Come nei copioni delle soap-operas per l'evento eccezionale della duemillesima puntata, pretesto pitagorico per la celebrazione della duemilionesima saponetta venduta e della duemiliardesima menzogna divulgata impunemente, così pure, con altrettanta scontata prevedibilità, c'era da aspettarsi per l'anno Duemila qualche novità ad effetto per riavvalorare quello che dopo un'infinità di repliche viene avvertito come stucchevole anche dai più inossidabili da tutte queste prove di umiliazione: la novità è Internet, o meglio FreeInternet.
Non che sia da ieri che Internet viene approntata e messa a punto, ma la sua cosiddetta “esplosione” e diffusione massiva, in occasione della Primavera 2000 in Europa, trova il proprio significato in un appuntamento icastico con la necessità sempre più imperativa del dover essere sempre più rapidamente moderni. Questa rapidità aggiunta non risponde ad altre esigenze che a quella di impedire che venga compreso e messo in discussione il senso della modernità da quando, circa due decenni or sono, la modernità stessa era stata incaricata di far sparire ogni altro senso e alcuni si prodigarono per amministrare tale espropriazione pensando anche convintamente che questo sarebbe stato possibile. In quest'unico senso, che si arrocca in senso unico, è la modernità stessa a cambiare natura: cercando di convincere della propria fine si trasfigura e si riarma nell'organizzazione dell'assenza che deve andare avanti.

Con Internet viene notificato in primo luogo che il requisito minimo per accedere a questa assenza socialmente organizzata viene adesso espresso in un'unità di misura “scoperta” dalla scienza biotech: il lasso di tempo fra due ordini sufficiente a non porsi il problema della loro natura di ordini e dell'opportunità della loro esecuzione. Ma non solo, in secondo e ultimo luogo viene portato a conoscenza dei futuri utenti di Internet, già gentili clienti, già iperproduttori di beni e servizi, già liberi cittadini, già meri umani, che il primo luogo è altresì l'unico. E che l'annosa questione dei conflitti originati dalla divisione della società in classi verrà risolta in un modo così semplice da far sembrare incredibile in un solo momento come non ci si sia arrivati prima: da ora non ce ne sarà più il tempo.

(E sarà proprio grazie ad Internet che, una volta privati di ogni esperienza comune del mondo, potremo abitare quella agorà di milioni di solitudini finalmente libere ed eguali in quella comunità virtuale costruita su misura per noi.)

La cosa presenta degli indiscutibili vantaggi dal punto di vista delle classi proprietarie. Si potranno finalmente liquidare anche nel loro simulacro formalistico-spettacolare tutte quelle fastidiose perdite di tempo, quando questo c'era ancora, rappresentate da sindacati, rivendicazioni, garanzie e diritti, che erano diventate addirittura sfibranti allorché furono provocate da autogestioni, scioperi selvaggi e altre manifestazioni di insubordinazioni che non ricercavano nessuna forma di compatibilità.
Ma non si può negare che diversi benefici ne trarrà inoltre la vecchia condizione di proletario che in tal modo viene messa in condizioni di vedersi sulla via della propria scomparsa. Proletario, com'è noto, era infatti chi non aveva altra ricchezza all'infuori della propria prole, che non era poi altro che la continuazione della propria vita; ma con la decretazione della fine del tempo storico viene meno anche il problema della discendenza: tanto la continuazione che la vita sono, semplicemente, cancellate. Già da adesso, a fini riproduttivi non è più indispensabile il tempo dell'accoppiamento ed è anzi sempre più consigliabile delegare l'intero ciclo produttivo a esperti specialisti e laboratori dove queste cose si fanno meglio, in migliori condizioni igienico-sanitarie. Per l'avvenire, poi, non è certo difficile immaginare quali nuove più fantasmagoriche prospettive si aprono con l'apertura delle frontiere e degli scambi di Internet, levando ogni imbarazzo a coloro ai quali, in questa fase di transizione, sembra che fare un figlio assomigli all'acquisto di un surrogato del tamagoci o ancor più antiquatamente preferisce accudire a un cane o a un gatto, ritenendo moralmente inaccettabile mandare qualche innocente allo sbaraglio in un simile mondo. Se poi residuerà ancora, a guisa di imperfezione, qualche antiquata e antigienica pulsione sessuale, nessun problema: un accessibile ed economico programma di sesso virtuale potrà essere velocemente scaricato dalla rete e installato nel computer del cesso di casa.
Vi è infine un terzo punto di vista, di cui si andranno qui a considerare le ragioni, e che è in ben più gravi ambasce nell'intravedere soltanto qualcosa di Internet che si avvicini ai suoi interessi. Quello degli umani viventi.

