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NOTIZIE EST #228 - BALCANI
18 maggio 1999


UNA CONFERENZA EUROPEA PER I BALCANI
di Lucas Delattre - ("Le Monde", 15 maggio 1999)


Sebbene l'esito della guerra in Kosovo rimanga incerto, la riflessione sul dopoguerra è già cominciata in tutte le capitali coinvolte nel conflitto. Sarà necessario un vasto sforzo di ricostruzione mirato ad aiutare i paesi della regione a superare le dure prove a cui sono stati sottoposti dal conflitto, a rimediare a un ritardo economico che esisteva già prima degli attacchi della NATO e anche a integrarli, a più lungo termine, nelle strutture dell'Unione Europea.

L'idea di un "piano Marshall" per i Balcani sta prendendo forma parallelamente al precisarsi della riflessione sul dopoguerra in Kosovo. Il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder ha utilizzato più volte questo termine nel corso delle ultime settimane. Il primo ministro britannico, Tony Blair, ha fatto lo stesso, così come i dirigenti albanesi e macedoni... Il riferimento storico ha il compito di fare comprendere alle varie opinioni pubbliche l'ampiezza della ricostruzione dei Balcani. Per tale ricostruzione saranno necessari degli sforzi umani e finanziari molto più importanti di quelli messi in atto nel quadro delle operazioni umanitarie in corso (per i quali si tratta di cifre dell'ordine di centinaia di milioni di dollari). La Banca Mondiale e la Commissione europea hanno appena dato vita, il 12 maggio a Londra, a una task force incaricata di coordinare gli aiuti finanziari destinati a finanziare la ricostruzione.

I primi lineamenti di quello che sarà il dopoguerra verranno tracciati in occasione di una grande conferenza internazionale, che si terrà a Bonn il 27 maggio. Al centro dei lavori: un "patto di stabilità per l'Europa sudorientale" presentato dalla Germania qualche giorno fa e che dovrebbe servire da base per il ristabilimento di un ordine di pace durevole per la regione nel suo complesso. La scelta di non incentrare l'incontro sui "Balcani", ma sull'"Europa sudorientale" ha lo scopo di evitare ogni confusione con le conferenze balcaniche della fine del secolo scorso.

Si parlerà del costo della ricostruzione. "Potrà essere di 10, 20, 30 miliardi di dollari. E' impossibile valutarlo, al momento, perché è una situazione in perpetua evoluzione", aveva anticipato qualche settimana fa il commissario europeo Yves-Thibault de Silguy. Il fabbisogno "sorpasserà probabilmente" i 5,1 miliardi di dollari (4,68 miliardi di euro) di aiuti per la ricostruzione stanziati per la Bosnia dopo il conflitto del 1992-1995, una somma della quale più della metà è già stata spesa. Il nuovo presidente della Commissione europea, Romano Prodi, ha parlato di un aiuto europeo di circa 5 miliardi di euro all'anno ai paesi colpiti dalla guerra in Kosovo.

Verranno messi dunque in atto degli ingenti programmi finanziari per garantire la ripresa economica di una regione che era già sull'orlo del fallimento economico prima degli attacchi aerei della NATO. Il FMI e la Banca Mondiale, che hanno cominciato a studiare il dossier, stimano che l'arretramento delle economie della regione sarà, a causa della guerra, notevole; il PIL dei cinque paesi più toccati dal conflitto (Albania, Bosnia, Croazia, Jugoslavia, Macedonia) dovrebbe subire un calo del 5%.

I dirigenti francesi ritengono che il termine "piano Marshall" non sia stato scelto molto bene. Utilizzandolo, dicono, si dà una connotazione americana a un programma che dovrebbe essere ispirato, finanziato e messo in atto in misura maggioritaria dagli europei. "E perché non parlare di un piano Wesley Clark, già che ci siamo", si fa notare nell'entourage del ministro degli esteri francese Hubert Védrine. Così come in Bosnia, gli europei saranno in prima linea per la gestione del dopoguerra: "Ancora una volta, sembra che gli americani paghino per le bombe e noi, europei, per la ricostruzione", sottolineava qualche giorno fa nello Spiegel Jonathan Eyal, specialista britannico in questioni strategiche. In Bosnia, dopo gli accordi di Dayton (novembre 1995), l'Europa ha fornito i due terzi dell'aiuto alla ricostruzione, se si sommano gli aiuti della Commissione europea a quelli forniti dai paesi membri a titolo bilaterale (in particolare, l'Olanda e l'Italia sono i principali donatori, mentre la Francia occupa una posizione decisamente più arretrata).

