Federalismo/Devolution e
diritti del lavoro. Il lavoro e le sue regole nella prospettiva federalista.
di M. Roccella
1. Il progetto di riforma federalista, approvato dalla camera dei deputati in prima
lettura il 26 settembre scorso, si colloca, per esplicita ammissione degli stessi artefici
della riforma, in un contesto istituzionale monco, che ne inficia in qualche misura la
credibilità e, comunque, compromette lorganicità del disegno di fondo. Mancano in
effetti quegli elementi di innovazione istituzionale che dovrebbero accompagnare la
trasformazione in senso federale della repubblica e sostanziarsi nella previsione di
meccanismi atti a bilanciare la devoluzione di più ampi poteri legislativi alle regioni.
Ed infatti resta inalterato, da un canto, il modello del bicameralismo perfetto,
nonostante vi sia larga convergenza sulla sua incompatibilità con un assetto di tipo
federale; mentre, dallaltro, lattribuzione di potestà legislativa alle
regioni su un arco assai ampio di materie e la contestuale soppressione dei poteri di
controllo preventivo esercitabili dal governo sugli atti legislativi regionali non sono
state accompagnate da un rafforzamento dei poteri di controllo della Corte costituzionale.
A questi rilievi di carattere generale, che potrebbero pur sempre essere superati in base
al rilievo che leventuale approvazione di questo primo spezzone di riforma
federalista non preclude la possibilità di perfezionare in futuro limpianto
complessivo, si devono aggiungere preoccupazioni specifiche, e non marginali, con riguardo
al modo in cui il progetto in questione affronta la questione del riparto di competenze
legislative fra Stato e regioni nella materia relativa alla disciplina dei rapporti di
lavoro.
2. Comè noto, a riforma approvata, lassetto federalista delineato
dal nuovo art. 117 della costituzione comporterebbe lindividuazione di tre gruppi di
materie. Da una parte si pongono quelle riservate alla competenza legislativa esclusiva
dello Stato; allestremo opposto quelle rispetto alle quali una potestà legislativa
parimenti esclusiva è attribuita alle regioni (esercitabile con riguardo "ad ogni
materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato"). Nel mezzo - ed
è questo, con tutta evidenza, il nodo problematico più rilevante - si colloca un terzo
gruppo di materie, definito di "legislazione concorrente", con riguardo alle
quali la potestà legislativa risulta devoluta alle regioni, col solo limite derivante
dalla possibilità per la legislazione dello Stato di intervenire sulle stesse attraverso
la determinazione dei relativi principi fondamentali. Rispetto a precedenti progetti di
legge, quello appena approvato dalla Camera sembrerebbe aver recuperato il linguaggio del
vecchio art. 117 cost. A più attenta lettura, peraltro, sembra difficile concludere che
si sia voluto riprodurre leguale nel diseguale: la cancellazione di ogni riferimento
al limite di esercizio della potestà legislativa regionale rappresentato
dallinteresse nazionale e da quello di altre regioni, secondo quanto prevedeva il
vecchio art. 117, conferma del resto che lenfasi sullattribuzione di
competenza alle regioni nelle materie di legislazione concorrente non è di mera facciata.
Si aggiunga, per completare il quadro, che, rispetto alle medesime materie, le singole
regioni potrebbero ulteriormente ampliare la propria sfera di competenze, previo
ottenimento di una sorta di statuto speciale (ovvero di "forme e condizioni
particolari di autonomia"), approvabile a maggioranza assoluta dalle camere con legge
ordinaria (sulla base di unintesa fra lo Stato e la regione interessata).
3. Non è difficile immaginare che nellarea di competenza concorrente potranno
verificarsi non infrequenti conflitti fra Stato e regioni, con esiti tanto più
imprevedibili e potenzialmente destabilizzanti per la tenuta complessiva del sistema,
quanto più elevata è la sensibilità sociale della materia coinvolta ed
incerta la linea di demarcazione fra potestà legislativa statale e regionale.
