Disertiamo ! ! !
Non passa ormai più un giorno senza che radio, televisioni e giornali mettano in guardia la popolazione dal pericolo che corrono le nostre "libertà democratiche" a causa dei propositi di distruzione di Saddam Hussein. Scomparso dalla scena Bin Laden, è contro il leader iracheno che adesso bisogna combattere, pronti a tutto in nome della Patria: pronti ad accettare la finanziaria di guerra, i licenziamenti dovuti alla crisi economica, il restringimento delle libertà individuali, il sospetto nei confronti dello straniero e i morti ammazzati che, purtroppo, non si possono evitare. Si ripropone, con una ciclicità che sarebbe noiosa se non incidesse così radicalmente sulle nostre vite, la solita strategia terrorista dello stato: la creazione mediatica di un nemico pubblico in grado di insinuarsi nelle coscienze e paralizzarle mentre il potere è libero di scagliare la sua offensiva. Tuttavia, senza voler apparire eccessivamente ottimista, mi sembra che questa volta la campagna volta a creare consenso alla guerra stia incontrando qualche difficoltà in più rispetto al passato, grazie ad una diffusa e relativamente facile da raggiungere contro-informazione riguardante l'imminente attacco all'Iraq.
Sta infatti prendendo sempre più piede, anche in ambienti non esattamente "sovversivi", la convinzione che tale attacco non abbia niente a che vedere con la difesa di ideali umanitari minacciati dal fondamentalismo islamico né con la paura di eventuali armi di distruzione di massa in possesso di Saddam Hussein, ma sia, piuttosto:
1) l'effetto degli interessi legati al petrolio (di cui l'Iraq è il secondo produttore al mondo dopo l'Arabia Saudita) e al traffico di armi;
2) la volontà di reagire alla crisi economica mostrando minacciosamente le enormi potenzialità militari americane ai capitalisti degli altri paesi qualora questi avessero l'intenzione di metterne in discussione l'egemonia globale.
Tralasciando le esternazioni degli ex-sostenitori della guerra nei Balcani della sinistra italiana e quelle, in piena campagna elettorale, del cancelliere tedesco Schröder, all'improvviso scopertosi oppositore della guerra, fanno un certo effetto dichiarazioni "anti-americane" da parte di personaggi come Scott Ritter (alto ispettore delle Nazioni Unite per il controllo degli armamenti in Iraq) e Rolf Ekeus (ex direttore esecutivo della commissione speciale dell'ONU per il monitoraggio del disarmo non convenzionale iracheno UNSCOM).
In un'intervista che risale al 23 Luglio, Ritter dichiara: "Non ci sono prove che giustifichino la guerra. Non lo dico come pacifista o come qualcuno che abbia paura della guerra. Sono stato nei marines". Ritter esclude la possibilità che il potenziale bellico iracheno costituisca una minaccia e afferma che, per il riarmo, gli iracheni "dovrebbero ricominciare da zero perché non hanno più fabbriche, dato che le abbiamo distrutte". Inoltre egli ricorda che "gli ispettori ONU non sono mai stati cacciati dall'Iraq ma sono stati richiamati dall'ONU dopo la scoperta che venivano usati come copertura per operazioni di spionaggio americane".
A rincarare la dose, a pochi giorni dalle dichiarazioni di Ritter, c'è stata un'intervista rilasciata alla radio svedese dal diplomatico Rolf Ekeus, che denuncia le pressioni statunitensi sugli ispettori affinché indirizzassero le proprie indagini sui servizi di sicurezza iracheni e sulla persona di Saddam Hussein (anziché sulla costruzione di "armi non convenzionali").
