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NOTIZIE EST #149 - JUGOSLAVIA/KOSOVO
21 gennaio 1999


IL MASSACRO DI RACAK E IL SUO CONTESTO / 2
a cura di Andrea Ferrario


LE REAZIONI INTERNAZIONALI

Tutti i rappresentanti delle grandi potenze (Russia esclusa) hanno ovviamente espresso il loro sdegno per quanto accaduto e, in un secondo tempo, hanno espresso minacce nei confronti di Belgrado, anche di tipo militare. Tuttavia, un esame più completo delle varie dichiarazioni dà un quadro ben più complesso. A caldo, il 16 gennaio, il portavoce della Casa Bianca Rubin ha dichiarato che "Albright chiede a Milosevic di identificare chi ha dato gli ordini e chi ha intrapreso questa azione [sic], garantendo che gli autori ne rispondano di fronte alla giustizia. Vogliamo che i serbi collaborino alle indagini del Tribunale Internazionale sui Crimini di Guerra su questa atrocità ", una dichiarazione importante, perché indica subito per l'ennesima volta in Belgrado il primo interlocutore di Washington. Clinton ha poi condannato personalmente "il massacro di civili compiuto dalle forze di sicurezza serbe", aggiungendo subito che "tali uccisioni non devono innestare una spirale di rappresaglie. Entrambe le parti hanno la responsabilità di lavorare verso una soluzione di pace di questa crisi" (Reuters, 16 gennaio).

Lo stesso giorno, il capo dei verificatori OSCE in Kosovo Walker ha dichiarato, a proposito del massacro di Racak, che "queste gravi violazioni del diritto umanitario internazionale costituiscono una chiara violazione degli impegni presi dalla Federazione Jugoslava con gli accordi di ottobre, e delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza 1199 e 1203" (Reuters, 16 gennaio). Quest'ultimo è stato il primo accenno, per quanto indiretto, alla possibilità di un intervento NATO, che tali risoluzioni prevedevano in caso di violazioni. Tuttavia, come riferisce il "Corriere della Sera" del 17 gennaio, Walker "pur accusando i serbi della strage, ha denunciato il rifiuto di entrambe le parti, autorità federali e separatisti albanesi, di cooperare con i verificatori dell'OSCE [...]" e ha reso alcune dichiarazioni decisamente altezzose, affermando che" 'la gente di questa regione è esasperante. E' paranoica. Continuano a metterci alla prova, come se volessero capire fin dove possono spingersi nel loro ostruzionismo' e inoltre: 'Siamo sospettati di essere delle spie. Ma non sappiamo nemmeno chi dirige l'UCK. Tutto quello che qui si vede sono degli uomini correre in uniforme. Non sono militari. Si danno ranghi e titoli che non significano niente' ("Corriere della Sera", 17 gennaio). Walker, nel suo accesso di stizza, non si è evidentemente accorto di avere usato per descrivere l'UCK parole che andrebbero a pennello per descrivere la missione OSCE di cui è capo.

Lunedì 18 gennaio alla Casa Bianca si è svolta una riunione sulla situazione in Kosovo, ma è significativo che non vi abbia partecipato Clinton e soprattutto che i funzionari che vi prendono parte sono tutti viceresponsabili dei relativi settori, un fatto che sminuisce un po' le minacce espresse lo stesso giorno dal segretario generale della NATO Solana, il quale ha affermato che l'"activation order" deciso a ottobre per colpire eventualmente obiettivi militari jugoslavi rimane in vigore", o quelle del comandante supremo della NATO Clark secondo cui la missione che si accingeva a compiere avrebbe avuto il compito di "rendere ben chiara alle autorità jugoslave la gravità della situazione". Va notato inoltre che Solana, parlando successivamente della forza di estrazione NATO in Macedonia, ha detto che essa è composta da 2.300 uomini, vale a dire che è stata aumentata notevolmente rispetto alla cifra prevista inizialmente di 1.700 uomini (Reuters, 18 gennaio).

