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NOTIZIE EST #153 - JUGOSLAVIA/KOSOVO
28 gennaio 1999


IL MASSACRO DI RACAK E IL SUO CONTESTO / 6


PERCHE' RACAK?
di Andrea Ferrario

Come abbiamo già scritto all'inizio del primo articolo di questa serie sul massacro di Racak e il suo contesto, la strage del 15 gennaio non è stato un evento casuale di una guerra disordinata, bensì il culmine di un'escalation durata esattamente un mese e che ha avuto una sua evidente logica interna, della quale ripercorriamo qui brevemente lo sviluppo. All'inizio di dicembre vi è stata la presentazione della seconda bozza del piano Hill, che faceva un sostanziale passo indietro sui piani di autonomia del Kosovo, vincolando maggiormente la provincia al controllo serbo rispetto a quanto non prevedesse la prima versione, che già prospettava un'autonomia minore rispetto a quella tolta con la forza e con mezzi illegali dal regime di Belgrado nel 1990. Nei giorni successivi e fino alla vigilia di Natale vi è stata tutta una serie di azioni violente, le più eclatanti delle quali si sono svolte in centri urbani del Kosovo, con modalità e situazioni che rendono impossibile attribuirne una responsabilità (la strage di Pec del 14 dicembre, per esempio), ma che hanno avuto due effetti importanti: da una parte sul fronte interno serbo hanno portato a un clima ancora maggiore di unità nazionale tra le forze politiche di Belgrado, dall'altro sono state il pretesto per un ampio ridispiegamento di contingenti e mezzi pesanti serbi lungo un asse centrale nord-sud che divide la parte orientale e strategicamente più importante del Kosovo da quella occidentale (Dukagjin o Metohija), un'operazione che ha permesso di coinvolgere per la prima volta massicciamente l'Esercito jugoslavo (in precedenza erano principalmente le forze speciali della polizia ad agire) dopo le epurazioni condotte al suo interno. Questa strategia ha avuto il suo culmine nell'offensiva di Podujevo, che ha avuto la punta di massima intensità tra il 23-24 dicembre (ma è ripresa ieri con intensità ancora maggiore) e in quella di Racak e dintorni, durata all'incirca dal 10 al 20 di gennaio, mentre ampie offensive militari sono state condotte contemporaneamente con gli stessi pretesti anche nelle zone prossime al confine con l'Albania. Come abbiamo già visto, tutto ciò è venuto nel contesto di attacchi diplomatici sempre più frequenti nei confronti dell'UCK, soprattutto da parte degli europei, e di una sostanziale divisione interna all'amministrazione americana, grosso modo tra la linea più "diplomatica" di Holbrooke e quella più interventista di Gelbard e Clark. Inoltre, in tale periodo non è stata raggiunta alcuna forma di politica unitaria all'interno del movimento albanese, che rimane diviso. L'omicidio di Maljoku, stretto collaboratore di Rugova, compiuto all'inizio di gennaio e non rivendicato ha reso ancora più difficile tale processo.

Poco prima del massacro di Racak si erano tuttavia verificati alcuni eventi che hanno in parte modificato (ma in parte anche confermato) tale quadro. Si tratta in primo luogo della presa in ostaggio di otto soldati jugoslavi da parte dell'UCK, conclusasi con un successo diplomatico di quest'ultima dopo la liberazione dei militari, ma che ha consentito all'esercito jugoslavo di effettuare un ennesimo e massiccio ridispiegamento di forze pesanti, che nei giorni dopo il massacro di Racak si sono nuovamente mosse bombardando villaggi. Il secondo elemento di novità è stato quello dei viaggi di politici albanesi del Kosovo a Tirana, in particolare Demaci e Qosja, e dell'aperto appoggio che per la prima volta essi hanno ricevuto nella capitale albanese. A tali incontri hanno partecipato anche collaboratori di Rugova, ma è significativo che fino a oggi egli non si sia recato di persona a Tirana e non preveda di farlo entro breve tempo. Infine, per completare il quadro internazionale, non si può non notare che tutto questo periodo è compreso tra la fine degli attacchi anglo-americani contro l'Iraq a dicembre e la loro ripresa, anche se in tono per ora minore, nei giorni scorsi, un'ennesima conferma che lo strisciante conflitto Europa-Usa si muove su più continenti.

