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![]() NOTIZIE EST #183 - JUGOSLAVIA/KOSOVO [Mentre si avvicina la scadenza del 15 marzo, pubblichiamo una dettagliata analisi scritta da Zoran Kusovac ai primi di dicembre e uscita nel numero di gennaio della "Jane's Intelligence Review". Pur essendosi verificati in Kosovo da allora molti eventi di grande importanza, il suo contenuto rimane attuale e offre un importante strumento per ricostruire i processi che hanno portato a Rambouillet e ai successivi sviluppi. La pubblicazione del presente articolo, così come quella gli altri materiali distribuiti da "Notizie Est", è da considerarsi "for fair use only", cioe' esclusivamente per la lettura degli abbonati di "Notizie Est" e nessun altro uso ne e' consentito - i diritti d'autore rimangono di proprieta' della "Jane's Intelligence Review" - a.f.] IL KOSOVO ANTICIPA UN CANTO DEL CIGNO SERBO L'accordo raggiunto il 13 ottobre tra il mediatore occidentale Richard Holbrooke e il presidente della Repubblica Federativa di Jugoslavia (Serbia e Montenegro), Slobodan Milosevic, ha allontanato una crisi che per poco non è culminata in attacchi aerei della NATO. Tutte le parti hanno tirato un sospiro di sollievo: i serbi - per avere evitato il bombardamento, che sembrava inevitabile; la NATO - per non avere dovuto bombardare e quindi passare a un nuovo livello nella spirale di escalation della violenza in Kosovo; gli albanesi del Kosovo - perché hanno potuto vedere i propri combattenti disporre di un tanto agognato riprendere il fiato dopo una massiccia offensiva serba, mentre la popolazione ha avuto una possibilità per tornare dai boschi e trovare qualche sorta di rifugio prima che arrivasse la neve invernale. Tuttavia, alle sensazioni euforiche di avere raggiunto qualcosa si è ben presto sostituita la sobria realtà. Si pongono nuove domande, la principale essendo se misure concordate frettolosamente come il ritiro e il disimpegno, il monitoraggio aereo da parte della NATO e la verifica sul terreno da parte del'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) riusciranno davvero a portare la pace in Kosovo. La risposta è nettamente negativa. L'accordo Milosevic-Holbrooke non è né una soluzione militare né una soluzione politica; è solo una tregua. Per una vera normalizzazione del Kosovo sarebbe necessario applicare con urgenza una soluzione politica accettabile per tutte le fazioni da entrambe le parti e soddisfare il desiderio della comunità internazionale di raggiungere una stabilità e una sicurezza a lungo termine nei Balcani. Si tratta di un compito che rimarrebbe formidabile anche se non vi fossero stati combattimenti e se fosse stato affrontato in maniera sistematica e ragionata. L'attuale situazione è contrassegnata da ingredienti che sarebbero mortali per ogni accordo: una miscela di precipitazione, fretta, ingenuità, ignoranza, arroganza, ipocrisia e sotterfugi, della quale nessuna parte - nemmeno la comunità internazionale - può essere discolpata. Ognuno dei tre attori cruciali sul terreno si trova strategicamente in un vicolo cieco. La vera causa che farà fallire l'accordo sul Kosovo è il fatto che ognuno dei tre attori con una posta da giocare in merito si pone dei fini contraddittori: i loro rispettivi obiettivi immediati e a lungo termine si escludono a vicenda. L'AMARO RISVEGLIO DELLA SERBIA Ma, ahimè, per la prima volta la maggioranza dei serbi non crede alla versione ufficiale. Sono ormai più a pezzi che mai e per la prima volta si sentono vulnerabili. Non si tratta di una semplice perdita di fiducia nel governo, ma della comprensione - sebbene ancora non chiaramente articolata - che la gente e l'intera nazione in questi anni è stata utilizzata per dei fini politici oscuri che alla fine sono andati a vantaggio solo di uno stretto circolo di politici, profittatori di guerra e criminali. Il serbo medio oggi dubita per