Il capo del governo italiano, secondo un costume appreso forse con un po' troppo zelo negli ambienti stalinisti che l'hanno coltivato, ha di recente sbrigativamente sentenziato: «Mi fido più della Borsa che della Politica». Nel volgere di qualche lustro quindi, l'epigono degli epigoni della Terza Internazionale ha saldato i conti con la storia che lo ha portato a far carriera da alto funzionario, stabilendo che era giunto il momento di disfarsi della Storia da Platone in poi, passando attraverso, ma molto di fretta, a un po' di revisionismo socialdemocratico e a quattro amenità di euro-comunismo, più che altro per far prendere l'orecchio all'euro prima di mettere in soffitta anche il fantasma nominalistico del comunismo.
La complementarietà di Borsa e Internet è d'altra parte fin troppo spudorata nel massimo di incomprensibilità, di speculazione e di ambizione all'immaterialità religiosa che presiedono alle loro pastorali tecno.
Più credenti che utenti, più azionati che azionisti, le nuove pecorelle telematiche non devono nemmeno darsi più pena di smarrirsi, atteso che per fare una cosa del genere bisognava prima aver avuto contezza di sapere dove si era.
Per quanto ancora relativamente marginali le patologie che si stanno propagando in conseguenza dell'uso intensivo di Internet e in generale di tutte le carabattole all'ultimo grido tecnologico (fra le altre, dislessie, disfasie, sovreccitabilità, attacchi di panico, e soprattutto perdita di senso della realtà in “quadri schizofrenici”) illustrano nondimeno esemplarmente il modello che le cagiona e di cui non sono effetti collaterali ma la verifica della sua validità epistemologica e del suo grado di efficacia. Il naufragio nel “mare” di Internet non è un accadimento dovuto all'imperizia del navigatore o a improvvise e imprevedibili condizioni metereologiche avverse, ché l'imperizia e la prevedibilità sono fra gli attributi per eccellenza delle avventure con un mouse. Il naufragio della propria intelligenza, della propria coscienza, della propria dignità e verità dell'essere uomini, è l'essenza di un rapporto sociale che, mentre sfascia il proprio scafo a suon di inquinamenti e avvelenamenti per rendere impossibile la posizione eretta, e brucia le proprie vele pur di non ammainarle, prospetta come invitante lo zatterone hi-tech che irradia Internet e, con la medesima prospettiva alla fibra ottica, la sua inconsistenza da rottamare ogni diciotto mesi.
Dopodiché non v'è davvero niente di strano se l'ultimo argomento non sospetto di affezione psicotica che riesce a sostenere sulla sua baracca di plastica e silicio è «O la Borsa o la Vita».

«Questi forse così farebbono, quali bene che seguissero a loro ditto buona via da dipignere, pure dico errerebbono; però che ponendo la prima linea a caso, benché l'altre seguano a ragione, non però sanno ove sia certo luogo alla pirramide visiva, onde loro succedono errori alla pittura non piccioli» (Leon Battista Alberti).
 
Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Piero della Francesca e altri uomini del Rinascimento modificarono radicalmente, come si sa, la concezione della prospettiva, introducendo una visione razionalista in senso matematico, e dando in tal modo l'abbrivio ai primi studi scientifici di tipo moderno. È certo che costoro avevano ben chiaro che la rappresentazione di una figura dello spazio reale su una superficie, in modo tale che la sua osservazione ingeneri la medesima impressione che si riceve dall'osservazione della realtà rappresentata, non era affatto questione disgiunta da quella del punto in cui la si guarda, chiamato anche per l'appunto punto di vista.
Si trattava ancora di una visione sostanzialmente unitaria, dove pensiero e misura non erano attività scisse e dove la ricerca di una centralità armoniosa dell'umano era più volta alle proprie spalle nel conato di smantellare e levarsi di torno l'ingombrante presenza teologico-metafisica, che preoccupata dei possibili sviluppi autonomi del quantitativo, quali si sarebbero verificati nell'economia, mercantile prima e capitalista poi.
In quel tempo si andava delineando dunque una contrapposizione, di cui possiamo vedere ora tutte le meravigliose tecnologiche conseguenze, fra l'uso della misura come strumento tra i tanti per la produzione di realtà umane superiori e lo scambio di saperi e conoscenze finalizzato alla mera ed esclusiva ragione economica, che della misura faceva progressivamente un fine non meno religioso dei precedenti. Dal punto di vista dell'occhio degli uomini al punto di vista delle telecamere ovunque, in questi cinque secoli il passo è stato relativamente breve ed è ormai talmente sotto gli occhi di tutti che si renderanno sempre meno necessarie digressioni e puntualizzazioni orwelliane.
Quello che si vuole qui denunciare è il rilancio qualitativo di prospettiva che con Internet viene perpetrato, in cui la posta non è più la semplice sottoposizione passiva all'esproprio delle facoltà vitali, ma la coazione alla partecipazione attiva, o meglio interattiva, alla rinuncia della produzione della propria vita attraverso l'incessante perfezionamento della sua simulazione. Se già adesso è stato quasi completamente distrutto un linguaggio endogeno della specie, riducendo i suoi iperalienati appartenenti agli stereotipi e ai contegni della fiction, quel che ribolle in vitro per il futuro promette di far rimpiangere, via web cam, lo stadio di iperalienazione precedente. È la sequenza inesorabile del degresso.