Perché, allora, in questo contesto un massacro esibito come quello di Racak? Le forze serbe si sono "lasciate scappare di mano" una "stupida" strage, come scrive il "Manifesto", per pura incompetenza, incappando nelle minacce NATO? In realtà, i motivi per cui Belgrado aveva interesse a un tale aumento della tensione non sono pochi, anzi sono fin troppi. Per tutto un mese il regime serbo ha alzato la posta in gioco, mostrando all'occidente in alcune precise zone quale sarebbe potuta essere fra breve una situazione di guerra generalizzata, che avrebbe inevitabilmente coinvolto gli osservatori OSCE sul campo. Per tutto un mese ha giocato sui conseguenti timori delle grandi potenze, approfittandone per un massiccio ridispiegamento di forze militari e incassando il sostanziale silenzio in merito da parte delle cancellerie occidentali. Il regime di Milosevic è riuscito in questo periodo a migliorare le proprie posizioni sul campo e contemporaneamente a causare un aperto conflitto tra Europa e Stati Uniti riguardo a cosa fare. Con il massacro di Racak (e, non dimentichiamolo, la contemporanea nuova ondata di profughi) ha fatto di questo progressivo inasprimento della situazione un evento mediale che non poteva più essere ignorato (e non a caso ha chiamato esso stesso sul luogo i verificatori OSCE, che nei giorni precedenti avevano dato evidentemente a intendere di preferire non vedere quello che accadeva). L'obiettivo evidente è quello di alzare la posta in gioco per riuscire a ottenere di più in eventuali (e ora sembra probabili) trattative e a scegliere lui il momento in cui aprire tali trattative. Il governo di Belgrado sa benissimo che nessuna azione "tappabuchi" come un bombardamento NATO può essere compiuta fino a quando gli osservatori OSCE sono un facile bersaglio sul terreno. In particolare, il regime serbo ha giocato sul fatto che per gli europei la missione OSCE è di irrinunciabile importanza politica, non solo perché consente loro di avere sul campo una presenza diretta senza egemonia statunitense, ma anche perché la presenza dei verificatori in Kosovo è l'unica giustificazione della presenza della missione NATO di estrazione in Macedonia, che è una missione fondamentale per i paesi UE, perché è la prima di tale genere a totale controllo europeo e ha un enorme valore politico nell'ambito del braccio di ferro per ridefinire gli assetti interni alla NATO. E' significativo a tale proposito che Belgrado, con la scusa del massacro di Racak, abbia colpito con un decreto di espulsione (ora solo congelato e non annullato) proprio il capo statunitense della missione OSCE, William Walker e non, per esempio, il con. Fantini, responsabile del settore dei verificatori in cui rientra Racak e che è stato il primo a recarsi sul posto e ad affermare che si trattava di un massacro di civili. In tal modo ha colpito direttamente nel punto più delicato dei rapporti tra le potenze. E ha incassato immediatamente la ricompensa delle provvidenziali "veline" francesi sui retroscena del massacro di Racak [1], nonché di dieci giorni di "tira e molla" tra USA ed Europa, durante i quali hanno cominciato progressivamente e puntualmente a riemergere le accuse di pari colpa di entrambe le parti, mentre riprendevano più intense di prima, senza che Belgrado dovesse subirne alcuna conseguenza diplomatica, le offensive serbe nelle zone di Podujevo e Kosovska Mitrovica. In questi giorni le grandi potenze hanno apertamente minacciato di intervenire militarmente sul terreno sia contro Belgrado che contro l'UCK, cosa che in precedenza non era mai avvenuta a chiare lettere. In questo gioco Belgrado naturalmente rischia, ma può contare su numerosi elementi sicuri. Il primo fatto più evidente è che non ha nulla da perdere. Dopo un anno intero di guerra è chiaro che il Kosovo non potrà mai essere ricuperato se non con una guerra di enorme portata e dai costi spropositati che il regime di Milosevic potrebbe permettersi solo mettendo a repentaglio la propria stessa esistenza, e in primavera esisteranno le condizioni per una mobilitazione militare dei kosovari che dovrebbe essere affrontata con una tale guerra. Per Milosevic la questione non è a questo punto se perdere il Kosovo o meno, ma come perderlo: a un enorme costo o meno, immediatamente o a lungo termine, per intero o conservandone parte, consolidando il proprio potere internamente e internazionalmente o mettendo a rischio la propria sopravvivenza. Un altro dato sicuro è che l'occidente ormai ha fretta e che marzo è diventato la scadenza delle grandi potenze per una soluzione, così come è per Belgrado. L'occidente non vuole vedere in alcun modo una vittoria sul terreno di un'insurrezione armata, un precedente inaccettabile per i Balcani, e teme l'UCK come forza divisa sulla quale non riesce ad avere un controllo. Inoltre, il 24 aprile ci sarà lo storico summit NATO del cinquantenario, con la sanzione dell'allargamento a Est e l'adozione di una nuova dottrina, nonché la spartizione dei compiti strategici e di produzione di armi tra Europa e Stati Uniti. Per allora, i paesi NATO vogliono assolutamente avere chiuso, almeno temporaneamente, i conti in Kosovo. Il movimento albanese rimane invece diviso sia a livello politico che a livello militare, anche se risulta difficile individuare lungo quali linee esattamente. E' chiaro tuttavia che un'apertura di trattative entro pochi giorni, come vogliono le potenze imperialiste, vedrebbe gli albanesi presentarsi divisi o comunque con una posizione comune non riflessa e frutto unicamente delle pressioni delle pressioni dell'occidente, cioè una posizione di debolezza e di subordinazione. Tra le forze albanesi a trarre i maggiori vantaggi da una tale situazione sarebbe Rugova, che l'occidente contina a privilegiare come proprio interlocutore e che continua a seminare da mesi la discordia tra gli albanesi con la sua posizione di rifiuto rigido di creare organismi rappresentativi di tuttte le forze politiche e militari in campo, insistendo sull'autorità del parlamento kosovaro, eletto d'urgenza in condizioni di guerra e da egli controllato totalmente. Ma anche tra le forze militari persistono divisioni che possono essere identificate grosso modo tra i vertici vicini al governo in esilio di Bukoshi e le strutture createsi sul campo durante l'insurrezione e che trovano la loro origine in forze un tempo marxiste-leniniste. E' evidente che per superarle sarebbero necessari tempi più lunghi, come viene confermato dal fatto che il Quartier Generale dell'UCK ha diramato ieri un comunicato con il quale si dice che verranno aperte trattative con le altre forze politiche, trattative che tuttavia dovrebbero terminare il 10 febbraio, cioè troppo tardi rispetto a quanto vuole l'occidente. Va sottolineato a tale proposito che nello stesso comunicato l'UCK intima al governo in esilio di Bukoshi di fare pervenire finanziamenti, pena la chiusura di ogni trattativa ("Radio B92", 27 gennaio). Molti hanno comunque notato che il massacro di Racak e la sua violenza esibita, così come forse anche l'uccisione pochi giorni prima del braccio destro di Rugova, Enver Maljoku, costituiscono una provocazione mirata anche ad accentuare le divisioni tra gli albanesi o comunque a rendere più difficile un processo di convergenza su posizioni unitarie minime. Finora, per fortuna, nessuno nell'UCK ha raccolto la sfida a livello militare e ciò sarebbe una prova del fatto che vi è comunque la ricerca di un accordo tra albanesi, mentre non è da escludersi che a dicembre vi siano state invece frazioni che si siano prestate, nella corsa a conquistare un ruolo egemonico, a giocare di sponda con le violenze di Belgrado. Se è stato così, ed è solo un'ipotesi, ciò potrebbe ripetersi. Dal punto di vista strategico, comunque, l'UCK avrebbe interesse ad attendere la primavera, quando le condizioni sul terreno creeranno una situazione molto più adatta a operazioni di guerriglia.

