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I Balcani


EST EUROPEO


La difficoltà di tracciare i propri confini orientaliè sempre stata per l'Europa un problema, benchè generalmente percepito solo a livello inconscio. Tale impaccio ha causato guerre e disastri nel passato, ed oggi, dopo la fine del bipolarismo, sembra riproporsi con la stessa gravità

Benchè siano trascorsi ormai almeno cinque anni, in Occidente le sinistre stentano ad elaborare ed "interiorizzare" il significato dell'abbattimento del Muro di Berlino e della riunificazione tedesca. Questi avvenimenti viceversa sono stati avvertiti pesantemente in tutta la loro portata simbolica e concreta nelle ex-democrazie popolari. Oltre agli aspetti politico-economici della reintroduzione repentina del capitalismo, ad Est si avverte ancora l'effetto dello shock violento determinato da quella che può essere senz'altro definita come la vittoria tedesca della guerra fredda. La Germania d'altronde rappresenta un osservatorio privilegiato per comprendere la transizione in atto nell'Europa centro-orientale.

Le vicende di un passato non lontanissimo, già quasi dimenticato o rimosso anzitempo in Occidente, tornano improvvisamente in primo piano nei paesi dell'Est in preda alla crisi sociale e d'identità. In questi paesi, ad esempio, la seconda Guerra Mondiale viene letta in maniera diversa: oltrechè frutto della crociata nazista in nome dell'antibolscevismo e della Grande Germania, la aggressione hitleriana contro le nazioni slavo-ortodosse rispondeva anche al sogno plurisecolare del Vaticano di disegnare i nuovi confini orientali dell'Europa, intesa come Europa tradizionale, cioè romano-cattolica. Adolf Hitler, l'alfiere del Nuovo Ordine Europeo, era salutato come "uomo della Provvidenza" da tutti i settori reazionari cattolici dei paesi invasi dalla Wehrmacht. Il genocidio attuato dai nazisti non avvenne solo nei campi di sterminio tedeschi e polacchi e non consistette solamente nell'Olocausto degli ebrei e nella soppressione scientifica dei diversi in generale (omosessuali, handicappati,...), ma anche nell'eliminazione di milioni di slavi in quanto tali, di nomadi, nonchè naturalmente di comunisti. "Sui campi di concentramento di Dachau, Buchenwald, Sachsenhausen ecc. sono uscite moltissime pubblicazioni. Perch nonè stato pubblicato ancora nulla sui campi di Minsk, Baranowici, Smolensk, Vjasma, ecc.?" (P. Kohl su "KONKRET", 5/'95). Dai fatti del campo di sterminio degli ustasa a Jasenovac, gestito nel 1942-'43 da frati francescani, ai pogrom antiortodossi dell'Ucraina, dalla figura di monsignor Tiso nella Slovacchia nazista ai 70mila villaggi rasi al suolo dalle truppe tedesche in Unione Sovietica, dalle questioni dei confini dell'Oder-Neisse e dei Sudeti al massacro di Kragujevac (le "Fosse Ardeatine" della Serbia: 7300 morti in un solo giorno), troppi episodi pure relativamente recenti sono pressochè sconosciuti qui da noi. Eppure per capire ad esempio che cosa abbia realmente scatenato il conflitto in Jugoslavia, e per rendersi conto di tutto ciò cheuupu ancora scatenarsi nelle ex-democrazie popolari e nei territori della decomposta Unione Sovietica, sarebbe necessario che certi fatti gravissimi accaduti in questo secolo iniziassero a far parte del patrimonio e del senso comune; al contrario, in alcune lingue gli avvenimenti della II Guerra Mondiale nell'Europa Orientale non sono ancora mai stati narrati.