Questa neoprospettiva vuole battere, dall'alto della teocrazia del virtuale, ancora più in breccia il corpo e il cervello reali, sempre meno virtualmente. Con molte meno storie. Il programma degli emuli degli architetti rinascimentali viene infatti annunciato con lo stesso calore di una e-mail, senza trionfalismi e senza pretese di compiacere un gusto, senso che era stato previamente bombardato e raso al suolo per consentire sbarchi più indisturbati: «Nel 2050, mille dollari di computer forniranno una capacità di elaborazione pari a quella di tutti i cervelli umani della terra messi insieme ed entro il 2030 avremo già i mezzi per passare allo scanner il cervello e ricrearne elettronicamente la struttura (¼) le macchine programmate con sinapsi cerebrali replicate che ricreeranno la capacità di rispondere adeguatamente alle emozioni, diventeranno più simili all'uomo e l'uomo diventerà più simile alle macchine, con corpo e cervello biologici arricchiti di miliardi di “nanobot”, miriadi di robot microscopici che ci trasporteranno dentro e fuori dalla realtà virtuale (¼). Con un'iniezione a base di nanobot, un giorno si potranno copiare in un file e tenere in un computer i dettagli più impercettibili della nostra personalità» (Raymond Kurzweil). Che cosa si intenda a questo punto per nostra personalità, almeno nei termini considerati fino ad adesso minimi per chiamarla con tale nome, risulta quantomeno oscuro e questo dislocamento nel buio dà la misura esatta in effetti dell'incalcolabilità di questo salto di prospettiva. Ma a cosa serve l'installazione di «miliardi o trilioni» di nanobot vicino a determinati neuroni e in prossimità di ogni fibra nervosa proveniente da tutti e cinque i sensi? Il principio è molto semplice, è un po' come quando si cambia sulla radio la banda di frequenza da AM a FM: «Quando vorremo entrare in uno specifico ambiente virtuale, i nanobot bloccheranno i segnali che vengono dai nostri sensi reali e li sostituiranno con nuovi segnali virtuali. Questa tecnologia ci permetterà di interagire virtualmente con altre persone, o persone simulate, senza dover ricorrere ad apparecchiature che non siano già nella nostra testa [corsivo nostro]. E la realtà virtuale non sarà rudimentale come quella dei video giochi. Sarà dettagliata e complessa come la vita vera. E quindi, invece di limitarci a telefonare a un amico, potremmo incontrarlo in un bar francese o passeggiare su una spiaggia tropicale virtuale e tutto sembrerà reale. La gente potrà condividere ogni specie di esperienza, sia sociale, romantica o sessuale a prescindere dalla vicinanza fisica». Sarà dunque come «la vita vera».
Sarà.
Ma se la “Città ideale” prospettava il superamento della città di Dio, che viene ricacciato dalla realtà degli uomini nella più congrua sede dei loro fantasmi, la “città dei bit”, come viene chiamata dai maître-a-non-pensare-più delle Università e delle Fondazioni Agnelli, con il suo progetto genomicida della riduzione di quelle realtà di esperienze e conoscenze così ricche e variegate, al fantasma dell'assoluto del laboratorio e della simulazione, ha tutta l'aria di agognare ad essere una re aedificata su di un nulla che si sbarazza persino della chimera, in quanto accidente ancora troppo umano.
Ma questa new-Genesi, dove schiere di mutanti dovranno ricordare un giorno che in principio era il chip, a noi sembra più che altro evocare la old-Apocalisse dei soliti quattro cavalli nient'affatto virtuali: distruzione, guerre, fame ed epidemie.
E neanche tanto in prospettiva.

