull’altro. Chi interroga vede nell’altro lo strumento per la ricerca di una verità "Oggettiva". Chi detta le regole è l’interrogante. All’interrogato spetta solamente il dovere di rispondere. Non può divagare, perché le domande sono poste in modo tale che l’interrogato risponda con un si o con un no. Il giudice è dominato dal sospetto.

Io so che se il giudice m’interroga vuole sapere da me la verità, e pur di arrivare alla verità non si preoccupa di usare tutti i mezzi a sua disposizione. Non gli importa della mia persona. Io non esisto come persona. Esisto in funzione dell’interrogante. La reticenza e la resistenza non sono ammesse. Il giudice vuole la trasparenza: non ammette zone d’ombra. Non accetta il silenzio. Il silenzio viene interpretato come resistenza alla "col-laborazione". Vuole soprattutto "chiarezza". Per lui A deve essere A. Chi interroga desidera fare scacco matto. È la vittoria sull’altro che lo eccita. Il controllo deve essere assoluto. In questi casi anche “la verità” è strumentale al potere.
Le parole che escono dalla sua bocca sono come delle frecce infisse nel corpo dell'interrogato.
Chi assiste all'interrogatorio, sa chi è l'interrogante (colui che esercita il potere) e l'interrogato (colui che lo subisce). La prossemica in questo caso ci viene in aiuto.
Lo studio dei corpi nello spazio ci fa capire molte cose.Molte sono le cose da notare, ma tre sicuramente sono quelle che mi piace ricordare:

a)la rigidità dei corpi. L'autorità non ammette altro schema corporeo che la rigidità.
b)la distanza. I capi non ammettono la vicinanza dei corpi... e quando lo permettono, lo concedono con riluttanza. Guardate tutti i grandi leaders, politici e religiosi. Accarezzano, ma si sa che mentono. Ridono, ma il loro sorriso esprime la maschera del potere.
c)lo sguardo. Chi detiene il potere guarda l'altro per controllarlo. Non ammette che gli sfugga alcunché. Ogni gesto viene ispezionato. L'altro parla anche con il corpo e chi interroga sa che il corpo può tradir(lo).
Lo sguardo del potere assomiglia allo sguardo della medusa: paralizza colui che lo incrocia.
Due sono i motivi che inducono l'interrogato a non incrociare gli occhi del "giudice":
a)la Paura.
b)la vergogna. 
Questo è l'obiettivo del potere . Per "Il giudice" non esistono innocenti.
Spesso la menzogna è l'unica arma per non farsi distruggere da colui che si atteggia a giudice. Tutto questo non avviene solamente in tribunale, di fronte al giudice, ma con tutte quelle persone che le percepiamo come "giudici". Possono essere i nostri genitori, i nostri colleghi e datori di lavoro, i nostro professori, i nostri amici.
Siamo sinceri: chi non ha mai mentito in vita sua? Tutti! Non c’è nessuno che possa dire : "io non ho mai mentito”. Chi dice: "io non ho mai mentito, mente". Questa frase vi ricorda qualcosa? Chi ha studiato filosofia, si ricorderà del paradosso del filosofo Epimenide.
Mentono anche gli animali. Che cos'è il mimetismo, se non un strategia intelligente che l'animale più debole mette in pratica per sfuggire al suo predatore?
Cosa fecero i nostri pro-genitori - Adamo ed Eva - di fronte alle accuse mossegli da Dio? Mentirono. E Ulisse? Che strategia usò per sopravvivere alla violenza di Polifemo? Mentì spudoratamente. 
La storia dell'uomo e degli dei è costellata dalla violenza (hybris) e dalla menzogna. Mente il bambino quando si sente osservato e redarguito dai genitori e dai maestri. Mente l'adulto quando non riesce a sostenere una situazione insostenibile. . Si mente nel mondo del lavoro; si mente nei salotti, nelle feste, nel rapporto col pubblico. 
Si mente a se stessi per arginare un senso di colpa che ci attanaglia. 
Chi siamo , noi, nella società? Siamo delle maschere. Che cos'è la maschera? La maschera è la parte inautentica del nostro essere. Se non ci fosse la maschera, saremmo nudi, trasparenti al mondo e indifesi. La maschera ci salva dall'invasione del mondo. 
Quand’è che ci togliamo la maschera?
In due occasioni:
a)nel sonno.
b)nella morte.
In tutti e due i casi si è esposti al mondo, senza difese.