Il 18 gennaio Douglas Hamilton scrive il seguente commento per la Reuters: "La NATO afferma che rimane in effetto la minaccia di usare le proprie forze aeree per impedire alle forze jugoslave di impiegare i loro preponderanti mezzi corazzati contro i villaggi sospettati di accogliere i guerriglieri dell'UCK, dotati di armi leggere. Ma l'affermazione di domenica non contiene alcuna minaccia esplicita e nessun elemento del linguaggio da 'affilar di sciabole' delle precedenti crisi nel Kosovo. Sembra invece che gli alleati siano intenzionati a chiedere una serie di consultazioni e, forse, l'intervento per l'ennesima volta dell'inviato USA Richard Holbrooke per decidere come cercare di salvare il loro impegno a 'impedire un'altra Bosnia' in Kosovo. Come il comandante supremo della NATO Clark aveva previsto, Milosevic sta ancora una volta gettando il guanto della sfida alla NATO, contando sul fatto che buona parte degli alleati è preoccupata di evitare che "l'ago della bilancia" si sposti a favore dell'UCK. Clark ritiene che la leadership serba sia seriamente intenzionata a passare a una nuova offensiva a tutto campo per far fuori l'UCK, indipendentemente da quali ne saranno le conseguenze per i civili albanesi. Un tale fatto metterebbe l'Occidente di fronte a una catastrofe umanitaria che esso ha affermato di volere evitare. [...] Il rifiuto, da parte dell'Occidente, di appoggiare l'indipendenza del Kosovo e l'incapacità da parte degli albanesi di unirsi intorno a una strategia che richieda qualcosa di meno ha bloccato la diplomazia" (Reuters, 18 gennaio).

Sempre lo stesso giorno, il quotidiano "Danas" scrive che il ministro di stato presso il ministero federale degli esteri tedesco Ludger Folmer ha affermato che "vi sono intese per un intervento militare NATO in Kosovo, ma che vi sono dubbi sull'utilità di una tale azione" ("Danas", 18 gennaio). Molto più deciso sembra essere il ministro degli esteri inglese Robin Cook. Ecco cosa ha dichiarato alla Reuters: "'Se Belgrado non ha ordinato il massacro, se non ne è stato complice e condivide la nostra preoccupazione per il numero di morti civili, può provare tutto questo consentendo al tribunale per i crimini di guerra di condurre un'indagine appropriata' ha dichiarato Cook. Egli ha evitato di condannare direttamente Belgrado per le uccisioni di Racak [...] e ha accusato l'UCK di violazioni ripetute del cessate il fuoco, nonché di bloccare il dialogo politico, rivolgendosi all'organizzazione con le seguenti parole: 'Nessuno può vincere questa guerra. L'UCK non può sconfiggere l'esercito jugoslavo e invece di liberare il popolo del Kosovo può solo prolungarne le sofferenze'. [...] Cook ha inoltre rifiutato le richieste di scegliere tra un ritiro dei verificatori e l'invio di truppe di terra: 'Cosa dovrebbe mai fare un corpo di spedizione? Dovrebbe prendere di mira sia l'UCK che le forze di sicurezza jugoslave? Nelle attuali circostanze non si potrebbe fare che questo', ha detto, aggiungendo che attacchi aerei contro obiettivi militari jugoslavi non avvicinerebbero in alcun modo l'obiettivo di portare di fronte alla giustizia i responsabili del massacro". Cook ha poi invitato l'UCK ad aprire trattative sulla base della proposta Hill per un periodo temporaneo di tre anni e ha riaffermato che la Gran Bretagna si oppone all'obiettivo di indipendenza dell'UCK, sostenendo che il vero obiettivo della guerriglia è quello di creare una Grande Albania che destabilizzerebbe la regione (Reuters, 18 gennaio).

La Russia, molto interessata a una presenza OSCE piuttosto che NATO, ha criticato Belgrado per la decisione di espellere il capo della missione internazionale dei verificatori, ma l'ambasciatore russo a Belgrado Lavrov ha comunque affermato, dopo il massacro, che i guerriglieri dell'UCK "mantengono un atteggiamento che non può inevitabilmente che scatenare una controreazione" (Reuters, 18 gennaio).