Internet, viene martellato, creerà nuovi posti di lavoro. La parola e la pratica del lavoro hanno avuto in questi ultimi due secoli la potenza tardomagica di riuscire a far accantonare qualsiasi altro problema e di mettere quasi tutti d'accordo sul carattere supremo della sua presunta necessità.
In epoche precapitaliste il lavoro era un disvalore per le classi proprietarie, i cui membri non si sognavano minimamente, e anzi ne avrebbero avuto disprezzo, di rispettare i tempi e i modi delle agende di un manager.
D'altra parte esso era pure una maledizione per tutti gli altri che ne erano costretti da rapporti di forza sfavorevoli.
Questo mutamento della considerazione in cui tenere il lavoro è stato evidentemente un portato del cambiamento di prospettiva fisiocratico instaurato dal nuovo rapporto sociale, cosicché poco importa che durante la rivoluzione industriale l'opposizione luddista abbia tentato di opporsi a uno sterminio di massa di gran lunga superiore a quello dell'Olocausto. Con il nuovo punto di vista, i resistenti al secondo son passati per nobili eroi, i resistenti al primo per delinquenti scioperati.
Il rapporto di potere incorporato in quelle macchine tessili inglesi, annientata quella primitiva opposizione, ha in seguito fatto progressi da gigante sicché da un po' di tempo ama nei computer siglarsi a mo' di segnapunti (286, 386, 486, Pentium I, II, III). Va da sé che la propria ideologia si è rafforzata di pari passo con questi successi, tant'è che oggi, pur nelle mille inevitabili lamentazioni per l'aumento del degrado a vista d'occhio delle condizioni di vita, sembra che quasi nessuno sia più in grado di vedere il padrone là dove si trova, e conseguentemente di mettere alla radice in discussione l'origine dell'inarrestabile sovrappiù di malessere, mai attribuito, come suggerirebbe una logica piuttosto elementare, al proprio ruolo di schiavizzato, ma, volta a volta, agli scarichi delle insopportazioni degli altri schiavizzati che stanno attorno, siano essi parenti, amici o colleghi. Talvolta, nel colmo di una tragica ironia, ad un modem che non fa andare veloci come si vorrebbe, o a un videoregistratore di cui non si riesce a venire a capo, restando poi per una certa unità di tempo con l'amara sensazione di aver perso del tempo.
Perdita che, quantomeno stranamente, non sembra essere percepita dal lavoratore di oggi nella frenetica e convulsa impresa di persuadere sé e i suoi simili di quale prerogativa irrinunciabile per la propria dignità e il proprio decoro sia consacrare le assai poco proprie giornate ad attività manifestamente indignitose e indecorose.
Ma che cosa ha fatto costui prima di aspirare a tale ruolo?
Nella maggior parte dei casi è andato a scuola 15 o 20 anni, dove ha profuso le energie della giovinezza nell'assimilazione di enormi tomi di anno in anno sempre più gonfiati sul modello delle gambe di Del Piero o dei polli di cui si è nutrito per reggere l'immane sforzo di non farsi venire la scogliosi nel trasportarli e una precoce demenza senile nel leggerli. (Il sempre maggior numero di individui che hanno avuto in sorte, davvero ria, di frequentare atenei sa molto bene che genere di ordalie vi si pratichino, fra le forche caudine della quarantesima aggiornata introduzione alle Madames Bovary e le quattromila pagine di originali interpretazioni del nullapensiero degli Heidegger, il tutto, beninteso, senza avere più il tempo di leggere un rigo di Villon e Hegel.) Poscia, se gliela ha fatta, arriva finalmente il bello: un labirinto di master, concorsi, esami di Stato e più in generale tutto ciò che ricade sotto la temibile etichetta del “post-diploma” e “post-laurea” dove, fra corsi propedeutici, di sussidio, di sostegno, di formazione e relative voluminose dispense che abbisognano di adeguati compendi perché di vita ce n'è una sola, si smarrisce fra una folla di sfortunati predecessori che, per tirare a campare, organizzano e moltiplicano quella babele di faticose inessenzialità.
Alla fine, dopo aver scoperto che la Produzione è finita e che deve quindi trovare qualcosa di improduttivo da fare, gli resteranno due possibilità: infilarsi nel baraccone di tutte quelle nuove strane “professionalità”, di cui la sua paraformazione gli ha additato il paradigma o, se sorretto da famiglia o immodiche quantità di sopportazione, insinuarsi pian piano nel mondo dei vecchi mestieri nel culmine della loro degenerazione: farà, se medico, lo spacciatore di neurolettici, se l'avvocato, il questuante di rinvii, se l'ingegnere, il progettista di piedi d'argilla e così via. Più o meno insomma le stesse cose e con la stessa qualità d'opera a cui si sarebbe dedicato con qualche diottria rimasta in avanzo, se avesse fatto il muratore di neo-case e infrastrutture pubbliche, l'artigiano di surrogati di Ikea o il macellaio di bestie estrogenate.
Avrà alla fine, esausto e sfinito, scoperto nella rassegnazione che in un mondo che gli offriva aria avvelenata e acqua marcia, l'unica cosa a cui servivano davvero quelle tribolazioni era il programma di marcescenza che era stato preconfezionato per la sua pseudovita, affinché arrivasse a prendere coscienza della sua miserabile realtà a disinnesco avvenuto.

Non può quindi apparire granché curioso che in tali carenze di prospettive per dei sudditi così bistrattati, i padroni di questo mondo abbiano concertato di ricorrere al miglior metadone che riuscivano a sintetizzare: la new-economy. Che è una cosa che non vuol dire nulla ed è proprio tutto quello che vuol dire. In fondo al lungo corridoio dello studio inutile e della mortificazione da riaggiornare permanentemente viene rivelata alla “risorsa umana in formazione” la spiritosa verità: che l'oggetto delle sue “speculazioni” era un mare di baccellonate senz'altro significato che quello di specularvi sopra e che ora, in quanto ignorante di tutto tranne che di ciò, non ha altra possibilità se non quella di divenire complice di questa monosofia della speculazione. Un mese per imparare trecento parole di anglocomputer, tre mesi per diventare “esperti” programmatori per Internet e «se siete svegli e scaltri, con una buona idea e un po' di fortuna, potete dal niente fare miliardi in men che non si dica: guardate Tiscali e gli enfant prodige di Yahoo».
Ricapitolando. Vi è stato il modello dei Giovanni Agnelli che, a mezzo di cosiddette capacità imprenditoriali, estorcevano “organizzando i fattori della produzione”. Finita la Produzione in senso classico, vi è stato quello dei Berlusconi che, a mezzo di incapacità spettacolare si riproducevano “organizzando i fattori dell'estorsione”. Finito lo Spettacolo in senso – qui molto per così dire – classico, viene avanzato ora quello di chi riproduce l'organizzazione della fine della Produzione e dello Spettacolo a mezzo di mera estorsione. I fattori devono adesso combinarsi, dopo due secoli di accelerata reificazione, nei neopadroni di questo beau monde: Stronzaggine e Superenalotto.
Gli altri, ovvero tutti tranne questa neocasta di qualche centinaio di deuomini, sono destinati a impezzentirsi vieppiù rapidamente e avendo ormai già perso la propria prole, non potranno da qui a poco nemmeno più millantare di fregiarsi del titolo minimo a cui questa dava loro diritto.
Saranno nella realtà del loro inarrestabile rovescio, e assai diversamente che nel romanzo di Manzoni, degli Innominati.