Tuttavia le delucidazioni più chiare per chi abbia intenzione di comprendere le motivazioni di questa guerra vengono direttamente dall'entourage della Casa Bianca e sono contenute in un documento risalente a due anni fa (quando Bush non era ancora presidente) pubblicato sul settimanale scozzese Sunday Herald il 15 Settembre di quest'anno. Il testo, dal titolo "Rebuilding America's defences: strategies, forces and resources for a new century", è opera del PNAC (Project for the New American Century), un gruppo di potere della destra americana al cui interno ritroviamo personaggi come Dick Cheney (attuale vicepresidente), Donald Rumsfeld (attuale segretario alla difesa) e Jeb Bush (fratello di George). Si tratta di un "progetto per conservare la preminenza globale degli Stati Uniti, impedendo il sorgere di ogni grande potenza rivale e modellando l'ordine della sicurezza internazionale in modo da allinearlo ai principi e agli interessi americani". In esso si afferma, senza tanti giri di parole, che "gli Stati Uniti hanno cercato da decenni di svolgere un ruolo più permanente nella sicurezza regionale del Golfo" e che "mentre il conflitto con l'Iraq fornisce una giustificazione immediata, l'esigenza di avere una sostanziosa presenza delle forze americane nel Golfo va oltre il regime di Saddam Hussein". Si prevede, in questo documento, oltre all'attuale guerra all'Iraq, un futuro tutt'altro che rassicurante: "Il combattimento si svolgerà in nuove dimensioni, nello spazio, nel cyberspazio, forse nel mondo dei microbi…forme avanzate di guerra biologica in grado di prendere di mira genotipi specifici potranno trasformare la guerra biologica dal mondo del terrorismo in un'arma politicamente utile". Penso che nessun rivoluzionario sia in grado di spiegare quanto l'attuale sistema di dominio sia portatore di morte e distruzione con parole più chiare di quelle usate dai più "autorevoli" rappresentanti del sistema stesso.
Credo, insomma, che la diffusa opposizione all'ennesima guerra del Golfo sia stata generata dai discorsi di Bush e Blair (che hanno esplicitamente teorizzato l'"attacco preventivo" come soluzione dei conflitti) più che da quelli di Chomsky. Da un punto di vista logico, per giustificare la loro guerra, il concetto di attacco preventivo era l'unico utilizzabile: sostenere, infatti, che Saddam stesse per attaccare, oltre che inverosimile, avrebbe significato ammettere l'inutilità di aver ucciso in dieci anni di embargo, un milione di iracheni (lo scopo, per quanto sembri illogico, doveva essere quello di impedire al leader iracheno di costruire armi di distruzione di massa). Fatto sta che l'aver espresso Bush il suo sacrosanto diritto ad attaccare chiunque venga da lui considerato un potenziale nemico preoccupa un po' tutti (eccetto Blair, Berlusconi e pochi altri). Penso che il tema della sopravvivenza alla volontà di dominio di una classe politica la cui aggressività è sempre più manifesta , possa essere alla base di una vasta mobilitazione. I segnali di questa mobilitazione sono già presenti nella preparazione dei due prossimi appuntamenti del movimento no-global (il 5 ottobre le manifestazioni di "cento città contro la guerra" nelle piazze delle principali città anticiperanno i contenuti della grande manifestazione internazionale del 9 novembre che si terrà a Firenze al termine del Forum Sociale Europeo) e di quello del 18 ottobre del sindacalismo di base (COBAS, CUB, S.in.COBAS, SLAI COBAS e USI-AIT) che, per quella data, ha proclamato uno sciopero generale su una piattaforma unitaria e alternativa alla CGIL il cui primo punto è costituito, appunto, dal rifiuto della guerra da parte dei lavoratori. In questo quadro deve, a mio avviso, inserirsi il lavoro degli anarchici, volto a diffondere un antimilitarismo che non sia episodico e legato alla contingenza di questa o quella guerra ma che sia rifiuto di un'organizzazione della società fondata sull'oppressione e sul dominio che, come tale, della guerra non può fare a meno. Un rifiuto che abbia come conseguenza il rilancio dell'azione diretta antimilitarista: disertare e sabotare tutti gli strumenti di oppressione nelle mani dello stato che (è banale, ma non lo si dirà mai troppe volte) smetteranno di opprimere non appena non troveranno più alcuno che gli presti obbedienza.
Ruòk
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