Vi sono altri elementi che fanno pensare al massacro di Racak come a un evento ben preparato. Il giorno prima del massacro Belgrado aveva alzato molto forte la voce con l'Albania, minacciando in modo trasversale il paese vicino di intervenire sul suo territorio per liquidare le basi logistiche dell'UCK (si veda AIM-Tirana, 21 gennaio). Anche queste minacce trasversali di Belgrado sono state colte dall'occidente, che in questi giorni ha ripreso a parlare intensamente di un intervento nell'Albania del nord per tagliare i rifornimenti all'UCK, un intervento che si voleva effettuare già nel giugno scorso, quando l'UCK aveva raggiunto l'apice del proprio controllo della regione, ma che era stato scartato per l'impossibilità logistica di organizzare tecnicamente una tale missione in una regione priva di ogni infrastruttura e insicura come l'Albania settentrionale. Sul lato della politica interna serba, è significativa la cooptazione dell'ex leader dell'opposizione Vuk Draskovic, resa possibile dal clima di emergenza nazionale. In particolare, è indicativo che le relative trattative abbiano preso concretezza, secondo lo stesso Draskovic e altri testimoni, proprio tra la metà di dicembre e Natale, e siano arrivate a buon fine immediatamente dopo il massacro. Ai primi di gennaio, inoltre, si era avuto un forte aumento della tensione verbale anche in Montenegro, con il diffondersi del timore di "sommosse" inscenato con la scusa del capodanno serbo del 13 gennaio. Nulla di ciò è avvenuto e con ogni probabilità aveva ragione il leader liberale montenegrino Kilibarda, quando ha accusato sia Bulatovic che Djukanovic di alzare il tiro dello scontro unicamente per i propri mercanteggiamenti politici. A quanto pare, infatti, sarebbero state aperte trattative con Djukanovic per una pacificazione tra Montenegro e Serbia all'interno della federazione jugoslava, l'esistenza della quale è attualmente nei fatti bloccata. Djukanovic per ora nega e le voci insistenti rimangono ancora da verificare, ma è un fatto che il conflitto in Kosovo e un'eventuale apertura di trattative vedrebbero in buona misura diminuita l'importanza del presidente montenegrino sul "mercato diplomatico" internazionale a scapito di Milosevic. Vi potrebbe quindi essere l'interesse da parte sua a rientrare in gioco in tal modo. Allo stesso tempo, si è avuta una pesante rottura all'interno del Partito Radicale Serbo di Seselj, che sempre a dicembre ha portato alla fuoriuscita dal partito della maggior parte delle sezioni del Kosovo, sotto la guida di Rada Trajkovic, che non ha né confermato né negato le voci che parlano di una sua entrata nella coalizione di opposizione guidata da Milan Panic. Anche gli uomini di quest'ultimo in Kosovo, quelli del Movimento di Resistenza Serbo di Momcilo Trajkovic, che gode di importantissimi appoggi negli USA, si sono notevolmente attivati all'inizio di gennaio, tra le altre cose con il blocco armato di Pristina per un paio di giorni. Particolarmente preoccupante è che suoi membri abbiano ipotizzato, in caso di indipendenza del Kosovo, la creazione di una Repubblica Autonoma Serba del Kosovo.