«Dappertutto si porrà la medesima questione, quella che si aggira per il mondo da due secoli: come far lavorare i poveri, laddove l'illusione ha deluso e la forza si è disfatta?» (Guy Debord).
 
Quel che è fin da subito sicuro, è che il tentativo di risposta via Internet non assomiglia per niente a una geniale risoluzione strategica. Il respiro sembra piuttosto breve, e le illusioni senza illusione al cristallo liquido malcelano quello che è l'obbiettivo-tampone che non vede più in là di qualche decennio: sbirrare il pianeta, unico reale piano che sta dietro la cortina fumogena della cosiddetta globalizzazione economica. La massa crescente di espulsi anche da quelle penose condizioni di sopravvivenza dispensate da questa organizzazione sociale sta divenendo in maniera esponenziale sempre più pericolosa e i reati contro il patrimonio sempre più famigliari per chi deve fare di necessità illegalità.
Delle contraddizioni delle “due città” di Los Angeles, in cui pochi superpossidenti hanno eretto moderne moenia per difendersi dal moderno cunctus populus, dovrà serbarsi un bucolico ricordo nello spazio di un paio di generazioni a dir tanto. Cosicché il discutibile M.I.T. e altri sedicenti prestigiosi Centri di Ricerca sembrano essere stati soppiantati in credibilità sociale da una recente organizzazione significativamente denominata Police Futurist International, costituitasi «a seguito di un incontro» presso la FBI Accademy fra «accademici e persone che operano a livello teorico o pratico in tutto il mondo nella tutela della legge e in settori connessi». Senza indagare troppo su questo poco promettente americanismo dei «settori connessi», ci si può però soffermare su alcune fra le «molte innovazioni tecnologiche affascinanti» prospettate per esempio da uno dei suoi più illustri rappresentanti, il professor Gene Stephens. Per esempio ma non per caso perché questo luminare, in quanto espressione dell'approccio “liberal”, risulta letteralmente esemplare di quale possa essere il grado più spinto di contrapposizione del pensiero nel dibattito dentro le istituzioni.
In una recente intervista a una rivista italiana, ci tiene infatti a precisare che «abbiamo due modelli dicotomici, quello militare e quello pacifico», il primo fondato sulla «promozione di paura fra la gente», il secondo, quello auspicato dallo studioso, «basato sulla necessità di instaurare un clima di dialogo» perché «se la gente ha paura di uscire di casa, si barrica dietro porte blindate, non ha relazioni e non partecipa agli avvenimenti sociali, abbiamo un problema di qualità della vita, la stiamo devastando». Si tratterebbe quindi, per esautorare le logiche delle lobby militari e dei loro enormi interessi, di sviluppare una opportuna applicazione – o come si dice in neolingua un'implementazione – dei progressi tecnologici allo scopo di favorire in maniera più armoniosa detto «clima di dialogo».
Vediamo, sempre per esempio, come.
1) Negli Stati Uniti circa la metà dei crimini si dice essere legata all'uso di alcool. Ebbene, il sociologo informa che «abbiamo strumenti che costringeranno l'individuo alla sobrietà e che presto arriveranno sul mercato. Quello più sviluppato al momento riguarda il problema dell'alcool: indipendentemente da quanto si sia bevuto, si rimane sobri. Se lo si utilizza prima di bere, è impossibile ubriacarsi; dopo aver assunto alcool ne annulla immediatamente gli effetti. È un inibitore, inibisce l'effetto dell'alcool sulla mente». Subito dopo viene soggiunto che «lo stesso sistema può essere utilizzato per cocaina, eroina e ogni altra droga» e che questo può contribuire a «modificare il paradigma» dell'atteggiamento repressivo-militare del problema.
Su questo punto siamo completamente d'accordo, anche perché con questo sistema non v'è da dubitare che sia possibile inibire efficacemente anche lo struggimento nella passione amorosa, il dolore per la morte di una persona cara o, con ancora qualche piccolo progresso, perfino lo spleen davanti a un tramonto.
E chi può credibilmente obbiettare che non si realizza in tal modo una modificazione di paradigma?
2) Fra la messe dei nuovi sistemi satellitari in grado di seguire ogni possibile spostamento del soggetto sotto controllo (“braccialetti” elettronici et similia), viene illustrato come «uno dei più interessanti», in prospettiva, quello dei “computer ubiqui”, «in cui si collocano minicomputer negli abiti, negli oggetti di casa, dell'auto, dell'ufficio, e grazie a questi dispositivi si può avere una completa documentazione della vita di una persona da quando si alza alla mattina a quando va a dormire, e pure mentre dorme, per ascoltare cosa dica magari anche nel sonno». L'obbiettivo sarebbe quello di creare un gigantesco archivio digitale con le informazioni dettagliate di quello che ognuno fa e che sia consultabile dalla Polizia in qualsiasi momento. «Un controllo simile potrà essere effettuato attraverso il DNA, che si va diffondendo negli Stati Uniti come strumento di identificazione in codice a barre. Entro i prossimi 5 o 10 anni il codice a barre con il DNA sarà presente nel mio Paese e probabilmente in molte altre parti del mondo».