Con riguardo alla disciplina dei rapporti di lavoro,
in particolare, la ripartizione di competenze fra Stato e regioni appare tracciata in
maniera tuttaltro che limpida e, per questo stesso, tale da prestarsi ad
applicazioni profondamente distorsive. La questione, invero, potrebbe considerarsi aperta
e chiusa se fosse possibile concludere, in via interpretativa, che le regole in materia,
in quanto rientranti nellambito dell ordinamento civile,
continuerebbero ad essere riservate in via esclusiva alla legislazione statale. In tal
modo, non soltanto si manterrebbe inalterato, su una materia di evidente, cruciale rilievo
per la coesione sociale del paese, lattuale assetto di competenze; ma neppure si
contraddirebbe lo spirito federalista della riforma, che anzi ne risulterebbe
allineata alle indicazioni ricavabili dallesperienza dei paesi dellUnione
europea a struttura federale. Valga per tutti lesempio di un sistema federale di
lunga tradizione e perciò sicuramente meritevole di essere assunto come termine di
comparazione, come quello della Germania, ove è sempre stato preservato il carattere
fondamentalmente nazionale delle regole in materia di disciplina del rapporto di lavoro.
Fatto è che, su questioni così delicate, appare
del tutto sconsigliabile farsi scudo della sola interpretazione per sostenere una
soluzione piuttosto che laltra (o prepararsi sin dora, come pure si è già
sostenuto, a gettare la palla alla Corte costituzionale). Nel caso specifico, oltre tutto,
la preoccupazione nasce proprio dal fatto che le soluzioni prospettabili in via
interpretativa sono più duna. Si potrebbe sostenere, infatti, che, se vi fosse
stato lintento di attribuire alla competenza statale esclusiva anche la disciplina
dei rapporti di lavoro, non sarebbe mancata unindicazione espressa, così come
quella che è stata inserita nel testo approvato dalla Camera con riguardo
allimmigrazione. Per altro verso, resterebbe da spiegare quale rilievo normativo si
debba attribuire alla circostanza che nel gruppo di materie devolute alla competenza
legislativa concorrente delle regioni sia stata inclusa anche la tutela e sicurezza del
lavoro.
4. Sembra da escludere, in proposito, che con il riferimento alla tutela e sicurezza
del lavoro si sia voluto richiamare la sola disciplina del mercato del lavoro e le
politiche ad essa connesse. In questa materia, comè a tutti noto, con
lapprovazione del d.lgs. n. 469/97 sè già dato spazio, a costituzione
invariata, ad unampia devoluzione di funzioni alle regioni: un ulteriore
approfondimento di simile prospettiva potrebbe essere registrato senza particolari
preoccupazioni, ed anzi meriterebbe probabilmente di essere guardato con favore, potendosi
senzaltro ammettere che, a fronte dellerogazione di servizi pubblici, possa
istituirsi un nesso sempre più stretto fra responsabilità del soggetto erogatore e
potere di organizzazione dei servizi stessi. In questarea, in definitiva, vè
spazio per immaginare una competizione in positivo fra realtà territoriali differenti,
intendendo per tale la possibilità che i più elevati standards qualitativi di
servizio pubblico offerti da una certa regione possano fungere come una sorta di good
practice per le altre realtà territoriali, innescando comunque un meccanismo di
emulazione verso lalto.
Pare difficile, ad ogni modo, restringere il
concetto racchiuso nellespressione tutela del lavoro alla sola
disciplina organizzativa del mercato del lavoro, mantenendo la materia della regolazione
dei rapporti di lavoro nellambito dell ordinamento civile.
Laccostamento fra tutela e sicurezza del lavoro e
professioni induce a pensare, in primo luogo, che si sia voluto operare un
riferimento, rispettivamente, al lavoro subordinato ed a quello autonomo per ricondurli
entrambi nel novero delle materie di legislazione concorrente. Quanto alla materia della
tutela e sicurezza del lavoro, in ogni caso, lindicazione normativa
appare così ampia ed indeterminata da prestarsi, senza particolari forzature ed anzi del
tutto plausibilmente, a ritenersi estesa anche alla disciplina del rapporto di lavoro.
5. La gravità delle implicazioni connesse alla prospettiva di una frammentazione su base
regionale del diritto del lavoro non dovrebbe sfuggire a nessuno, né si può cercare di
esorcizzare le preoccupazioni in proposito bollando come tradizionale e
quindi, implicitamente, inadeguata e da relegare ai margini la visione del diritto del
lavoro come diritto di fonte statale (sotto altro profilo, del resto, da tempo alquanto
fuorviante, a fronte della sempre più penetrante influenza del diritto sovranazionale, di
origine comunitaria, sugli ordinamenti dei paesi membri dellUE). Il problema vero,
infatti, non è rappresentato dallalternativa centralismo v. decentramento
della fonte di produzione delle regole, quanto piuttosto dal fondamento razionale o, se si
preferisce, dallequità sociale del processo di differenziazione normativa.