Storie dimenticate si risvegliano dunque nel presente del "dopo guerra fredda" come dopo un letargo. Già nella fase finale del biplarismo uno dei fantasmi ricorrenti è stato il concetto di "Mitteeuropa", n usato dagli intellettuali dissidenti di Ungheria, Slovenia, Croazia ecc. come una specie di parola in codice che doveva segnalare il loro sentirsi parte della cultura politica dell'Ovest. In effetti i paesi dell'ex-blocco sovietico, ma anche Albania e Jugoslavia, non possono essere definiti tutti sic et simpliciter "paesi dell'Est": molte di queste realtà infatti sono a pieno titolo, per posizione geografica, tradizione ed aspirazioni, paesi dell'Europa centrale, e si ritrovano oggi inglobate nella sfera di influenza tedesca, se non sono addirittura in procinto di entrare nell'Unione Europea. Il processo di annessione alla UE dei paesi tradizionalmente legati alla Germania e n all'Austria è un processo pieno di contraddizioni, talvolta addirittura sanguinoso. In ogni caso sarà innanzitutto la RFT a e trarre profitto dall'allargamento della Unione, visto che il 50 per cento degli scambi commerciali della UE con l'Europa dell'Est toccano la Repubblica Federale.

Prendiamo in considerazione il caso più drammatico e pù emblematico di questa transizione: la Jugoslavia. In quanto paese cuscinetto tra NATO e Patto di Varsavia, essa potè giovarsi della sua posizione sia dal punto di vista economico che politico, come capofila del Movimento dei Paesi Non-Allineati. Allo strangolamento dovuto al debito estero si aggiungeva alla fine degli anni '80 la perdita di e quella rendita di posizione. Il fantasma della Mitteleuropa giocava in quella situazione un ruolo davvero destabilizzante: l'unità della Jugoslavia veniva improvvisamente messa a repentaglio sia da forze interne, che chiedevano la secessione per aggregarsi al blocco europeo occidentale, sia da interessi esterni. Facendo leva sui settori politici revanchisti e clericonazisti, attivi anche durante la guerra fredda soprattutto all'estero (gli esuli ustasa organizzavano attentati anche durante gli anni sessanta e settanta), ed attuando la politica dei riconoscimenti sul piano diplomatico, l'Occidente accendeva la scintilla della guerra civile. Risultato: le Repubbliche più ricche erano annesse de facto al blocco europeo occidentale, le altre erano precipitate nella rovina.
Anche la Bosnia-Erzegovina, cuore e fiore all'occhiello della Jugoslavia federativa e socialista in quanto modello di convivenza e sviluppo, cui era stata promessa una rapida integrazione nella UE solo a patto che si separasse a sua volta dal resto della Federazione, veniva presto gettata nell'abisso della guerra fratricida. Qui, come se non bastasse, le rinate forze islamiste, strumentalizzate per gli interessi dell'Occidente da una parte, appoggiate e prese a simbolo dalla Turchia e dai paesi arabi dall'altra, diventavano vera e propria polvere da sparo, suscettibile di esplodere nel cuore del Vecchio Continente.

La mancanza di conoscenze storiche essenziali e la scelta pregiudiziale di appoggiare la transizione al libero mercato hanno determinato, per settori ampi e culturalmente egemoni della sinistra democratica e dei movimenti, l'impossibilità di interpretare correttamente i fatti tragici della Jugoslavia di oggi. Di fronte all'aggravarsi della situazione le sinistre europee occidentali hanno oscillato tra la sospensione del giudizio e la messa sotto accusa del solo nazionalismo serbo, usato come spauracchio dal sistema globale della informazione ed oggetto di una campagna di stampa violentissima (ricordiamo che tutte le grandi stragi terroristiche avvenute a Sarajevo sono state subito imputate ai serbi, benchè siano state commesse da milizi o e musulmane coordinate dai servizi segreti delle potenze occidentali; cfr. ad esempio Michele Gambino su "Avvenimenti" del 20/9/1995 e Tommaso Di Francesco sul "Manifesto" del 3/10/1995). Si è cos arrivati persinoi all'incitamento guerrafondaio in nome della solidarietà e della pace, come negli editoriali di A. Sofri su "l'Unità" di fine agost [1995]. Per correggere questa situazione sarebbe già pùi che sufficiente ritornare a fare uso, in maniera aggiornata e critica ma con tutta la radicalità necessaria, degli strumenti propri del marxismo. Ine particolare, le mosse dell'imperialismo tedesco diventano ogni giorno e più facili da riconoscere. Le nuove banconote in circolazione in Croazia [le kune, che portano lo stesso nome nella moneta in corso legale nello Stato Croato Indipendente clericonazista di Ante Pavelic tra il '41 ed il '44, come a sottolineare una continuità peraltro evidente sotto il profilo non solamente simbolico] sono stampate in Germania. Polonia, Slovacchia, Paesi Baltici, Slovenia, Croazia, Romania, Bulgaria, ecc., forniscono al mercato della RFT materie prime, generi alimentari e manodopera a costo ridottissimo. Nelle parole di Roland Berger, consulente imprenditoriale tedesco: "...Il nostro futuro in quanto paese industriale è quello di un cervello del sistema, non quello di un produttore di profilati di alluminio (...). Dobbiamo riorganizzare la divisione del lavoro tra i vari paesi, secondo il motto: il "know how" in Germania, più e componenti da fuori ed assemblaggio sul posto (dentro o fuori il paese)" ("Der Spiegel", n.18/'94, pg. 154). Ed infatti sono sempre di più le industrie, soprattutto di trasformazione primaria, che vengono "smontate" in Germania e "rimontate" nei paesi dell'Est e del Sud del mondo, dove i costi di produzione sono irrisori.