Fra le peculiarità degli americani v'è quella famosa di una certa pratica sbrigatività. Attardarsi sulla riduzione delle vicende degli umani a un codice a barre, in maniera esattamente analoga a quel che avviene per una lattina di Coca-cola, pare una perdita di tempo in oziosi formalismi: siamo nel mondo della merce? E allora poche storie, impariamo ad esserla e guardiamo avanti. «C'è un grande sforzo di ricerca», viene pertanto rilanciato, «in particolare alla Mc Gill University di Toronto, sulla memoria. Si è scoperto che ogni evento significativo è registrato nella nostra mente come su una sorta di video. E attraverso quel nastro possiamo costringere una persona, con sensori installati su alcune aree cerebrali, a richiamare alla memoria un dato evento. Ad esempio, con un ostaggio, o con un rapinatore, o con un imputato di violenza carnale, potremo visualizzare le ragioni e i modi dell'evento, il che costituirebbe un eccezionale strumento investigativo».
3) Ma c'è anche di meglio del film della nostra vita. Sempre nel quadro di un armonioso utilizzo dei ritrovati tecnologici a fini di prevenzione e non di repressione, Stephens porta a sapere che «stiamo considerando la possibilità di un invecchiamento artificiale. Presto scopriremo le cause genetiche dell'invecchiamento, e con queste saremo in grado di vivere più a lungo, ma anche di costringere una persona a invecchiare artificialmente. E sappiamo anche che la gran parte dei criminali, se non altro quelli violenti, sono stati tali nel periodo che va fra i 15 e i 45 anni. Quando ha 45 anni la maggior parte di loro si calma, cambia i propri fluidi organici, e dunque potremo prendere un venticinquenne che ha commesso un reato di violenza, invecchiarlo di vent'anni ed evitare di imprigionarlo, perché a quel punto non costituirebbe più un problema sociale».
4) Il nobile intento di “abolire il carcere” per i più giovani risolvendo alla radice il problema delle turbe giovanili vuole inoltre ammiccare ai consistenti risparmi nei costi di gestione per mantenere i penitenziari.
Allo stesso modo in cui abbiamo visto la possibilità di “cambiare canale” della percezione per mezzo di iniezioni di miriadi di nanobot, onde “viaggiare” ovunque su Internet, si potrebbe sfruttare questa tecnologia, anche e fra l'altro, per impianti organici di controllo nei corpi dei delinquenti fuori dalle galere «in modo economico e semplice». «Possiamo insomma spingere la gente a scegliere fra la prigione o uno di questi impianti. E potremmo decidere di impiantare sistemi di elettroshock in modo tale da controllare le persone in un programma di riabilitazione senza prendersi la briga di monitorare continuamente dove sono. Se non seguissero il percorso previsto, al lavoro o a scuola e poi dritti a casa, se uscissero dagli spazi a loro destinati, riceverebbero automaticamente un elettroshock che li costringerebbe a rientrare nel territorio previsto». Il sociologo di fronte a questa bella trovata, che ha il solo difetto di non poter essere messa in opera domani, lascia spazio all'entusiasmo del filosofo: «E qui abbiamo una situazione che salvaguarda la libera scelta: non subisci l'elettroshock se segui le regole». Davanti a questo slancio erasmiano scivola addirittura in secondo piano la ragione economica: «E al tempo stesso non dovremmo spendere denaro per andare a recuperare il criminale qualora decidesse di uscire dal suo territorio».
5) A chiusura di questa esemplificativa e dunque incompleta rassegna delle prospettive di controllo alla cui ideazione e realizzazione si dedicano alacremente Stephens e la sua organizzazione, ma anche in certo qual modo a chiusura del cerchio e a lancio delle chiavi, sembrava inevitabile menzionare quella del controllo biomedico. «Sappiamo che a un'alta presenza di serotonina nel flusso sanguigno corrisponde un atteggiamento aggressivo, iperattivo, potenzialmente pericoloso. E potremmo creare degli impianti che rilasciano sostanze chimiche nel flusso sanguigno per preservare la calma e la riflessività. Potremmo poi far ricorso alla telepatia. Saremo in grado di dar comandi al computer, o di far volare aeroplani, attraverso le onde cerebrali, il che ci può consentire di captare e leggere queste onde cerebrali, e attraverso queste di intuire l'intenzione di commettere un crimine; e potremmo rendere illegale il semplice pensiero di attività criminale».
Certo, nonostante l'apprestamento di simili rimedi, resta l'amaro di una potenza che nella sinergia di informatica, biologia, medicina e polizia, arriva molto vicino, ma non riesce nel portarsi a compimento. E il professore, nella battuta finale, lo sospira: «Ma forse la tecnologia definitiva è l'ingegneria genetica. Possiamo clonare un gene, sostituirlo, alterarlo, cancellarlo, inserirlo; e possiamo dunque creare una persona con tutte le caratteristiche che vogliamo. E potremmo allora identificare il “tipo umano non criminale”, crearlo e riprodurlo geneticamente. Se realmente volessimo, potremmo avere una società interamente libera dalla violenza».