Un processo del genere, invero, è da tempo in atto
nel nostro sistema di relazioni industriali e si è concretato attraverso unampia
devoluzione di poteri normativi alla contrattazione collettiva. Devoluzione ampia, ma non
incontrollata, né tanto meno di carattere generale. Alla regolazione di fonte collettiva,
infatti, non è mai stato consentito di intervenire, almeno finora, su questioni che
coinvolgano la tutela di diritti fondamentali, riservandosi in casi del genere alla norma
legale la funzione di fissare lo standard protettivo più adeguato (paradigmatico,
al riguardo, resta lesempio della disciplina dei licenziamenti). La delega di potere
normativo alla contrattazione, in secondo luogo, pur consentendo di affrontare con
notevole elasticità sia problemi di flessibilità in entrata, sia quelli di flessibilità
funzionale (con particolare riguardo alla gestione degli orari di lavoro), si presenta con
funzioni integrative, e non integralmente sostitutive, di un tessuto regolativo che, nei
principi di fondo, resta di fonte legale (basti pensare alle modalità del rapporto fra
legge ed autonomia collettiva in materia di contratti a termine o di part-time).
Decisiva, in terzo luogo, deve considerarsi la circostanza che larticolazione di
discipline realizzabile per via di contrattazione collettiva può, di caso in caso, essere
considerata discutibile, ma comunque risulta tarata sullobiettivo di adeguare la
disciplina uniforme alle condizioni dei mercati del lavoro settoriali, locali ed
aziendali, oltre tutto attraverso un meccanismo di regolazione per sua natura più
prontamente adattabile al mutamento delle situazioni concrete.
Lo scenario che lascia intravedere il progetto
approvato dalla Camera non sembra in alcun modo collocabile nel solco della nostra
esperienza ed anzi rischia di essere inteso come un invito ad azzerarla. Non vè
alcuna garanzia, infatti, che la futura produzione normativa regionale in materia di
lavoro si fondi sul riconoscimento della fecondità dellintreccio fra legge ed
autonomia collettiva, caratterizzante sinora il nostro ordinamento. Ciò che più conta,
ad ogni modo, è che la prospettiva dellarticolazione delle regole potrebbe prendere
corpo senza alcun rapporto con le condizioni locali del mercato del lavoro. In realtà
territoriali diversissime per struttura socio-economica, come la Lombardia e la Calabria
ad esempio, solo in ragione delleguale colore politico dei rispettivi governi
regionali potrebbe innescarsi un ampio processo di deregolamentazione, in grado di
incidere anche su aspetti fondamentali dellattuale disciplina dei rapporti di lavoro
(dalla protezione della maternità ai rimedi giuridici contro le discriminazioni di sesso,
dalle misure relative alla tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro a quelle
in materia di licenziamenti, solo per limitarsi agli esempi più eclatanti): con il più
che probabile effetto, oltre tutto, di promuovere una corsa al ribasso degli standards
protettivi, alimentando una sorta di competizione distruttiva, micidiale per gli equilibri
sociali del paese.
Né può rassicurare più di tanto la circostanza
che nelle materie di legislazione concorrente resta riservata alla legislazione statale la
possibilità di intervenire nella determinazione dei principi fondamentali. Si
tratta, naturalmente, di una clausola di salvaguardia importante, ma probabilmente
insufficiente: sia perché singole regioni, come già accennato, potrebbero ottenere con
semplice legge ordinaria uno statuto dautonomia ancora più accentuato; sia perché
il vincolo del rispetto dei principi fondamentali, almeno per quanto riguarda la materia
del lavoro, appare troppo general-generico e, dunque, inidoneo ad evitare che la
disciplina anche di istituti essenziali resti esposta ai più svariati colpi di mano.
La differenza fra organizzazione del mercato del
lavoro e regolazione del rapporto emerge, al riguardo, con tutta evidenza. Nel primo caso
si potrebbe spingere sul pedale del decentramento normativo, anche limitandosi, da parte
della legislazione statale, ad imporre il solo vincolo di predisposizione di un servizio
di collocamento pubblico e gratuito e criteri di larghissima massima per il suo
funzionamento e per quello delle agenzie private, in linea con le convenzioni
internazionali ratificate dal nostro paese. Nel secondo caso, viceversa, il rispetto dei
principi fondamentali dellordinamento potrebbe non costituire un serio ostacolo a
politiche di deregolazione. Nella materia, sempre altamente emblematica, dei
licenziamenti, ad esempio, anche alla luce della più recente giurisprudenza
costituzionale si potrebbe concludere che, a parte il "diritto dei lavoratori
a
ricorrere davanti ad un organo imparziale", il "criterio di fondo della
necessaria giustificazione del licenziamento" (Corte cost. 7 febbraio 2000, n. 46) è
lunico cui possa davvero riconoscersi il rango di principio fondamentale: restando
in questo modo percorribile a piacimento la strada che condurrebbe ad
unarticolazione su base regionale delle tutele.