Un filosofo ha scritto che si vive in una società in cui l'autenticità' è assente. Ma che cosa è l'autenticità'? Vuol dire essere se stessi? E che cosa vuol dire essere se stessi? 
Sono autentico quando appaio, o quando mi nascondo? Pirandello diceva che l'io è gli altri. 
Noi siamo gli altri. Siamo convinti che la nostra personalità sia unica, dura e opaca come il marmo, mentre dobbiamo imparare a rappresentarcela come un diamante dalle infinite sfaccettature. Ma vengo al tema che mi preme maggiormente. 
Se è vero che mentiamo, lo facciamo per non cadere preda dell'altro. In un certo senso la menzogna, in certe occasioni, è l'unica arma di difesa a nostra disposizione.
Di fronte al giudice siamo costretti a dimostrare la nostra innocenza. Ma come? Dicendo la verità....dicono alcuni. Non sempre: la verità la si dice quando non si ha nulla da perdere e tutto da guadagnare. Coloro che mentono, cercano di salvarsi da chi momentaneamente sta esercitando il potere su di loro. Tra i due nasce una lotta: il risultato non è a somma zero.

La strategia dell'interrogato consiste nel far credere che la risposta contenga la verità. Più uno è padrone di se stesso, più possibilità ha di scamparla. È come una partita a scacchi. Il giocatore deve anticipare ed immaginare le mosse dell'avversario. Ma in questo caso la lotta è impari, perchè le regole del gioco sono dettate da colui che decide il gioco. Non è affatto vero che chi mente ha le gambe corte. Anzi, è il contrario: Chi mente ha molta immaginazione. La stupidità basta a se stessa, non rinvia ad altro fuori di sé. È opaca. Mentre chi "mente", deve usare immaginazione e intelligenza.
La letteratura, scriveva un grande studioso inglese, è l'arte della menzogna. Attenzione: io non sto facendo l'apologia della menzogna. So che l'autenticità esiste, e che esistono l'empatia, la solidarietà, la lealtà, la reciprocità, l'amicizia e l'amore. Dico solamente che non bisogna atteggiarsi ad "anime belle".
La menzogna viene considerata una strategia dal punto di vista di colui che rischia di cadere vittima del potere, ma diventa immorale quando ci si serve di essa per manipolare i nostri simili. E qui tocchiamo la malafede. 
Se la menzogna è uno strumento di "difesa" contro chi ci minaccia, che cosa possiamo dire della menzogna nella vita quotidiana, con persone alla pari, che ci vivono accanto? Uomini e donne che non hanno potere su di noi, ma che trattiamo alla stessa stregua con cui i detentori del Potere trattano noi.
Un autore che ha trattato il problema della menzogna e del malinteso, è il filosofo Vladimir Jankèlevitch. 
Nel suo libro "La menzogna e il malinteso", ci mostra la pervasività della menzogna e del malinteso nei nostri rapporti con l'altro. Secondo Jankelevitch: "La vera punizione dei ciarlatani è la perdita della loro ipseità: dal momento che non sono nè ciò che sono e che seppelliscono nel silenzio, nè ciò che gli altri credono che essi siano e che in realtà sono per truffa, bisogna concludere che essi non siano più niente.
Sono delle anime in pena, delle coscienze spettrali, e immagino che l'amore e la stessa ammirazione che gli altri eventualmente provano nei loro riguardi è un amore che fa male, perché si indirizza non alla loro ipseità, ma al ruolo che assumono". 
Raoul Kirchmayr, nella sua recensione al libro, scrive:
"Il filosofo si chiede come si possa uscire dal circuito perverso della menzogna. In questo caso è qui che l'altro assume un'importanza fondamentale nello smascherare la menzogna. L'altro, intervenendo nella nostra vita, contesta la nostra falsa identità. Con il suo intervento rende possibile "una conversione alla spontaneità e alla verità", che è il fondo della "serietà dell'esistenza".
Jankelevitch ci tiene a precisare che non si tratta di smascherare la menzogna dell'altro con un gioco raffinato, quanto di mettere "fuori gioco" la doppiezza in cui l’altro si è da se stesso lasciato irretire. 
"In questa sospensione dell'economia della menzogna si deve appunto riconoscere il gesto etico per eccellenza, quello che Jankeletvich chiama "amore". Con la parola "amore" il filosofo ci rimanda a un’altra esperienza che è il malinteso." Il rapporto con l’altro è contrassegnato dalla finitezza e dalla fragilità. Si tratta di ritrovare l’altro nel pericolo costante e mai superato di una sua perdita.
Per R.Kirchmayr, Jankelevitch ravvisa tutta la portata di un gesto etico che mette in discussione "le forme cristallizzate con cui la nostra identità si è cristallizzata".

Malega


 

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