Nei paesi dell'Europa centro-orientale la Germania sta mettendo in pratica la teoria "dell'arancia" formulata da P. Rohrbach, politico dell'epoca coloniale: secondo tale teoria l'Impero russo doveva sciogliersi nelle sue varie componenti, o perlomeno ridursi in e parti controllabili dalla Germania, proprio come un'arancia viene scomposta nelle sue varie parti per essere mangiata - ma se non si è abili si rischia di danneggiare gli spicchi, ed ottenere alla fine un insieme caotico ed inutilizzabile... Sebbene gli interessi più facili da riconoscere siano quelli dell'imperialismo tedesco, che si riallaccia immediatamente alla sua politica estera dalla seconda metà del XIX sec. al 1945, tuttavia nessuna delle potenze occidentali è indifferente rispetto alle trasformazioni in atto, ed anzi diventano sempre più evidenti anche le mire imperialistiche di Stati come la Turchia ed il Giappone (e persino le pesanti intromissioni della e diplomazia vaticana, che ha aperto contenziosi un po' dovunque per la restituzione dei beni ecclesiastici confiscati dopo la presa del potere da parte dei comunisti). Gli obiettivi sono molteplici, talvolta anche divergenti tra loro, e si vanno ponendo le basi dei futuri conflitti interimperialistici. Gli sconfinati territori dell'ex-Unione Sovietica, ed anche tanti Stati più vicini, come la "nostra" Albani, sono oggi terra di conquista. Con l'occupazione militare della Bosnia da parte della NATO, organismo il cui ruolo è oggi tuttoda chiarire, va costituendosi una testa di ponte militare per l'inserimento ed il controllo in tutta l'area balcanica; per la penetrazione più ad Est cisi avvale anche di altri "grimaldelli" imperialistici, quali: il possibile - e rischiosissimo - ingresso nella NATO dei Paesi Baltici e dell'Ucraina; la destabilizzazione di aree strategiche di eccezionale importanza, come il Caucaso; l'instaurazione, soprattutto da parte di una nuova-vecchia potenza regionale come la Turchia, di legami economici e politici con le repubbliche asiatiche (quelle, per intenderci, il cui nome finisce in "an"); il controllo diretto, anche se non palese, nella vita politica interna degli Stati (si pensi al finto golpe [russo] dell'agosto 1991 ed alle vere cannonate sulla Casa Bianca del 4 ottobre 1993, che provocarono svariate centinaia di vittime e numerosissimi arresti); e così via.