Che cosa venga inteso dunque per “libertà” e “paradigma pacifico” da questa prospettiva e da quest'uomo di Scienza e di Sinistra sembra rimandare in uno spostato sempre oltre al di là della peggior cosa che si riesca a far venire in mente. L'abbondante uso della citazione nel riportare il senso e la prospettiva degli ultimissimi neo-progetti sta soprattutto a testimoniare della nostra crescente inadeguatezza a tradurre in sintesi il significato di proposizioni che si presentano ormai di sintesi allo stato quasi puro.
Quello che vediamo sparire alla stessa vertiginosa velocità del tempo che sparisce è il discorso, la ricerca delle idee adatte alla materia e di una ragione che le sorregga, cosa che era ancora presente nel mito della superiorità della razza ariana su quella giudaica, sebbene in un discorso delirante e in una ragione demente. Ma là si trattava ancora di uomini e sottouomini, mentre gli incroci di embrioni e avatar dovranno parlare transgenico come mangiano e per sequenze elicoidali in omaggio all'arte delle nuove macchine che li riproducono. E d'altra parte cos'è diventato questo mondo per gli uomini da quando i suoi proprietari hanno sganciato insieme al dollaro dall'oro la loro micragnosa ragioneria dalla ragione?
L'epoca dell'informazione non è altro che quella del loro Continuo Comunicato che ci fa sapere a mitragliate di medesimi aggiornamenti a quale confortante punto sono arrivate le loro Ricerche, i loro Progetti, le loro Sperimentazioni, ma soprattutto i loro così indiscutibili successi e i loro altrettanto inconfutabili cagliostrismi. Dicono che la carta canta, le statistiche dimostrano e i grafici confermano: la durata media della speranza di sopravvivenza è aumentata, da qui a poco si camperà fino a centottanta anni. Perché, in che modo, per fare cosa non hanno più da spiegarsi e da giustificarsi dentro una qualità della vita che deve postularsi in re ipsa, da quando di qualità in vita non ne è rimasta più nessuna.
Così, l'ossimoro è stato congruamente eletto da costoro a figura retorica più prospettica, dopo la trionfale espansione della panacea antibiotica.
Eppure notizie dei viventi meno rassicuranti non è che non ne provengano.
Lasciamo perdere quel miliardo di sottonutriti – per dirla con il loro ipocrita gergo –, quei trentamila bimbi che crepano ogni giorno di fame – che cercano di rimuovere attraverso il disgusto provocato dal loro peloso pietismo –, in quel Terzomondo che contraddice il paneconomicismo dell'era del calcolo essendo ormai divenuto l'anteprima dei primi due, dove si muore sempre più per causa delle malattie debellate dalla loro Medicina prima che ingoiasse una spagnoletta di SuperPippo e diventasse hi-bio-tek: tubercolosi, colera e perfino morbillo. E non solo perché c'è sempre una Maria Pia Fanfani o una missione delle Santissime Opere di n'importe quoi a raccogliere e colà portare i conforti di scarto della vecchia cattiva coscienza borghese e a ricordare che anche Cristo è morto in croce, ancorché senza l'ausilio di medicinali scaduti. Lasciamo pure perdere quelle astrazioni generiche, sprezzantemente così etichettate da chi dell'Astrazione dei propri sporchi affari vuole fare un Assoluto, come la deforestazione e la desertificazione galoppanti per cui, secondo organismi internazionali, e non disfattismi di propaganda, ogni anno sei mila ettari si trasformano in deserto in maniera irreversibile e ventimila ettari si impoveriscono a tal punto da non essere più destinabili all'agricoltura o all'allevamento, dal momento che uno Sting pronto a consolare con qualche disco di platino lo si trova anch'esso immancabilmente.
Limitando lo sguardo al ricco mondo occidentale si può apprendere da numerose riviste scientifiche che la morte degli alberi in conseguenza dell'effetto delle piogge acide riguarda più della metà delle foreste europee e americane, che un'acqua data per “potabile” contiene centoventinove prodotti qualificati “molto pericolosi” (ma solo quattordici sono controllati dai sistemi di depurazione). D'altronde non è che per l'acqua sorgiva dica granché meglio: uno studio inglese rivela che su duecentottantotto sorgenti l'inquinamento supera ovunque le soglie già “comprensive” stabilite dall'autorità amministrativa. Questo liquame serve poi per l'irrigazione dei cibi che sfamano i “ricchi” primomondisti fra una boccata e l'altra d'aria ricca dell'ancor più ricco inquinamento radioattivo (compreso quello “naturale” cagionato dall'insufficiente filtro dello strato d'ozono) e non.
Degli esperti affermano che detto inquinamento e più in generale le disastrose condizioni igieniche – nel nevrotico consumo di Detersivi – cui ha condotto questa organizzazione sociale sarebbero responsabili di una buona parte dei cancri, delle leucemie e delle malformazioni congenite. Quanto ai tumori, secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, ne muoiono ogni giorno circa ventimila persone. Fra il 1960 e il 1980 i casi sono aumentati del 50% e la mortalità per cancro aumenta di anno in anno. In particolare quello ai polmoni registra il record fra gli aumenti: del 200% in Europa e del 300% negli Stati uniti. Il fumo delle sigarette aiuta, ma soprattutto a parlar d'altro. Il bombardamento mediatico sui guai provocati dalla nicotina oscura l'altro “dato” non nascosto ma sottaciuto che ormai soffre d'asma un occidentale su dieci, che in città la percentuale aumenta grandemente, che l'incremento riguarda più d'altri i bambini, notori ingordi di Gauloises e Avana. Fra gli adulti colpiti da un cancro ai polmoni, poi, un terzo non ha mai fumato e il loro numero è aumentato del doppio negli ultimi dieci anni.
I veri fattori cancerogeni sono peraltro ben conosciuti dai cancerologi: sostanze chimiche (si calcola che vengano consumati mediamente nella alimentazione di un individuo circa 1,5 chili all'anno di prodotti chimici, coloranti, residui di fertilizzanti e di pesticidi), certe radiazioni (nucleari, ma anche quelle elettromagnetiche delle televisioni e dei telefonini, nonché quelle dispensate dai continui esami radiologici a “fin di bene”) e in particolare quelli che dei neoesperti chiamano “perturbazioni emozionali caratterizzate”, oggetto del più recente profluvio di studi e ricerche, e che Quattrocentoquindici aveva in maniera più concisa, e soprattutto più precisa, chiamato «la raggiunta saturazione della noia di trascinare un'esistenza sempre più vuota e insensata» (Bello come una prigione che brucia).