la prima volta seriamente della sincerità e della capacità di Milosevic. La sensazione che il Kosovo possa esser già stato perso è diffusa ed evidente. Solo ora i serbi si rendono pienamente conto che i territori controllati dai serbi in Croazia sono svaniti in 48 ore, nonostante anni di voti e promesse di difenderli a tutti i costi. La Krajina e la Bosnia, tuttavia, vengono sentiti come un altro paese - potenzialmente serbo, ma ancora diverso. Oggi la gente si rende all'improvviso conto che stranieri stanno dirigendo la scena in una parte della Serbia e non possono che tornare con la mente all'affermazione del loro leader secondo cui "nessuno stivale di soldato straniero metterà mai piede sul suolo serbo". La linea ufficiale del governo serbo secondo cui i verificatori OSCE sono solo civili non armati che fanno un favore ai serbi viene presa come ridicola. La sconfitta e la desolazione sono evidenti, ma non vi sono speranze di vedere alcunché di costruttivo emergere da tale delusione. La disperazione non è stata ancora chiaramente articolata e vi sono scarse possibilità di vedere qualcuno emergere in Serbia come una forza di opposizione credibile a Milosevic. Per contrastare questi foschi umori, il governo ha montato a metà novembre una campagna politica che è culminata nel "piano serbo" per il Kosovo e nel rifiuto formale della proposta di status avanzata dal mediatore statunitense, l'ambasciatore in Macedonia Christopher Hill. Ma si tratta di mosse da politicanti insinceri, intese a raggirare solo la popolazione ingenua e nessun altro. La prima bozza del piano USA per l'autonomia del Kosovo è stata presentata a settembre, prima dell'ultimatum che ha fermato i combattimenti. Suggeriva verifiche ed equilibri elaborati ed eccessivamente complicati, una decentralizzazione dei poteri, la creazione di nuove autorità regionali e municipali, finora inesistenti nel sistema serbo altamente centralizzato, e un'intricata condivisione dei poteri a livello bicamerale con diritti di veto. Il suo scopo era quello di creare uno stadio temporaneo nell'ambito di negoziati indiretti: l'ambasciatore Hill e il suo personale hanno fatto la spola tra diverse autorità ed eminenze grigie serbe e albanesi, tastando loro il polso e verificando nel frattempo la fattibilità delle soluzioni proposte, nonché modificando molte disposizioni nel corso del processo. Sebbene impegnate con scarso entusiasmo nelle trattative indirette e non vincolanti per lo status futuro, tutte tre le parti avevano le loro priorità in ambito militare. Per i serbi si trattava di una corsa contro l'orologio della NATO in un tentativo di imporre alla parte albanese la maggiore quantità di danni possibili, non limitandosi solo al braccio armato, l'Esercito di Liberazione del Kosovo (Ushtria Clirimtare e Kosoves, o UCK), ma includendo anche la loro ampia base di potere tra la popolazione albanese delle zone rurali. L'UCK, a sua volta, lottava per la propria stessa sopravvivenza e la NATO cercava di mettere insieme una forza di attacco credibile e di farla approvare tramite astute manovre politiche in ambito ONU. La NATO ha vinto e per nascondere la propria sconfitta l'establishment politico serbo ha deciso di togliere credibilità ai tentativi di Hill. Per continuare ingannevolmente a dare l'impressione di "continuare a proteggere gli interessi nazionali serbi" il governo ha organizzato una farsa con un'assemblea dei "rappresentanti delle comunità nazionali del Kosovo". Di tale assemblea fa parte una variegata collezione di "Albanesi leali", che rappresentano una percentuale infinitesimale degli albanesi del Kosovo, turchi, rom (zingari) e "minorità" fino a qui sconosciute come gli egiziani (la loro prima comparsa nota risale agli anni '80 in Macedonia, quando un gruppo di musulmani ha cercato di ottenere alcuni benefici rivendicando lo status di minoranza locale). Non è stato fatto alcun