Tramps
An article by Emilio Campanella about the piece "Barboni" by Pippo Delbono
Barboni
Ho aspettato di rivederlo, prima di scrivere il
pezzo perché avevo l'impressione di non essere riuscito a cogliere
a pieno la portata di BARBONI di Pippo Delbono; infatti due settimane dopo
la rappresentazione al teatro dell'arte di Milano sono tornato a vederlo,
questa volta a Mira, vicino a Venezia, nel teatro del parco della villa
dei Leoni, luogo, fra l'altro, di rara suggestione. E' inutile dire come
ogni mia impressione dell'importanza dello spettacolo sia stata ribadita.
In scena non c'è quasi nulla: solo la consolle dei tecnici, un praticabile con tre gradini, qualche seggiola più tardi.
A un certo punto, dopo che Pepe Robledo (compagno da 15 anni dell'avventura artistica di Pippo) e il musicista hanno iniziato a "trafficare" con i suoni si fa avanti un omone barbuto, male in arnese, insomma un barbone classico che presa una seggiola e sedutovisi pesantemente chiede una luce per "un po' d'atmosfera": uno spot lo alona con un cerchio chapliniano, le luci della sala piano piano si spengono e una musica di sottofondo accompagna il racconto confessione della depressione che ha portato a questo spettacolo e alla scelta delle persone che ne fanno parte.
Collage dell'anima offesa e ferita attraverso la personalità dei suoi attori senza maschera e senza pelle di cui ci troviamo a valutare le naturale, scoperta, disperata, dolcissima teatralità: quella di Mr.Puma rapper nervosissimo e provocatorio che alla fine, dopo averli piantati in palcoscenico, lancerà fiori al pubblico con amorosa violenza, o quella di Armando Cozzuto che con il suo corpo devastato dalla poliomielite racconta una struggente storia d'amore e ci regala un pezzo della sua anima.
Sul suo ritmo sostenuto e la voce struggente della vocalist dei Madredeus, un ragazzo si fa avanti danzando sui tacchi e con il peso portato all'indietro, in precario equilibrio; una bella ragazza bruna, come in una mescita, pone su una specie di banchetto, uno dietro l'altro, bicchieri di plastica in cui con un sorriso ineffabile, ha versato del vino; il danzatore li prende uno a uno fra i denti e muovendosi velocemente macchia sempre di più la camicia inondando intorno a se; a poco a poco sarà intriso di liquido rosso, come di sangue, mentre la voce di Pepe legge una durissima poesia su e contro la guerra; lui continua a danzare, scivola, cade, si rialza come un fucilato che ritorni a vivere il suo martirio ancora, ancora e ancora.
Tutto questo e molto altro in novanta minuti velocissimi: dalle donne forzute che strizzano l'occhio a Bob Fosse a un merengue scatenato e spaventoso per arrivare al Bianco e all'Augusto più classici in un dichiarato omaggio felliniano.
Dedicato a Bernardo Quaranta, il "clochard" genovese alla cui morte si trovarono, nella valigia che sempre portava con sè, le sue poesie scritte su materiali di fortuna, alcune delle quali verranno lette in vari momenti; sopra tutto l'orso Pippo mansueto e protettivo, paziente demiurgo onnipresente a commentare con la propria gestualità gli interventi degli interpreti; l'orso babbo barbone che si racconta all'inizio davanti a noi e segue, osserva, incoraggia i suoi compagni; che prende per mano Bobò, un omarino con il quale intreccia un dialogo muto esilarante e tenerissimo sulla falsariga di Beckett, con l'aiuto di Pepe, ancora una volta, che "fuori campo" ne dice le battute come un racconto. Da ultimo ancora Bobò che suona la tromba con I suoi suoni gutturali e acuti di non udente, e ci accompagna a una conclusione che è un trionfo.
Qualcuno ha, giustamente, definito imperdibile questo spettacolo.
Emilio Campanella