La tattica di Milosevic sembrerebbe per ora avere incontrato solo successi e l'ipotesi di una nuova Dayton che viene ora avanzata per il Kosovo non può che suonare come un invito a nozze per il leader serbo, che sulla prima Dayton ha vissuto di rendita per più di tre anni. L'ipotesi di un intervento armato occidentale sul territorio del Kosovo lo vedrebbe con ogni probabilità nuovamente nella veste di garante della stabilità della regione, come già era avvenuto in Bosnia. Che egli si stia preparando a ciò lo testimoniano le purghe nell'ambito dei vertici militari e politici, l'entrata di un ex oppositore come Draskovic nel governo con la funzione di incaricato di trattare con la "comunità internazionale", nonché l'invito indiretto a Djukanovic a entrare a fare parte della combriccola. E che in occidente vi sia la disponibilità ad accettare una tale soluzione lo dimostrano, oltre agli sviluppi diplomatici degli ultimi giorni, gli accordi per centinaia di miliardi firmati proprio nelle ultime settimane con la francese Lafarge e con la svedese Ericsson, nonché la decisione del Gruppo Fiat di rimanere presente in Serbia ancora per anni con la Iveco. Inoltre, nei giorni scorsi Belgrado ha tirato nuovamente fuori dal cassetto proposte di appalti e concessioni internazionali relativi alla costruzione di nuovi collegamenti autostradali per centinaia, forse addirittura migliaia di miliardi ("Vreme", 23 gennaio) ai quali già in passato si sono mostrate interessate aziende europee e, in prima fila, italiane. Milosevic negli ultimi mesi ha lavorato a creare basi molto solide per aprire trattative. Sul campo ha ridispiegato moltissime forze che gli consentono, come abbiamo visto, di controllare il fronte tra la regione orientale del Kosovo propriamente detto, ricco di risorse minerarie e, soprattutto, corridoio di comunicazione essenziale tra la Serbia e la Macedonia, e quello occidentale meno strategico del Dukagjin, dove tuttavia continua a controllare saldamente il confine con l'Albania. A tale proposito è preoccupante che negli ultimi giorni siano tornate a circolare le ipotesi di una divisione del Kosovo lungo questa linea, una spartizione già in passato ipotizzata e promossa da ambienti vicini al regime di Belgrado e, come abbiamo visto, qualche settimana fa fatta propria anche dagli uomini di Momcilo Trajkovic (e quindi dell'opposizione serba legata agli USA). Ieri, 27 gennaio, il quotidiano serbo "Danas" ha infatti pubblicato la trascrizione di un'intervista data a "Radio Europa Libera" (a controllo statunitense) dall'accademico serbo Slobodan Samardzic, nella quale tale ipotesi viene riproposta a chiare lettere. Ma già il 24 gennaio "Il Sole 24 Ore" riportava dichiarazioni del noto storico e accademico serbo Dusan Batakovic secondo il quale proprio questo sarebbe l'obiettivo di Milosevic. Alla luce di tutto ciò è particolarmente preoccupante che il piano del Gruppo di Contatto in corso di preparazione in queste ore, secondo fonti del ministero degli esteri britannico citate dalla France Presse (AFP, 25 gennaio), potrebbe prevedere "l'attribuzione di poteri alle municipalità del Kosovo piuttosto che alla provincia nel suo complesso, per evitare di dare a Belgrado l'impressione che lo statuto della provincia passi al livello di una 'preindipendenza'". La cantonizzazione del Kosovo è sempre stata vista come anticamera di una spartizione o di una divisione in zone di influenza. Naturalmente l'obiettivo di Milosevic potrebbe anche non essere quello di una spartizione, ma semplicemente quella di garantirsi corridoi nei quali mantenere una presenza militare e/o interessi economici, oppure di creare una condizioni di fatto sulla quale trattare. Non si può non notare che Belgrado ha accumulato un vero e proprio capitale di violazioni e "pedine strategiche" sui quali potere fare poi marcia indietro in eventuali trattative: dal massiccio ridispiegamento di truppe, il cui ritiro anche solo parziale costituirebbe un "gesto di buona volontà", all'ipoteca sull'espulsione di Walker, per ora solo congelata, alle centinaia di prigionieri albanesi, che potrebbero essere un'utile merce di scambio, ma anche, tornando più indietro nel tempo, alla legge sui media, il cui ritiro potrebbe anch'esso essere interpretato come "gesto di buona volontà". Anche il massacro di Racak potrebbe rientrare in questo gioco, perché le grandi potenze hanno subito fatto capire che la punizione dei diretti responsabili sarebbe considerata sufficiente e trovare qualche capo espiatorio basterebbe a Milosevic per ottenere importanti favori in cambio.