Il 18 gennaio la Reuters pubblicava un altro commento, questa volta a firma di Paul Taylor, nel quale si scrive tra le altre cose: "La decisione dell'alleanza occidentale di inviare i suoi due maggiori generali a Belgrado lunedì [visita poi rimandata a martedì - a.f.] per dare un altro avvertimento al presidente jugoslavo Milosevic in seguito al massacro di 45 albanesi nel villaggio di Racak maschera una mancanza di accordo sull'azione militare da intraprendere o sui suoi obiettivi politici, sostengono diplomatici ed esperti. 'L'umore generale è quello della 'Ratlosigkeit', afferma un alto funzionario tedesco, usando un parola tedesca che significa sia impossibilità di scampo che mancanza di idee. 'Stiamo cercando di mettere una pezza alla situazione. Nessuno ha la minima idea di come si possa uscire da questa situazione' ha affermato. Alcuni esperti vedono i primi segni di una frattura dagli effetti potenzialmente gravi tra gli Stati Uniti e alcuni alleati europei sull'uso della forza e sugli obiettivi politici in Kosovo, che fanno tornare alla mente gli anni di divisione della guerra in Bosnia tra il 1993 e il 1995. [...] Nonostante la NATO ricordi che l''activation order' per i bombardamenti rimane in vigore, i diplomatici affermano che non vi è la stessa volontà politica di usare la forza che vi era in ottobre e che ci vorranno spargimenti di sangue di gran lunga maggiori per creare un consenso intorno ai bombardamenti. In una situazione che ricorda quella della Bosnia, la presenza dei verificatori OSCE rende l'azione militare occidentale più difficile, dato che innanzitutto tali verificatori dovrebbero essere ritirati - una mossa che quasi certamente scatenerebbe una crisi con la Russia [...]" (Reuters, 18 gennaio).

Il segretario generale della NATO Solana ha detto lunedì che gli attacchi aerei sono 'l'ultima risorsa per il momento in cui tutte le altre si saranno esaurite'. Egli ha chiesto il proseguimento della missione OSCE, affiancata da sforzi diplomatici [...]. Alcuni esperti ritengono che gli Stati Uniti [...] stiano cominciando a prendere in considerazione un più decisivo impiego della potenza aerea, non curandosi del rischio di promuovere di fatto l'indipendenza del Kosovo. 'Comincio a intravedere segni di divisione che mi sono familiari. Gli americani sono maggiormente disposti a prendere in considerazione l'uso della forza... con l'obiettivo di spingere le forze di sicurezza fuori dal Kosovo', afferma Dana Allin, un esperto di politica balcanica presso l'International Institute for Strategic Studies. Ma la Francia e molti altri alleati europei sostengono che ogni mossa verso l'indipendenza del Kosovo destabilizzerebbe i Balcani meridionali ed esporrebbe al rischio di una guerra maggiore. Memori del devastante precedente bosniaco, gli alleati evitano discussioni pubbliche sull'argomento. Ma gli eventi sul terreno potrebbero costringerli a uscire allo scoperto nel 'rush' finale prima del summit NATO dall'alto significato simbolico che si terrà ad aprile a Washington per celebrare i 50 anni dell'alleanza. Per il momento il dibattito è largamente limitato ai "think-tank" della politica e agli editoriali di giornali specializzati". (Reuters, 18 gennaio).