Le società di tutti gli Stati dell'Europa orientale si trovano oggi ad affrontare il trauma della transizione al liberismo, che è caratterizzata non soltanto dalle privatizzazioni e dalla introduzione del mitico "libero mercato", ma anche dal vero e proprio saccheggio della cosa pubblica, dalla svendita e/o dal disfacimento rovinoso di quelle infrastrutture e conquiste che, pure nei limiti e nelle contraddizioni evidenti, si erano costruite nel corso di un settantennio (cfr. "Le Monde Diplomatique", 12-1995). Le classi dirigenti politiche ed economiche che guidano tale transizione non sono all'altezza del compito, e spesso il potere reale in questi paesi è detenuto dalla criminalità, forte degli appoggi a livello interno (fin dentro i governi: si pensi al caso di Graciov in Russia) ed internazionale. Nella Federazione Russa la produzione cala del 26% annuo, più della metà dei beni di consumo vengono importati, un numero imprecisato di lavoratori non percepisce più lo stipendio, svariate decine di milioni sono i disoccupati e tantissimi i senzatetto. Contemporaneamente, la mafia impone il pizzo sull'80% delle attività economiche e fa incetta di immobili e beni pubblici, controlla il fiorente traffico di armi e droga, e candida i suoi rappresentanti al Parlamento.

Negli ultimi tempi si è verificata una forte crescita dei consensi per i partiti ex- o post-comunisti, ad esempio quello russo di Zuganov. Tutte le forze che mostrano di riprendere quota in molte delle ex-democrazie popolari si giovano della opposizione sociale alla pesante ristrutturazione in atto. Spesso però si tratta di una opposizione politicamente ed ideologicamente poco cosciente: i comunisti hanno il dovere di dare ad essa una forma e delle prospettive, per non correre il rischio che lo stesso moto di protesta alimenti i settori della destra populista, nazionalista e fascista. Il fenomeno è molto simile a quello che avviene nello stesso tempo in Occidente, anche in Italia, dove la opposizione popolare all'estremismo liberista ed allo sfascio dello Stato sociale spesso è rappresentata politicamente dalle destre, mentre i comunisti tardano a costruire una analisi ed una strategia unitarie, adeguate ai cambiamenti in atto.
Le formazioni politiche di sinistra vittoriose in Polonia, Ungheria, Bulgaria, ecc. (ma anche, ad esempio, la PDS della Germania orientale), benchè siano spesso filiazioni degli apparati dei vecchi Partitie Comunisti, perseguono generalmente una politica moderata, magari con diverse sfumature ed accentuazioni di tono, e genuinamente socialdemocratica, visto che spesso si limitano a chiedere l'introduzione di correttivi e paracaduti sociali per attutire l'impatto della ristrutturazione. Talvolta questi partiti sono apertamente schierati a favore dell'ingresso dei rispettivi paesi nella Unione Europea e nella NATO [Si veda il recentissimo "successo" dei socialisti polacchi, che hanno ottenuto l'ingresso nella NATO a metà del 1996]. Ciononostante, in Occidente le loro affermazioni elettorali sono viste ugualmente con sconcerto.

E' istruttivo notare come le manifestazioni della degenerazione di tutti gli aspetti della vita nelle società post-sovietiche e post-socialiste vengano riportate dai mezzi di informazione nostrani in modo frammentario, con un tono quasi aneddotico e divertito, senza ricollegarle mai alla loro scaturigine, e cioè la transizone al capitalismo reale. In perfetta malafede si tenta di avvalorare la tesi secondo cui le difficoltà odierne sarebbero da imputare ad una transizione imperfetta, e quindi, di nuovo, al passato "comunista"; superata la crisi, l'economia di mercato dovrebbe invece garantire una migliore qualità della vita. Egor Ligaciov, numero due del Cremlino al tempo di Gorbaciov, intervistato da un giornalista di "Repubblica" (18/3/1992) disse di non credere a tale possibilit:®No. Io credo in quello che vedo: l'assoluto impoverimento del nostro popolo. Ed una n condizione che conosco da vicino, perchè vivo come tutti, con una pensione di 500 rubli al mese..."


Il presente documento, con leggerissime modifiche, è stato prodotto all'inizio del 1996 dalla Commissione di Politica Internazionale della Federazione romana del Partito della Rifondazione Comunista (COPIR). Lo riproduciamo qui in accordo con gli autori ed il responsabile del COPIR; le note tra parentesi quadre sono nostre.