Cosa si sta prospettando quindi all'orizzonte? Le agenzie di questi giorni parlano insistentemente di un intervento armato occidentale in Kosovo dopo l'imposizione di un'apertura di trattative. Si tratta di una svolta di portata enorme, avvenuta solo dopo il massacro di Racak. Da quello che abbiamo visto sopra, si tratta di una soluzione che potrebbe comportare nei fatti dei grandi vantaggi per gli oligarchi di Belgrado e c'è un particolare delle ultime ore che potrebbe renderla ancora più appettibile al regime serbo. Le agenzie di oggi parlano come prima ipotesi di un'"evoluzione" dell'attuale missione OSCE in missione armata incaricata di un intervento non tanto di "peace-keeping" (mantenimento della pace), quanto piuttosto di "peace-making" (di realizzazione, ovvero imposizione, della pace), oppure in una presenza OSCE con il supporto di un'altra, non definita, entità e solo come terza ipotesi di un intervento NATO come quello in atto in Bosnia, a presenza russa (AFP, 28 gennaio). Secondo fonti NATO sarebbero necessari circa 36.000 uomini, un impegno che la Casa Bianca avrebbe grandi difficoltà a fare accettare al Congresso, che già critica l'attuale presenza in Bosnia. Non è un caso che proprio l'esponente statunitense Sandy Berger abbia formulato le ipotesi di cui sopra, pur precisando, secondo le sue parole, che "Washington non esclude di dispiegare delle truppe a terra". Un intervento OSCE o in altro modo a egemonia europea risulterebbe sicuramente particolarmente gradito a Belgrado, viste le esperienze degli ultimi mesi, ma rimane d'altra parte il fatto che sia le ipotesi diplomatiche (che tutti affermano saranno basate sulle precedenti proposte di pace di Hill) sia quelle militari che si prospettano sembrano difficilmente accettabili per la parte albanese. Gli Stati Uniti, a quanto pare, sono riusciti, contro la volontà degli europei, a fare passare la loro proposta di un ultimatum al quale dovrebbero seguire bombardamenti NATO nel caso in cui non vi fosse una disponibilità a trattare. Questa ipotesi non farebbe che portare l'occidente in un vicolo cieco, che spingerebbe Belgrado ad alzare maggiormente il livello dello scontro. Ma come già in Bosnia, Belgrado potrebbe addirittura accettare brevi bombardamenti se ciò dovesse volere dire, come sicuramente sarebbe, portare l'occidente su una strada dalla quale si può uscire solamente ancora con una Dayton a tutti i costi. E un tale gioco troverebbe con ogni probabilità consenziente tutta l'élite politica albanese più o meno vicina a Rugova.