Il 19 gennaio il quotidiano serbo "Dnevni Telegraf" riferisce della riunione della NATO svoltasi il giorno precedente: la NATO chiede alle autorità jugoslave di riportare le proprie forze a livelli conformi agli impegni presi a ottobre, specificando che "del comportamento di tali forze sarà personalmente responsabile il presidente Milosevic". La NATO chiede inoltre nuovamente alla Jugoslavia di "intraprendere passi per garantire che coloro che sono responsabili di tale massacro debbano rispondere di fronte a un tribunale". Lo stesso giorno, il corrispondente da Bruxelles del quotidiano "Nova Makedonija" riferiva della decisione della NATO di attendere l'esito della missione dei suoi due inviati a Belgrado e i risultati di un'indagine del Tribunale dell'Aja e scriveva che la "NATO vuole essere sicura di cosa sia veramente accaduto a Racak prima di attribuire la colpa solo a una parte del conflitto, come ha fatto l'OSCE, e prima di impegnarsi nuovamente con un'azione militare" ("Nova Makedonija", 19 gennaio) e probabilmente non è un caso che il giorno successivo un grande quotidiano di un paese NATO con una chiara linea politica nei Balcani, il francese "Figaro", abbia annunciato l'imminente pubblicazione di un articolo con rivelazioni sul massacro di Racak, rivelatesi poi unicamente congetture avulse dal contesto degli eventi, anche se purtroppo di sicuro effetto mediatico ("Radio Popolare", 20 gennaio). Il 19 gennaio si è riunito il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, il quale ha condannato il massacro, ma, come scrive l'AFP, "si è guardato bene dal minacciare Belgrado di intervenire nel caso della mancata collaborazione con chi conduce indagini sui crimini di guerra". Il Consiglio di Sicurezza ha inoltre "energicamente messo in guardia l'UCK dal contribuire ad aumentare le tensioni". Gli Stati Uniti, lo stesso giorno, facevano quattro richieste alle autorità jugoslave: non espellere il capo OSCE Walker, consentire un'indagine internazionale ONU sul massacro, portare davanti alla giustizia i responsabili del crimine e, con termini molto generici, "invertire la crescente tendenza a compiere violazioni di dispiegamento e numeriche", riferendosi evidentemente, anche se in modo alquanto criptico, agli ingenti ridispiegamenti di forze pesanti serbe in tutto il Kosovo (AFP, 19 gennaio).


IN SERBIA: LA COOPTAZIONE DI DRASKOVIC

Il 15 gennaio il corrispondente da Belgrado di "Nova Makedonija", Tatjana Stankovic, ha anticipato di qualche giorno la notizia dell'entrata di Vuk Draskovic nel governo federale jugoslavo, una notizia che in termini vaghi circolava già da alcune settimane. Ecco gli interessanti particolari riportati dal quotidiano di Skopje: "Quando prima di Capodanno il premier [federale] Bulatovic ha annunciato un'imminente rimpasto di governo e Vuk Draskovic ha dichiarato che il suo partito, lo SPO, per il bene dello stato e per la difesa del Kosovo si sarebbe sacrificato, qualora fosse stato necessario, anche entrando nel governo, è diventato chiaro che le voci che circolavano avevano fondamento.[...] Fonti vicine al Partito Socialista dichiarano che l'accordo è stato raggiunto con contatti diretti tra Milosevic e Draskovic e che l'unica condizione posta da Draskovic sarebbe stata che nel governo non vi fosse nessun radicale. Secondo le medesime fonti, già a metà dicembre Milosevic avrebbe proposto al presidente del Montenegro, Milo Djukanovic, una forma di compromesso che avrebbe permesso alla coalizione al governo in Montenegro di riconoscere finalmente il governo della Federazione Jugoslava. Tale compromesso, secondo queste fonti, avrebbe al proprio centro la sostituzione del premier federale Bulatovic, la cui attuale carica i montenegrini non riconoscono, ma alla condizione che sulla poltrona di premier non si insedi alcun esponente della DPS, il partito di Djukanovic, quanto piuttosto una personalità indicata dal DPS, ma che provenga dalle fila di eminenti esperti. Oltre a ciò, la condizione di Milosevic sarebbe che nella Camera delle Repubbliche del Parlamento federale rimangano i sei deputati di Momir Bulatovic [che il parlamento montenegrino, controllato dal partito di Djukanovic, non ritiene come propri rappresentanti - a.f.]. La dirigenza montenegrina ha ritenuto che solo a un primo sguardo tale accordo con Milosevic poteva sembrare attraente, se si tiene conto del fatto che il presidente jugoslavo in tali condizioni potrebbe continuare a tenere sotto il controllo le due camere del Parlamento della federazione jugoslava e potrebbe continuare a bloccare ogni decisione del governo della Jugoslavia che non gli risulterà conveniente, oppure potrà cambiare il premier e il gabinetto ogni volta che lo vorrà, e pertanto la proposta è stata rifiutata. A Belgrado, intanto, la prima reazione dei radicali alla notizia della probabile entrata della SPO di Draskovic nel governo federale è stata la battuta del loro leader Seselj secondo cui in tal caso i radicali diventerebbero la maggiore forza di opposizione nel Parlamento federale" ("Nova Makedonija", 16 gennaio).