serio tentativo di rivolgersi alla maggioranza degli albanesi del Kosovo, che - nonostante la loro incertezza politica in merito a chi rivolgere i propri favori, visti i dubbi risultati della resistenza pacifica di Ibrahim Rugova o i metodi radicali brutalmente efficienti, anche se costosi, dell'UCK - certamente non vedono il loro futuro politico nella sottomissione alla ridicola proposta serba. Il dilettantismo della proposta serba è una prova del fatto che essa non è mai stata intesa a essere presa sul serio, perché la sua mancanza di sostanza democratica e il rifiuto di affrontare con sincerità i problemi del Kosovo sono così sottilmente nascosti in nozioni vuote, che non hanno alcuna possibilità di ottenere credibilità, oggi o in futuro. Milosevic ne è cosciente, e precisamente per tale motivo egli ha affidato la "patata bollente" politica a Milan Milutinovic, da lungo tempo suo obbediente luogotenente e che oggi sta discreditando la carica di presidente della Serbia. I serbi continueranno a spingere per la loro proposta fallita in partenza quanto più a lungo sarà possibile e quando verrà finalmente il momento di mollarla sotto la pressione degli eventi, sarà Milosevic che mostrerà ancora una volta la sua "capacità di uomo di stato" e la sua "saggezza" accettando un ennesimo cattivo accordo in un ulteriore momento di impasse. LE OPZIONI SEMPRE PIU' RISTRETTE DI MILOSEVIC Milosevic ha già utilizzato Seselj in passato, per liberarsene subito non appena le sue urla di guerra e le sue milizie non erano più necessarie. I radicali sono sempre stati un elemento di imbarazzo che serviva a un fine ultimo, ma Seselj ha la rara capacità di diventare inutile molto rapidamente. Per insultare apertamente la comunità internazionale, egli ha partecipato a novembre alla cerimonia inaugurale per il nuovo presidente serbo-bosniaco, un uomo di Seselj - solamente per vedersi deportare senza troppe cerimonie da soldati della NATO. Quando la coalizione socialista-comunista non è riuscita a ottenere una chiara maggioranza parlamentare nelle elezioni del 1997, ma non ha osato rivolgersi ai meno virulenti partiti di opposizione che fino a pochi mesi prima conducevano le proteste nelle piazze, si è provveduto a resuscitare Seselj. Con il sostegno del SRS, il SPS si è garantito una comoda maggioranza, ma per farlo ha dovuto concedere circa metà dei ministeri. L'opposizione, tale solo di nome, avida di potere, denaro e influenza, è stata nel frattempo ammansita e attratta nel campo di Milosevic, che le ha consentito di dimostrare "preoccupazione" per la Serbia e di guidare la campagna di odio contro gli albanesi del Kosovo. Sostituire Seselj con il terzo partito per dimensioni, il Movimento di Rinnovamento Serbo (SPO) di Vuk Draskovic, ora potrebbe essere facile. Tuttavia, la situazione ancora una volta è sfuggita al controllo e Milosevic deve ancora tenersi Seselj, perché potrebbe avere bisogno dei suoi accoliti e della sua retorica - e di un capro espiatorio. Agli inizi di dicembre funzionari degli Stati Uniti, in un'improvvisa inversione di politica, hanno accennato al fatto che Milosevic potrebbe non rimanere per sempre la prima pietra della politica Balcanica degli USA. Fonti interne al Dipartimento di Stato degli Stati Uniti affermano che questo inatteso voltafaccia non è stato causato dall'emergere di qualche forza alternativa in Serbia o dalla tardiva comprensione della vera natura di Slobodan Milosevic, bensì da lotte politiche interne agli Stati Uniti. A quanto pare, la campagna anti-Milosevic è stata istigata dagli oppositori di Richard Holbrooke all'interno del Consiglio di Sicurezza Nazionale, i quali erano convinti che il migliore modo per rimuoverlo una volta per tutte sarebbe stato quello di rimuovere la sua raison d'etre. Lasciando che la sua gretta vanità autocratica prendesse il sopravvento sul suo nervo tattico, Milosevic ha fatto