Vale la pena di aggiungere che non convince neppure
linclusione della materia sicurezza del lavoro fra quelle di competenza
legislativa concorrente: le discipline in proposito, infatti, sono ormai largamente
dipendenti da scelte normative dellUnione europea, per la trasposizione delle quali
nellordinamento nazionale sussiste una responsabilità primaria dello Stato. Sembra
alquanto stravagante, dunque, che possano crearsi le condizioni di unapplicazione
differenziata da una regione allaltra delle direttive comunitarie in materia: tenuto
conto, oltre tutto, che ad essere chiamato in causa davanti alla Corte di giustizia, nel
contesto di uneventuale procedura dinfrazione, sarebbe sempre e comunque lo
Stato.
5. Se si volessero attribuire alle regioni più estesi poteri normativi nella materia del
lavoro, evitando al tempo stesso il rischio di incorrere in una disarticolazione del
sistema, vi sarebbe forse la possibilità di disegnare un modello alternativo, traendo
utilmente ispirazione dal diritto dellUnione europea, nellinterpretazione
datane dalla Corte di giustizia. Va ricordato in proposito che la Corte si è preoccupata
di precisare la portata del principio di sussidiarietà proprio nel contesto di una
controversia in materia di lavoro, evitando con cura di sostenerne una lettura atta a
conferire carattere residuale allintervento comunitario nellarea in questione;
ed ha aggiunto che dal sistema del Trattato non possono desumersi limiti
allintensità protettiva dellintervento regolativo comunitario, che può
dunque attestarsi anche su livelli particolarmente elevati: fermo restando il
riconoscimento della possibilità per gli Stati membri di "adottare norme più
rigorose di quelle che sono oggetto dellintervento comunitario" (Corte di
giustizia 12 novembre 1996, causa C-84/94, Regno Unito v. Consiglio). Adattando
tali criteri al rapporto fra Stati nazionali e comunità territoriali, non dovrebbe essere
difficile desumerne che il modo più credibile di coniugare nella materia del lavoro
unitarietà ed articolazione dei processi di produzione normativa, differenziazione delle
discipline e principio duguaglianza, dovrebbe comportare il mantenimento di
principio della competenza legislativa dello Stato, senza escludere a priori la
possibilità che, attraverso la legislazione regionale, possano essere assicurate tutele
rafforzate ai lavoratori.
6. Una prospettiva del genere, naturalmente, dovrebbe ruotare attorno ad un criterio di
competenza integrativa (e non concorrente); e servirebbe anche per mettere a nudo le
pulsioni liberiste che si celano a mala pena dietro tante professioni di fede federalista.
La maggioranza che si appresta a varare la riforma, daltro canto, non dovrebbe
essere insensibile allargomento, tradizionale ma di persistente attualità, che le
regole in materia di lavoro costituiscono una proiezione, sul piano della legislazione
ordinaria, della costituzione economica del paese. Sembra fondata, dunque, la
preoccupazione che la sola ipotesi che esse possano essere devolute alla competenza
legislativa delle regioni comporterebbe inevitabilmente unincidenza, seppur
riflessa, su quella parte prima della costituzione del 1948 che dovrebbe restare indenne
dalloperazione di revisione costituzionale. Sotto altro aspetto, non si può
trascurare che, in assenza di correttivi, il progetto approvato dalla camera rischierebbe
di mutare anche in maniera profonda il contesto entro il quale sarebbe destinata a
svolgersi lazione sindacale. Se è vero, infatti, che la disciplina dei rapporti di
lavoro costituisce la base materiale e il tessuto connettivo anche della contrattazione
collettiva, la sua eventuale frammentazione su scala regionale comprometterebbe
pesantemente la possibilità di continuare a svolgere unazione sindacale di respiro
unitario; e questo proprio in un momento storico in cui, semmai, occorrerebbe porsi il
problema di allargarne gli orizzonti oltre i tradizionali confini nazionali per
contribuire a contrastare sempre più diffusi fenomeni di localismo disgregativo e
sbarrare la strada allEuropa delle piccole patrie.
Venezia, 3 novembre 2000
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