Rimane il fatto che le soluzioni che si stanno preparando non prendono minimamente in considerazione la vera e unica parte in causa che dovrebbe decidere: il popolo kosovaro. Per la maggioranza albanese del Kosovo non viene prevista alcuna facoltà di decisione, nonostante il suo volere sia chiaro da ormai un decennio. La fretta con la quale si vuole imporre una trattativa su basi stabilite nelle grandi cancellerie è dettata anche dalla preoccupazione di toglierle voce in capitolo. Perché essa possa fare valere i propri diritti a decidere di sé stessa sarebbe necessario semplicemente che le forze serbe si ritirassero e si reinstaurasse subito la condizione minima dell'autonomia politica annullata dieci anni fa da Belgrado. Ogni altra decisione vuol dire riconoscere legittimità alla guerra scatenata dal regime di Milosevic contro i kosovari e purtroppo ciò è quello che fino a oggi l'occidente ha fatto. Ma non è solo questo che preoccupa. E' anche la ormai totale mancanza di prospettive e di contatto con la realtà di cui sta dando prova la diplomazia occidentale. Gli accordi di Dayton del 1995 portavano con sé ancora un disegno di stabilità, seppur chiaramente di negativo segno imperialistico, dei Balcani, nell'ambito del quale si era tentato di dare il via a una nuova ondata di riciclo dei regimi della regione, che aveva portato a cambiamenti o tentativi di cambiamenti in tutta la penisola. Ora tale progetto di riciclo sembra miseramente fallito, dalla Serbia, alla Bosnia, alle più lontane Romania, Bulgaria e Albania, e manca ogni prospettiva se non quella di condurre una guerra per procura tra Europa e Stati Uniti sulla pelle dei popoli balcanici, arraffando nel contempo quanto è possibile a livello economico. Se la soluzione che le grandi potenze vogliono è quella dell'intervento o del protettorato militare e di una nuova Dayton, i risultati del passato non possono non indicare che il risultato sarà, nel caso meno peggiore, quello di portare a nuovi conflitti a tempi brevi, in Kosovo o altrove.

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NOTA:

[1] Il "Washington Post" di oggi riporta un altro "retroscena": gli USA avrebbero intercettato conversazioni telefoniche secondo le quali il vice-primo ministro Sainovic, parlando con il generale serbo Lukic avrebbe riconosciuto che a Racak vi sarebbe stato un massacro di civili, compiuto per vendicarsi dell'uccisione di tre poliziotti serbi, e avrebbe chiesto al generale di nasconderne le prove. Ci si chiede perché proprio ora una nuova "velina", che guarda a caso soddisfa le esigenze diplomatiche degli Stati Uniti: del massacro sarebbe sì responsabile Belgrado, ma sarebbe pur sempre una vendetta per una provocazione dell'UCK e, inoltre, si indica chiaramente un capro espiatorio per chiudere il caso, proprio quando a Belgrado, dopo la nomina di Draskovic, i vice-primi ministri sono diventati troppi...