un errore dettato dal nervosismo: ha risposto immediatamente orchestrando un'isteria anti-USA che è culminata in una dichiarazione parlamentare con la quale si chiedeva agli Stati Uniti "di farsi gli affari loro". Nel reagire affrettatamente, egli ha sacrificato le sue possibilità a lungo termine per una limitazione dei danni a breve termine. Egli ora ha bisogno che Seselj gongoli contro l'Occidente e conduca la campagna di sfida contro il mondo intero. Se Milosevic è convinto che l'Occidente voglia sbarazzarsi di lui, ha tutto l'interesse nel rimanere unito a Seselj: un candidato molto improbabile a ogni forma di sostegno USA. Anche in Serbia, sbarazzarsi di qualcuno che si è saldamente insediato come Seselj avrebbe bisogno di qualche lavaggio di cervello preparativo nei media e di una certa dose di messa in riga dei quadri di partito, ma attualmente questi ultimi sono troppo occupati con la svolta verso la sfida. ALLA RICERCA DI GUAI I segni sono molti. Fonti bene informate di Belgrado affermano che La Famiglia (Milosevic e la signora Markovic [sua moglie]) sta diventando sempre più isolata in se stessa e indisponibile ad ascoltare alcuna voce ragionevole. I membri fidati della loro cerchia interna sono stati allontanati per avere rifiutato di seguire una politica che ritenevano avrebbe portato la Serbia sull'orlo del suicidio. Il primo ad andarsene è stato il capo dei servizi segreti (Sluzba drzavne bezbednosti - SDB), Jovica Stanisic, un leale alleato da otto anni, per la sua indisponibilità a sottoscrivere la politica di confronto su tutti i fronti: contro gli albanesi in Kosovo, la comunità internazionale, il Montenegro, l'intelligentsia e i media. Poi è seguito Milorad Vucelic, un esperto organizzatore del partito che forniva importanti canali di collegamento con intellettuali e altri esponenti influenti "liberal-nazionalisti", ma che non è riuscito a domare il dissenso e ha mancato di descrivere l'accordo con Holbrooke come un successo. Gli altri ex amici della famiglia sostengono che la signora Markovic sta sviluppando una fissazione per le cospirazioni della quale è caduto succube anche suo marito e che perfino i circoli ristretti delle persone fidate non riescono a tranquillizzare i due. Questa situazione è estremamente pericolosa. Milosevic è imprevedibile quando viene messo nell'angolo ed è impossibile prevedere quale via prenderà. Egli è noto per l'apertura di nuove crisi al fine di rimediare a quelle esistenti, ma poiché la Serbia è in stato di crisi permanente e ogni ulteriore radicalizzazione andrebbe più a vantaggio di Seselj che di Milosevic, egli deve andare alla ricerca di guai altrove. Rimangono solo due possibilità: Kosovo e Montenegro. Se Milosevic non avesse perso i nervi e invece avesse atteso, sarebbe riuscito a ottenere tutti e due. La comunità internazionale, disperatamente alla ricerca di qualsiasi tipo di soluzione che possa impedire la ripresa dei combattimenti in primavera, avrebbe spinto gli albanesi ad accettare qualche sorta di partecipazione alle istituzioni serbe e costretto il Montenegro a partecipare alla limitazione del suo stato di repubblica con pari diritti. Ma in conseguenza della sua ostinatezza e della sua reazione eccessivamente isterica, Milosevic in pratica ha sprecato il vantaggio che gli offriva la sua posizione di "Garante", e qualunque cosa faccia ora è improbabile che abbia gli USA dalla sua parte. RICONCILIARE L'IRRECONCILIABILE Viste le autodistruttive politiche serbe, gli albanesi non hanno bisogno di affrettarsi ad accettare nulla. Al momento la comunità internazionale non ha intenzione di effettuare mosse che potrebbero portare, o essere interpretati come portanti, all'indipendenza del Kosovo, ma gli albanesi possono permettersi di portare i negoziati allo stallo nella maggiore misura possibile, perché ogni accordo - se ve ne sarà uno - riconoscerà almeno di fatto la