Draskovic ha reso il 18 gennaio, subito dopo essere stato nominato vicepremier del governo federale, le seguenti dichiarazioni alla televisione TV Kanal 9: "Le trattative per un'eventuale entrata dello SPO nel governo Federale durano ormai da alcuni mesi e sono ormai terminate. Lo SPO deve entrare nel governo perché lo stato e la nazione sono in questo momento esposte a un pericolo senza precedenti". Draskovic ha proseguito affermando: "in questo governo mi occuperò di affari esteri e dei rapporti internazionali del nostro paese". Draskovic ha quindi ricordato che lo SPO nel corso delle trattative per il rimpasto del governo federale ha continuamente insistito affinché si rispettasse la volontà espressa dal popolo montenegrino nelle ultime elezioni, ovvero che nella Camera dei Cittadini la coalizione di Djukanovic abbia più deputati del partito di Bulatovic e che alla Camera delle Repubbliche il rapporto sia proporzionale. "Lo SPO entra nel governo federale anche allo scopo di contribuire al superamento delle momentanee divergenze tra la Belgrado ufficiale e la Cetinje [sede della presidenza del Montenegro] ufficiale, nonché al raggiungimento di una pacificazione all'interno dello stesso Montenegro". Egli ha poi proseguito affermando che bisogna "procedere a una riforma radicale della società, in primo luogo con l'adozione di una nuova legge moderna ed europea sull'informazione. Dobbiamo cercare di cambiare la nostra politica estera, affinché non sia una politica di scontro con gli USA, l'UE e la NATO, bensì una politica che trasformi i nemici in amici e che spieghi la sacra verità sul Kosovo. Dobbiamo portare a una pace tra Belgrado e Podgorica [...]. Vogliamo fare la pace con la comunità internazionale, partecipare ai forum internazionali, per difendere il Kosovo, per garantire quanto prima un afflusso di capitali stranieri [...]. Il nemico del nostro partito è il concetto di Grande Albania. Se la NATO non vuole chiudere il confine con l'Albania, le nostre forze di sicurezza dovranno rendere tale confine impenetrabile. Viviamo in tempi in cui alcuni singoli serbi, per avidità, sono disposti a contrabbandare armi a favore dei nemici della Serbia. Per questo anche i confini interni devono essere rigorosamente controllati. La lotta fatale per il Kosovo ora è cominciata. O entro marzo verrà raggiunto un accordo, oppure da marzo comincerà quello che i nostri nemici vogliono - la lotta sul terreno di guerra. Non ci può essere un Kosovo indipendente, non ci può essere una repubblica del Kosovo, tutto il resto ci può essere". ("Danas", 19 gennaio). Il capogruppo parlamentare dello SPO, Mikovic, ha reso al quotidiano "Blic" dichiarazioni analoghe: "Bulatovic ha deciso di chiedere allo SPO e al partito di Djukanovic se sono disposti a condividere le responsabilità del governo in questo difficile momento. Poiché il nostro partito è l'unica organizzazione che abbia abbondanti contatti con l'estero, al nostro presidente, Vuk Draskovic, è stato offerto il posto di vicepresidente del governo incaricato dei rapporti internazionali e ci sono stati inoltre proposti alcuni portafogli ministeriali, tra i quali quello di ministro dell'informazione, che in questa situazione è di estrema importanza", ha detto Mikovic. A tale proposito va segnalato che due giorni fa è stato annunciato che uno dei quotidiani non controllati dal governo che era stato colpito dalla legge sui media dell'ottobre scorso e non poteva più essere stampato in Serbia, e cioè "Danas", ha ottenuto il permesso per riprendere le pubblicazioni nel paese. Mikovic ha poi proseguito affermando che Draskovic si è consultato con il patriarca ortodosso Pavle, il quale gli ha detto che "per alcuni obiettivi, come la conservazione del Kosovo, la conservazione dello stato e la conservazione del popolo è necessario adottare delle mosse politiche rischiose" ("Blic", 19 gennaio).