Ma soprattutto, il dopoguerra in Kosovo sarà molto più complesso da organizzare rispetto a quanto non sia stato per l'Europa Occidentale dopo il 1945, anche se i cinque paesi più toccati dalla guerra non rappresentano in totale che una popolazione di 25 milioni di abitanti. "Non sarà un problema soprattutto di soldi", sottolinea un consigliere di Hubert Védrine. I paesi della regione balcanica, a differenza dell'Europa Occidentale del 1945, non potranno creare una dinamica regionale per conto proprio.

Nell'Europa del 1947 vi erano una coesione e una volontà politica che mancano completamente oggi nei paesi dell'Europa sudorientale. La volontà di riconciliazione è assente oggi dai Balcani. "Si tratta di una regione molto eterogenea", sottolinea il testo del "patto di stabilità" presentato dai tedeschi. Si fa notare con costernazione, al Quai d'Orsay, che la Romania e la Bulgaria non riescono in alcun modo a comprendersi, da svariati mesi, sull'ubicazione di un ponte che attraversi il Danubio.

Nell'ambito della conferenza di Bonn del 27 maggio dovrà essere offerta a tutti questi paesi, ivi compresa la Serbia, una prospettiva di integrazione nell'Unione Europea. Ma i dirigenti europei non hanno mai definito una linea strategica chiara a questo proposito... Il giorno in cui la Serbia entrerà nell'Unione Europea, sarà possibile chiudere la porta alla Turchia? I dirigenti europei si accontentano per il momento di evocare degli accordi di associazione con la Macedonia e l'Albania. "I cinque paesi di devono integrare pienamente nell'Unione nel 2010", si può leggere in un documento di lavoro presentato qualche giorno fa a Bruxelles dal molto influente Centre for European Policy Studies.

L'esempio della Bosnia-Erzegovina mostra che le ferite del conflitto rischiano di essere molto lunghe a cicatrizzarsi. Un po' più di tre anni dopo gli accordi di Dayton, la Bosnia viene mantenuta in stato di pace unicamente grazie a una presenza militare internazionale considerevole (i 30.000 soldati della SFOR). La regione è diventata un protettorato internazionale nel quale i minimi dettagli della vita quotidiana (ivi compresa la forma delle targhe di circolazione e delle banconote) vengono dettati dall'Alto rappresentante della comunità internazionale, lo spagnolo Carlos Westendorp.

"La Bosnia ha fermato i massacri, ma non ha terminato la guerra", sottolineava recentemente di fronte a un pubblico britannico il vice dell'Alto rappresentante, il diplomatico americano Jacques Klein. Il ritratto che egli ha fatto della Bosnia è particolarmente deprimente: "Nessun partito politico, nessun potere giudiziario indipendente, nessuna legge, nessuna attività economica degna di nota...". Egli ha inoltre sottolineato la diffusione della corruzione, soprattutto nella polizia.

L'idea di un "piano Marshall" per la Bosnia è affascinante, ma poco adatta alla situazione presente. Come la Russia post-comunista, i Balcani non possono trovare una via di uscita nelle donazioni o negli aiuti finanziari, contrariamente a quanto è avvenuto per l'Europa Occidentale dopo il 1945. "Nel piano Marshall, l'aiuto era stato coordinato dai beneficiari", ricorda Ivan Samson, economista specializzato nello studio della transizione nei paesi dell'Est, presso l'università di Grenoble. Oggi non può più essere così.

L'esempio della Russia mostra i limiti di un approccio ispirato al piano Marshall. Gli aiuti internazionali forniti alla Russia tra il 1991 e il 1996 rappresentano un volume equivalente al 10% del suo PIL annuale, secondo i calcoli di Ivan Samson. Gli aiuti forniti con il piano Marshall hanno costituito, da parte loro, l'equivalente del 2% del PIL annuale dei paesi beneficiari tra il 1947 e il 1951. Nonostante questo, l'economia russa è oggi praticamente in stato di fallimento.