personalità giuridica del Kosovo. Nella misura in cui non verrà trattato come una parte integrale e indivisibile della Serbia sotto l'esclusiva giurisdizione delle leggi serbe - e le disposizioni legali previste dal piano Hill gli garantiscono in pratica uno status legale separato - potrà sperare di trarre vantaggio da tale status nel futuro, citandolo come un precedente per la propria personalità legale o, se diverrà una terza repubblica, per il diritto alla secessione così come goduto dalle altre repubbliche della ex Jugoslavia. Gli albanesi sembrano seguire passo per passo i consigli del professore di Diritto di Cambridge Marc Weller, il quale, nella sua opinione giuridica sulla prima bozza di Hill ha concluso quanto segue: "Mentre la Repubblica del Kosova non dovrebbe in via di principio opporsi a negoziati mirati verso una soluzione temporanea, tale soluzione non dovrà essere messa a punto lungo le linee proposte dall'ambasciatore Hill. Anche solo avviare dei negoziati sulla base di tale proposta porterà inevitabilmente a un risultato inaccettabile che pregiudicherà in modo irreparabile la posizione del Kosova, ora e in futuro". Di gran lunga più importanti per gli albanesi sono i preparativi del movimento armato. Mentre vi è un gran lavorare politico per trovare il modo di mettere la resistenza sotto un controllo politico, non vi è dubbio che l'accordo di ottobre ha in pratica fornito un periodo di grazia per i combattenti albanesi, che consente loro di riorganizzarsi e prepararsi per la possibile, o probabile, ripresa dei combattimenti in primavera. La principale preoccupazione di tutte le fazioni politiche albanesi è l'UCK. Nonostante il fatto che alcuni dei suoi comandanti sul campo e membri dell'ala politica siano emersi dall'ombra, la sua organizzazione e le sue fedeltà politiche non sono ancora chiare. Ibrahim Rugova ha montato un'energica campagna per portare l'UCK sotto il proprio controllo, ma in questa operazione egli ha tre opponenti. In primo luogo il rappresentante politico ufficiale dell'UCK Adem Demaci. Nonostante la sua carica, la sua influenza sulle azioni armate è praticamente inesistente e l'unica logica dietro la sua nomina sembra essere quella di impedire al suo avversario politico Rugova di prendere il controllo nelle sue mani. Il secondo, paradossalmente, è Bujar Bukoshi, "primo ministro" dell'autoproclamato governo del Kosovo, che opera in esilio a Bonn. Non essendo riuscito ad attirare l'UCK nel suo campo, Bukoshi ha cercato di creare un esercito parallelo di combattenti, le Forze Armate della Repubblica del Kosovo (Forcave Armatosure e Republikes e Kosoves - FARK) il cui obiettivo a lungo termine è quello di sfruttare le alte capacità organizzative e professionali, nonché le superiori conoscenze militari, dei suoi ufficiali provenienti dall'Esercito jugoslavo (JNA), al fine di prendere il controllo del ben più ampio UCK. Infine viene l'UCK stesso, i cui comandanti evidentemente vogliono mantenere una distanza politica al fine di essere in grado di stabilire il passo della lotta e i suoi obiettivi ultimi. Vi sono pochi dubbi che un numero ancora maggiore di armi entrerà in Kosovo durante l'inverno, nonostante il controllo molto stretto dei confini. Il contrabbando di armi attraverso la ex Jugoslavia è un'attività ben stabilitasi, che non conosce alcuna nazionalità, come viene dimostrato dall'ultimo sequestro di una spedizione di armi dalla Bosnia, che si ritiene fosse destinata al Kosovo. Tale spedizione comprendeva fucili d'assalto, lanciamissili antiaerei e antiblindati serbo-bosniaci, mortai e granate a razzo croato-bosniaci, munizioni di produzione serba e musulmano-bosniaca e giubbotti antiproiettile croati. Tra le armi sofisticate provenienti da altre fonti, di cui si sa che sono in possesso i gruppi armati albanesi, vi sono le armi anticarro Armbrust, i fucili a lunga portata e ad alta precisione