L'occidente si scaglia spesso verbalmente contro Milosevic e il suo regime, ma rimane un fatto che la Jugoslavia rimane comunque un rilevante oggetto dei suoi interessi. Secondo il "Dnevni Telegraf", nel 1998 la Jugoslavia ha ricevuto aiuti di vario tipo per un totale di 100 milioni di dollari: si va dai 40 milioni dell'ONU per i profughi, ai 13 milioni del Programma mondiale per il cibo, ai 13 milioni della Fondazione Soros per i media, la cultura e le cure mediche, ai 3,9 milioni dell'UNICEF ("Dnevni Telegraf", 18 gennaio). Il settimanale "Vreme" ha pubblicato un dettagliato servizio sulle modalità di vendita alla francese Lafarge della società produttrice di cemento Beocin, un'operazione da centinaia di miliardi alla quale abbiamo già accennato e sulla quale torneremo con maggiori particolari. E' interessante che tale accordo, che prevede la fornitura di un importante prestito al governo serbo, sia anch'esso avvenuto in coincidenza con l'inasprimento delle (costose) offensive serbe e il manovrare politico per l'allargamento della coalizione di governo a Belgrado. A tale proposito, "Vreme" scrive che "a differenza della vendita di metà della Telekom [per cui l'italiana STET, controllata dal governo, ha versato alla vigilia del conflitto in Kosovo 900 miliardi nelle casse di Belgrado - a.f.], due anni fa, quando tutto era stato organizzato all'interno della più stretta cerchia di Milosevic, oggi la vendita del cementificio ha coinvolto una ampia cerchia di attori della sfera politica". Inoltre, l'affare non è davvero di poco conto: la francese Lafarge, scrive "Vreme", sarebbe riuscita a battere il principale concorrente perché ha reso immediatamente disponibile un prestito di 95 miliardi al governo serbo, senza attendere la fine delle sanzioni. Inoltre, con l'acquisto della Beocin, i francesi dovrebbero fare affluire nei prossimi anni tra i 350 e i 700 miliardi di capitali freschi ("Vreme", 9 gennaio). Dei contratti firmati in Serbia dall'italiana Iveco e, soprattutto, dalla svedese Ericsson (con un contratto da ben 350 miliardi), abbiamo già riferito in "Notizie Est" #134, 29 dicembre 1998. Si può aggiungere ancora il particolare folcloristico, riportato dal settimanale "NIN", secondo cui, grazie alla fitta presenza di verificatori, diplomatici e giornalisti, la Ericsson sta facendo buoni affari in Kosovo con i suoi prodotti per telefonia ("NIN", 14 gennaio).

Infine, va segnalata come legata anche alle vicende kosovare la notizia delle dimissioni di Nano da presidente del Partito Socialista, dimissioni che non sono sicuramente estranee al nuovo contesto politico venuto a crearsi con il riavvicinamento tra il premier socialista Majko e l'ex presidente Berisha (si veda "Notizie Est" #147, 19 gennaio). A tale proposito, non si può non rilevare che negli ambienti kosovari più vicini a Rugova l'ex primo ministro albanese viene bollato come protettore dell'ala "marxista-leninista" dell'UCK, anche se ovviamente nel più che complesso gioco di schieramenti all'interno degli schieramenti albanesi del Kosovo ogni tale presa di posizione va presa con molta cautela.

(continua)