Numero 6 - Novembre 2002 - Anno 1

Nuovo antimilitarismo


Fotografia della situazione odierna del militarismo.
Negli ultimi cinquant’anni la guerra è cambiata moltissimo non solo perché si è sviluppata, diventando quasi soltanto tecnologica, ma soprattutto perché è cambiata la strategia della guerra: da conflitti vasti, alla fine mondiali, si è passati a piccole guerre locali, in cui quasi sempre sono stati coinvolte alcune delle nazioni più industrializzate, continuamente spostate sullo scacchiere mondiale. Una specie di Risiko dove una o più tra le nazioni maggiormente militarizzate hanno scatenato via via focolai locali che si sono accesi e spenti in continuazione. 
Per riuscire in questo gioco virtuale è diventato comune l’uso e l’appoggio di “personaggi locali”, appoggiati, armati, rafforzati per ottenere la destabilizzazione della zona, salvo poi, quando gli stessi non sono più utili e diventano ingombranti o semplicemente il gioco cambia, demonizzarli, ricominciando da capo con qualcun altro. Certo è molto più salubre e soprattutto porta meno ostilità alla guerra da parte della popolazione un focolaio lontano che non coinvolge poi troppo, che spesso non si nota, tanto più che la guerra tecnologica moderna tende, per sua natura, a fare molte più vittime nella popolazione civile che tra i militari.
Considerando poi che dagli eserciti di leva, nei paesi industrializzati, si è passati sempre di più ad eserciti professionali, si capisce che questa è una strategia vincente per soffocare l’opposizione interna alla guerra.
In questo modo si è ottenuta, come ben la definisce Lourau nello “Stato incosciente” la curvatura del politico, lo Stato è riuscito ad ottenere la guerra continua facendola passare per pace permanente.
Inoltre la guerra sempre più tecnologica richiede forze armate professionali altamente addestrate, lontane dagli eserciti di leva e quindi tende a professionalizzare sempre di più i militari che diventano, anche se non di gran numero, una vera e propria casta all’interno dello Stato.
Di pari passo con il cambiamento della guerra sono cambiate le ideologie militaristiche la supportano: la più importante nonché pericolosa rimane la nuova definizione di guerra come missione umanitaria. E’ il massimo degli ossimori: la guerra diventa missione umanitaria come se fosse possibile imporre la pace o anche meglio se la forza delle armi potesse diventare, per un colpo di bacchetta magica, lo strumento per il bene di chiunque. Un’evidente divisione tra fine e mezzi utilizzati che mostra la sua realtà di ideologia di pura giustificazione.
Un’altra ideologia che, delle cosiddette guerre umanitarie, è il contraltare logico, è l’utilizzo, da parte degli stati poveri e delle ideologie fondamentaliste, che non sono in grado di gestire, né hanno i mezzi economici per avere la nuova tecnologia militare, di azioni di commando, supportate da un esercito organizzato sotto forma di cellule militarizzate ed esportate in tutto il mondo che così riescono a colpire anche con pochi mezzi. Anche se sono state mutuate dalla resistenza e dalla guerriglia, in realtà non ne sono né figlie, né parenti. Sono la nuova forma militare di chi non ha i mezzi per la guerra tecnologica.
Al di sotto delle ideologie rimane fondamentale il rapporto fra economia e militare che risulta sempre più evidente dopo la caduta dei blocchi politici che dividevano il mondo in due schieramenti. 
Allo stato attuale dei fatti non è più la politica ad avere il ruolo dominante nei blocchi e negli equilibri, ma l’economia: sono gli interessi economici che definiscono le nuove alleanze. Le potenze militari devono intervenire in ogni situazione a rischio che possa portare ad una modificazione degli equilibri. Così gli stati più poveri e con il più alto debito si devono armare non solo per proteggere gli interessi meramente nazionali, ma anche e soprattutto per diventare avamposti militari delle grandi potenze che barattano la promessa di aiuti alla ripresa con il ruolo di guardia armata degli interessi economici del grande capitale finanziario, ormai transnazionale. Ciò comporta da una parte il rinsaldarsi del mercato degli armamenti e dall’altra parte lo sviluppo di sempre nuovi conflitti in paesi non in grado di sostenere l’onere della ricostruzione con il risultato che la stessa diventa, di fatto, un affare lucroso per le grandi potenze. E’ nella stessa ottica che si può leggere l’apparente contraddizione degli organismi finanziari internazionali (FMI e BM) che, mentre non si fanno problemi ad esigere restringimenti della spesa pubblica nei paesi più poveri, sono molto più cauti a chiedere ridimensionamenti della spesa militare, in nazioni in cui questa è l’uscita più devastante sia economicamente sia socialmente. In stati distrutti dal punto di vista economico, con la spesa pubblica strettamente disciplinata, mentre le spese militari possono o addirittura devono andare alle stelle è ovviamente più facile impadronirsi della gestione delle risorse non rinnovabili e ottenere l’esportazione del modello di sviluppo occidentale che per quegli stessi paesi risulta essere devastante sia sotto il profilo economico sia sotto quello sociale, senza dimenticare che gli stessi così diventano bacini di mano d’opera a costo nullo o quasi.
Alla fine il cerchio si è chiuso: si vendono le armi prima, si ricostruisce poi, si distrugge il paese e si utilizzano le sue risorse, quelle non rinnovabili come quelle umane.

Nuovi metodi di intervento antimilitarista.
Con la necessità degli eserciti professionali e l’alto costo della nuova guerra tecnologica la leva diventa non solo obsoleta, ma soprattutto inutile e dispendiosa, perciò è stata o viene abbandonata da tutti i paesi più industrializzati. Di fronte a questa realtà l’obiezione totale ha perso la sua forza e non è più uno strumento utilizzabile per gli antimilitaristi. Ma se l’obiezione totale è diventata obsoleta, l’antimilitarismo non ha certo perso senso o attualità, anzi è diventato ancora più attuale proprio per i nuovi aspetti che ha assunto il militarismo. Bisogna ricercare quindi nuove forme per la lotta antimilitarista che siano in grado di essere comprese dalla popolazione. L’approccio libertario rimane l’unico coerente e spendibile perché non permette giustificazioni od opportunismo politico, come è successo a quei pacifisti di ieri, passati sul fronte guerrafondaio oggi, mostrando tutti i limiti della mancanza di una cultura realmente pacifista. Un pacifismo che si è lasciato abbindolare, nel migliore dei casi, dal nuovo volto umanitario e incruento del militarismo. Sabotare il militarismo in ogni sua forma, diretta e indiretta, è quindi necessario ed evita di limitarsi ai soliti appelli alla Pace che tutto dicono e ben poco producono.
La lotta antimilitarista deve quindi dotarsi di nuovi strumenti di cui il più importante è sicuramente la ricerca di nuove forme di comunicazione e di informazione soprattutto verso la popolazione, ma anche la visibilità degli interventi a livello locale e generale, proprio per poter essere la voce stonata dal coro osannante che, sempre più spesso, circonda gli interventi delle missioni umanitarie.

Circolo Libertario “Pasquale Binazzi”, La Spezia


 

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