Barrett .50 cal prodotti negli USA e lanciamissili antiaerei a spalla. E' impossibile stimare il numero e il tipo delle armi in possesso dell'UCK e degli altri gruppi armati, ma a giudicare dal tasso di crescita durante il primo anno di resistenza diffusa, entro la primavera essi saranno probabilmente in grado di raccogliere una forza compresa tra 50.000 e 70.000 combattenti, tutti con un certo addestramento o una certa esperienza nei combattimenti. UN MANDATO IMPERFETTO Solo dopo che Holbrooke è tornato a casa alcuni esperti di sicurezza occidentali si sono resi conto che si ritrovavano tra le mani un cattivo accordo: il compito di verificare il rispetto di un cessate il fuoco che non era stato reciprocamente convenuto. Milosevic ha firmato il ritiro delle sue forze sotto le minacce NATO, ma agli albanesi non è stato chiesto di firmare nulla (probabilmente per il timore di dare loro una maggiore credibilità legale), nonostante ci si attenda da loro il rispetto di questo accordo non firmato in base alle regole di un "reciproco contenimento". Non esiste un contenimento balcanico. I fatti parlano di una marcata riduzione dei combattimenti, ma gli incidenti abbondano. Questa tregua è il risultato del fatto che entrambe le parti si stanno prendendo un periodo di riposo di cui avevano grande bisogno, ma non durerà a lungo. Se la situazione continuerà a trascinarsi così, con una soluzione politica che sembra improbabile, è quasi certo che subirà un'escalation fino ad arrivare nuovamente a combattimenti in piena scala, ma questa volta la comunità internazionale sarebbe presa proprio nel mezzo, con 2.000 verificatori OSCE non armati messi direttamente in pericolo. La presa di ostaggi è da lungo tempo diventata un fenomeno normale in Kosovo, in novembre ha subito una nuova svolta con una presa di ostaggi "dente per dente" semiufficiale, che alla fine è finita con uno scambio. La pratica non è stata condannata con parole sincere da nessuna delle due parti e così il precedente è stato stabilito. Le immagini del personale ONU legato con le manette a installazioni militari serbo-bosniache dovrebbero essere una messa in guardia e un ammonimento per tutti. La NATO se ne è resa conto e ha deciso di insediare nella confinante Macedonia una forza di 1.700 uomini guidata dalla Francia, assegnandole la missione di estrarre i verificatori nel caso in cui dovessero essere messi in pericolo. Si sostiene che le regole per una sua entrata in gioco sono semplici, visto che la decisione di ricorrere alla forza di estrazione compete al funzionario più alto dell'OSCE in Kosovo, William Walker. In teoria, ciò dovrebbe dare ai verificatori un certo senso di sicurezza, ma troppe questioni rimangono aperte. I verificatori hanno i background più disparati e la loro conoscenza ed esperienza militare di situazioni di combattimento è molto variabile e quindi sarà necessario individuare un parametro attraverso un processo di prove ed errori - a condizione che il primo tentativo non termini con un errore o uno sbaglio madornale, nel cui caso l'intera operazione potrebbe essere messa completamente in dubbio. La maggiore carenza dell'intero concetto è che con questa soluzione la NATO ha minato la credibilità di eventuali nuove minacce. Con 2.000 uomini in Kosovo non può bombardare, perché essi verrebbero così lasciati alla mercé dei serbi, oppure dipenderebbero dalla forza di estrazione per una loro evacuazione prima che i bombardieri entrassero in gioco. Eppure i serbi sono pienamente coscienti del fatto che l'OSCE è lo scudo umano di Milosevic e non avrebbero alcuna remora a ordinare all'Esercito jugoslavo di impedire alla forza di estrazione di adempiere il proprio compito. Successivamente la NATO dovrebbe inviare ancora più forze, trascinando la confinante Repubblica di Macedonia nel calderone, visto che l'unica base operativa relativamente sicura e accessibile