La guerra & la delega
Siamo in guerra. Una guerra mai dichiarata nella quale, però, siamo immersi, da quando siamo nati, a causa di chi ha preteso e pretende di imporci una vita regolata da ciò che tanti chiamano "ordine". L'esercito, il carcere, lo sfruttamento e la povertà costituiscono i tratti essenziali di quest'ordine e, quindi, la guerra non avrà fine fintanto che esisteranno militari, carcerieri e padroni.
Fino ad allora l'aspirazione alla pace dovrà necessariamente risolversi nella guerra a questi dominatori, con i quali nessun dominato può dirsi "in pace". Fino ad allora, la pace, come entità astratta in cui credere, resterà roba per i preti ed i filosofi. Per noialtri, sarà qualcosa da ricercare giorno per giorno mentre viviamo, che ci piaccia o no, in guerra. Non ci si può sottrarre a questa ricerca pensando che essa dipenda da chi ha i mezzi per decidere in una direzione piuttosto che in un'altra: ognuno decide con i mezzi che ha e nessuna scelta è indifferente.
Se, ad esempio, è vero che gli attacchi militari su una zona ricca di petrolio saranno sempre determinati dalla volontà di pochi potenti, è pur vero che la possibilità che tali potenti avranno di disporre di un esercito sarà sempre subordinata al consenso di una somma di individui della quale ciascuno di noi è un addendo non trascurabile. Ci si può rassegnare all'idea della guerra, questa è una scelta, ma non si può desiderare la pace e aspettarsi che essa venga calata dall'alto da una volontà superiore. Delle due una: o si crede che chi ammazza, sfrutta e opprime possa, in qualche modo, beneficiarci (e allora è giusto impegnarsi per "partecipare" al potere), oppure si avverte che l'offensiva di costoro è rivolta contro di noi (e allora è naturale ribellarsi). Non ha senso fingere di essere obbligati a riporre speranze di pace in questo o quel capo di stato poiché non ha senso delegare se si è costretti a farlo. La delega è, per definizione, qualcosa di volontario e la volontà di delegare non può che essere volontà di partecipare al potere, di accettarne le scelte e di porsi al servizio di queste. La partecipazione, come la delega, legittima le scelte di guerra ma non può in alcun modo contrastarle essendo interna ad una logica, quella del potere, che ha nella guerra uno sbocco necessario.
Chi sostiene la necessità di istituzioni come il carcere, l'esercito o la polizia non può farlo in nome della sua incapacità a distruggerle ma deve, nella migliore delle ipotesi, manifestare la sua volontà di non occuparsi di faccende "sporche" come la guerra, la repressione o le risposte a comportamenti anti-sociali. Il punto è che, fin quando vi saranno guerra, repressione e comportamenti anti-sociali, nessuno può pensare seriamente di non occuparsene.
Confidare in governanti, militari e poliziotti è già un modo di occuparsene e, comunque, sarebbe davvero stupido pensare di risolvere qualsiasi problema evitando di prenderlo in considerazione.
A governanti, militari, e poliziotti si può chiedere la grazia (anche se la storia insegna quanto ciò sia superfluo) ma non si può chiedere di smettere di imporre la violenza, la guerra, il carcere. Insomma, gli oppressori o si combattono oppure si spera che rivolgano la propria volontà di dominio verso altri oppressi, lontano dalla propria persona. Nel secondo caso è sciocco (e penso sia contrario all'istinto di sopravvivenza) affidarsi al fato: occorre mostrarsi disponibile a sostenere l'oppressione ed eventualmente contribuire. Per questo, fra anarchici, si sente spesso dire di non essere "con la pace": per la consapevolezza che un partito della pace non può esistere, dovendo necessariamente coincidere la pace dei governanti con la guerra agli oppressi. La specificità degli anarchici in ogni guerra penso consista nella volontà di non delegare istanze di pace a nessuno specialista del settore essendo questo, proprio in quanto specialista del settore, interessato al permanere della guerra. La diserzione e l'antimilitarismo anarchico nascono perciò, a mio avviso, non dal rifiuto della violenza (rifiutare la violenza è come rifiutare i terremoti o la grandine), ma dalla coscienza di essere uomini dotati di volontà e non strumenti nelle mani di qualcuno. Disertare la guerra significa, dal mio punto di vista, rifiutare il meccanismo della delega nel suo aspetto più offensivo della dignità umana, ossia quello per cui si accetta di affidare a capi di stato, generali e mass-media il compito di "suggerirci" chi sia il nemico con cui scannarci, quale sia la causa giusta per cui immolare noi ed altri.
L'esercito è il luogo che meglio incarna il principio gerarchico su cui è fondato l'attuale ordinamento sociale e, quindi, meglio dimostra quanto tale principio sia fonte di abbrutimento e distruzione. Proprio per questo, però, è il luogo in cui tal principio può più facilmente essere attaccato nel suo punto debole: la gerarchia, per essere tale, ha bisogno di essere riconosciuta mediante consenso, delega, partecipazione.
È, quindi, sottraendo al potere questi elementi di dominio, non certo aspirando ad essi, che ci si può opporre al militarismo, senza trovarsi dalla stessa parte di chi un giorno fa la guerra nei Balcani e l'altro manifesta contro l'attacco all'Iraq. Perciò, l'opposizione alla guerra non significa niente se è slegata dall'opposizione ad ogni forma di gerarchia e di cogestione del potere. Inserire tale tema all'interno del conflitto sociale non può quindi fare a meno di coinvolgere la nostra critica a tutti gli aspetti dell'attuale organizzazione della società che sono fonte di gerarchizzazione e dominio: dal carcere alla fabbrica, dalla chiesa all'esercito, dalla scuola al parlamento.
Da anarchici, non possiamo aprioristicamente limitare il nostro raggio d'azione ad un settore in cui pensiamo possano avere maggior credito le nostre istanze di orizzontalità, a meno di non voler relegare l'aspirazione ad una società radicalmente diversa alle discussioni teoriche su un futuro post-rivoluzionario che ci si rassegna a non vedere mai, in altre parole, a meno di non cessare di essere anarchici.
Ruòk
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