A. M. Bonanno, G. Bertoli Carteggio 1998-2000

 

Gianfranco Bertoli ammazza quattro persone e ne ferisce molte altre davanti alla questura di Milano nell'anniversario dell'uccisione del commissario Luigi Calabresi. La sua intenzione era quella di gettare una bomba nell'atrio della questura in occasione della inaugurazione da parte di Mariano Rumor di un busto al "Commissario finestra".
Non scappa, non cerca di salvarsi come a suo tempo ebbe a fare Emile Henry, si fa arrestare e, per un quarto di secolo e più, continua a dichiararsi anarchico.

Io non ho conosciuto Bertoli di persona, non ho avuto con lui che uno sporadico scambio epistolare quando mi trovavo nel carcere di Bergamo, ben presto chiuso perché malgrado la sua disponibilità, in fondo, avevamo all'epoca poche cose da dirci. Poi le lettere, le sue lettere. A volte un profluvio, tanto da riempire la pagine fino all'ultimo, senza lasciare neanche un piccolo spazio, a volte più lontane una dall'altra, per diventare alla fine svagate, quasi testimonianza della fine imminente.

Non sono una lettura piacevole, né le sue lettere, né le mie. Ma non mi corre l'obbligo di dilettare i miei pochi lettori. La scrittura di Gianfranco è ridon-dante, ripetitiva, ricca di raddoppi aggettivali che rendono la lettura difficoltosa, ma sono la testimonianza diretta di un uomo che soffre, di un uomo debole che continua a soffrire. Ma non soffre per quelle morti, per quei dolori causati, né per l'obiettivo iniziale mancato, soffre per un altro motivo, ed è qui che me lo sono trovato vicino, fratello, al di là delle differenze caratteriali tra noi due.

Il fascino della forza pervade ogni cosa. Chi la possiede la esercita e ne gode i benefici, chi non la possiede l'agogna e si accontenta dei suoi sur-rogati. La forza più forte è quella della ragione, il luogo dove l'inseparabile viene separato e si converte in disciplina e ordine.

Ho a lungo riflettuto sulla perdita, ne ho parlato e ne ho scritto, poi, alla resa dei conti, il fascino della forza mi ha portato a non vedere quello che avevo davanti agli occhi. Possiamo tutti avere il coraggio dalla nostra parte? No di certo. Possiamo tutti essere in grado di aprire le fauci del leone con le nostre braccia muscolose? Ancora no. E allora, che cosa fa il debole che non vuole vestire le falsi vesti del leone? Che cosa fa colui che vuole a tutti i costi diventare quello che è?

Un debole si porta dietro la sua bomba direttamente da Israele. La nasconde per tutto il viaggio da clandestino in una nave carretta di clan-destini. La coccola e le sorride, in quel peso sotto la giubba sta il riscatto della sua debolezza, il sogno di una forza dirompente mai posseduta.

Ebbene, devo dichiarare qui che mi sono sbagliato. Il muscoloso indivi-dualista che era nei miei pensieri può non essere il solo abitatore de L'unico di Stirner. Irrobustirsi i muscoli - in primo luogo quelli mentali - è possibile a tutti. Tutto il pensiero occidentale è attraversato da questa teoria del "corpo vivo" che costruisce se stesso, che si educa, che si autoeduca, determi-nandosi alla scelta opportuna, alla scelta del coraggio e della forza.

Ancora la forza, la ragione a fondamento di questo luogo delle certezze, in modo che la trasformazione possa avvenire. L'azione distruttiva va bene, purché venga supportata dalla progettualità, nuovi valori sullo sfondo.

Non dico qui che questo discorso sia sbagliato. Avrei pestato acqua nel mortaio per quarant'anni, e la cosa non mi potrebbe fare piacere. Dico soltanto che qualcuno può pensarla diversamente, può voler diventare se stesso, fino in fondo - quindi ribellarsi - realizzando la propria debolezza. Una straordinaria forza di tipo diverso sembra delinearsi all'orizzonte. Un orizzonte cupo e disgustoso, se volete, ma pur sempre illuminato da un bagliore di vita.
La contraddizione tra la vita di Bertoli, l'intera sua vita, e il suo gesto è illuminata - quindi dissolta - dalla sua coerenza di comportamento fino alla fine. Egli vuole vivere a modo suo, senza valori precostituiti altrove, senza luoghi comuni, sia pure questo modo suo, quello dell'eroina. E, a modo suo, è stato anche il suo atto di rivolta.

Dedico queste righe, e questo libro, alla memoria di Gianfranco Bertoli, che non ho mai conosciuto di persona, con cui parlai solo una volta al telefono, ma che proprio le lettere qui contenute mi hanno fatto scoprire come uno dei compagni più ricchi di umanità (e anche di deliri e miserie) che ho conosciuto.
Che viva il ricordo di lui, al di là delle accuse che hanno cercato (riu-scendoci) di distruggerlo, e che viva anche la vergogna di coloro che lo hanno prima "recuperato" e, alla fine, sotterrato.
Per sempre.