per le forze sarebbe la più meridionale tra le repubbliche dell'ex Jugoslavia. Belgrado ha sempre inviato delle minacce sottilmente celate alla Macedonia per avere dato il permesso al dispiegamento della forza di estrazione che, nel caso di un ritiro dal Kosovo portato a termine con successo, dovrebbe mantenere una presenza credibile in Macedonia per contrastare ogni azione di ritorsione dell'Esercito jugoslavo. Ma, soprattutto, l'Occidente potrebbe ritirarsi dal Kosovo? No, perché il motivo essenziale per cui esso ha insistito anche solo su una presenza internazionale imperfetta è quello di impedire che la carneficina diventi ancora più sanguinosa e incontrollabile. Vi sono pochi dubbi che il ritiro dell'Occidente dal Kosovo unirebbe ancora una volta i serbi e darebbe luogo a una spinta irrazionale a livello nazionale per sbarazzarsi infine degli albanesi, dando luogo a uno spargimento di sangue di proporzioni mitiche. L'Occidente pertanto non può più tirarsi fuori dal Kosovo; ora è lì per rimanerci, a ogni costo, anche a costo di un intervento NATO diretto. TRARRE VANTAGGIO DALLE PERDITE A partire dallo scorso novembre, i radicali di Seselj hanno minacciato di inviare l'Esercito jugoslavo e la polizia per "rimettere ordine in Kosovo" nel caso in cui la comunità internazionale non dovesse fermare tutte le azioni armate dell'UCK. La polizia, ben abituata alla violenza, sarebbe pronta a rendere il servizio, così come lo sarebbe il nuovo, e molto meno misurato, capo di stato maggiore dell'esercito, il generale Dragoljub Ojdanic. Se Milosevic dovesse concludere che l'Occidente vuole il Kosovo, ma lo lascerebbe al potere in Serbia, egli potrebbe ostentatamente cedere alle richieste di Seselj e ridispiegare forze in Kosovo per "proteggere il cessate il fuoco, cosa che l'OSCE non può fare". Una tale azione provocherebbe inevitabilmente una reazione NATO a tutto campo sui cui esiti ci sono pochi dubbi, ma per Milosevic si potrebbe trattare di una benedizione sotto mentite spoglie: la colpa andrebbe a Seselj e ai radicali, che verrebbero dichiarati traditori e sarebbero rimossi dalla scena politica serba una volta per tutte. La perdita del Kosovo verrebbe spiegata come una cospirazione della NATO e del mondo intero. Il Kosovo verrebbe "purtroppo" perso, ma la Serbia sarebbe salvata - per il proseguimento del dominio di Milosevic. Se le teorie della cospirazione della signora Markovic convinceranno Milosevic che gli americani vogliono sbarazzarsi di lui, l'obiettivo naturale della sua vendetta sarebbe il presidente del Montenegro Milo Djukanovic, che si è apertamente proposto come alternativa a Milosevic. Dopo un tentativo coronato da insuccesso di impedire l'insediamento di Djukanovic nel 1998 anche al prezzo di uno spargimento di sangue (si veda JIR, luglio 1998), Milosevic ha a quanto pare pianificato la messa in scena di sommosse sociali e politiche in Montenegro in autunno al fine di insediare il proprio sottoposto Momir Bulatovic. Questi piani sono stati rimandati a causa della crisi in Kosovo, ma vi sono segnali che fanno pensare a una loro possibile ripresa. Se le sue analisi giungeranno alla conclusione che la comunità internazionale è troppo occupata con il Kosovo per preoccuparsi del Montenegro, Milosevic potrebbe ordinare ai suoi fedeli di inscenare tumulti in occasione del primo anniversario dell'insediamento di Djukanovic, il 15 gennaio, e quindi fare entrare in gioco l'esercito per "sopprimere i tumulti". Un calcolo sbagliato in questa mossa potrebbe fare scoppiare una guerra civile che segnerebbe la fine definitiva della Jugoslavia e nel contempo la perdita del Kosovo da parte della Serbia. All'inizio della sua ascesa al potere, i serbi hanno paragonato Milosevic a Tito. Oggi, con la Jugoslavia che si sta ulteriormente restringendo, lo paragonano sempre di più a Ceausescu. (da "Jane's Intelligence Review",, gennaio 1999) |