La constatazione delle devastazioni subite dal nostro mondo in brevissimo tempo, e a cosa si è ridotta la vita così come la si poteva chiamare fino all'altro ieri sono la minima premessa logica per comprendere che cos'è e a cosa serve Internet.
Non si tratta di rimpiangere un passato migliore e più vivibile che non può tornare, e che nel precipitare di questa catastrofe non può più neanche ispirare delle miserabili rammemorazioni consolatorie.
Perché la catastrofe provocata del mondo reale è la vera base materiale della new prospettiva di Internet che, per mostrarsi se non appetibile quantomeno accettabile, deve eliminare dalla propria visuale tutto quello che è divenuto del tutto inguardabile, cioè tutto il reale.
Chi vuole convincere di un uso intelligente e divertente di Internet punta sul ricatto dato dal fatto che è meno faticoso attraversare “la città dei bit” che quei quartieri dormitorio su cui riposa il modello dei centri storici ristrutturati, ancorché questi non ne conservino l'aura, così come risulta altrettanto meno periglioso per i movimenti dello stomaco “incontrare” il proprio sindaco o il proprio rettore su un sito Web invece che di persona. Che, insomma, per navigare on-line basta quel po' di Vetril che è risibilmente insufficiente nella navigazione in mezzo al reale catrame e al reale mercurio.
Ma anche chi punta su un uso “alternativo” di Internet, sia nella tristissima forma di giustapposizione di silenzi digitati su mailing-list, che attraverso hackeraggi e piratate meno da pseudoribelli che da asilo, credendo davvero che lì sia in atto l'ultimo e campale scontro sul cambiamento, finisce, inconsapevole o meno, con il partecipare allo stesso gioco. Quello della costruzione di un monumentale castello di carte, resa possibile dalla bonaccia garantita dalle mura di un apparato di Polizia che deve senza posa ingigantirsi affinché non passi letteralmente nemmeno un alito.
Altre verità Internet non ne ha.
Altre verità Internet ambisce a che non ve ne siano più.
Il già sterminato ammasso di ricerche, studi, commenti sul “Fenomeno Internet” di Sociologi e Semiotici al lavoro per persuadere i perplessi e i diffidenti che sarà ancora più ameno mettersi al lavoro “in rete”, rivela se non altro che la falsificazione globale, per quanto la globalizzazione del falso si imbelletti dei sofismi della virtualità e della interattività, richiede ancora parecchi sforzi, e la forza con cui procede non sembra più direttamente proporzionale alla distanza che la separa dalla meta del suo compimento.
Fra il dire e il fare, forse, c'è pur sempre il mare degli uomini.
La Prospettiva del mare di Internet non li contempla, ma quel che è ancora dal Suo punto di vista più grave è che se mette in conto una sacca di riluttanti e ricalcitranti, non contempla più affatto l'eventualità dell'insorgenza di una crisi di rigetto da parte di coloro che, volendo riprendersi il centro delle proprie operazioni, si mettono a pensare e ad agire muovendo dal Suo Rovesciamento.
In quel momento non vi sarà più altro spazio che per la ripresa del movimento storico dell'autorganizzazione della resistenza senza quartiere alla divisione della società in classi, alla sua bruttezza, alla sua insensatezza, e alla sua volgare tracotanza per far sì che tutti tali separati giudicati trovino la loro riunione nel Suo più spettacoloso incendio.
Noi pensiamo che quel momento è qui e adesso e che a quella crisi deve negarsi ogni possibilità di castrazione e rimozione.
E pensiamo pure che da qui in avanti non solo la cinica e sconsiderata adesione all'esistente, ma anche il non prendere partito, con il pretesto della grande complicazione e confusione orchestrate ormai troppo scopertamente per la riproduzione allargata di ignavia, il silenzio-assenso, assomiglieranno sempre più, davanti al tribunale della specie, a quella cosa che nella penultima grande guerra civile è stata chiamata collaborazionismo.


 
Torino, maggio 2000


Quattrocentoquindici




Veduta della città ideale, XV secolo,
anonimo (attribuito a Piero della Francesca)