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NOTIZIE EST #200 - JUGOSLAVIA/KOSOVO
14 aprile 1999


I TRE PRESUPPOSTI SBAGLIATI DELLA NATO
di Jonathan Eyal - ("Irish Times", 10 aprile 1999)

La NATO ha passato la maggior parte della settimana scorsa a cercare di risolvere problemi che essa stessa ha creato. La settimana prossima, sostiene Jonathan Eyal, la guerra passerà a una nuova fase, durante la quale il presidente Milosevic potrebbe riuscire ancora a fare fronte al nemico.

Il confronto tra la Jugoslavia e la NATO sta entrando nella sua terza settimana. La versione ufficiale è che nulla è cambiato: l'alleanza continuerà la propria campagna aerea fino a quando il presidente Milosevic accetterà le sue condizioni. Nei fatti, tuttavia, gli scopi della guerra sono stati in un continuo stato fluttuante e la settima prossima sarà teatro della più grande battaglia fino a questo momento, almeno sul fronte diplomatico.

La NATO sostiene che la sua strategia sta funzionando e che la macchina da guerra di Milosevic sta perdendo colpi sotto i suoi attacchi ripetuti. Vi sono molte prove che l'esercito jugoslavo si trova ora a corto di carburante perché la maggior parte delle raffinerie ha subito danni. La distruzione dei quattro ponti sul Danubio ha anch'essa creato un incubo logistico per il governo di Belgrado.

Ma quasi tutte le altre indicazioni suggeriscono che la Jugoslavia sarà in grado di resistere ancora agli attacchi aerei per un periodo di tempo non indifferente e che le condizioni atmosferiche sui Balcani peggioreranno nei prossimi giorni. In breve, la strategia militare della NATO non riesce a tradursi in un risultato politico. E Milosevic, il leader sempre pieno di risorse, ha reso ancora più torbide le acque negli ultimissimi giorni.

E' ormai chiaro che la NATO è entrata in guerra spinta da tre presupposti fondamentali, rivelatisi tutti errati. L'alleanza era convinta che l'esercito jugoslavo non avrebbe mai rischiato un confronto con l'Occidente e che Milosevic si sarebbe tirato indietro all'ultimo momento. Il risultato di questo presupposto è stato che la NATO ha aumentato progressivamente le proprie minacce ma curiosamente non ha intrapreso la preparazione necessaria per metterle in atto fino in fondo.

In secondo luogo, vi era la convinzione in un certa misura razzista che il "piccolo popolo" dei Balcani non potesse costituire alcun problema per la potenza aerea della NATO: sarebbe stato sufficiente fare cadere un paio di bombe su questi "indigeni" in Jugoslavia e avrebbero subito invocato la pace. L'idea che Milosevic avrebbe potuto semplicemente rifiutare il compromesso e assorbire il colpo dei raid aerei non è stata presa seriamente in considerazione.

Infine, la NATO si è rivolta a due pubblici contemporaneamente. Mentre minacciava Milosevic di un'apocalisse militare, gli stessi comandanti dell'alleanza riassicuravano l'opinione pubblica in Occidente che l'operazione sarebbe stata "chirurgica" e di portata limitata. Il risultato è stato che il presidente jugoslavo conosceva fin dall'inizio i rischi ai quali si esponeva e ha concluso che valeva la pena di assumerseli. La storia delle ultime due settimane, essenzialmente, è la storia della NATO che cerca di sciogliere dei nodi da essa stessa creati.

L'alleanza ha pianificato preventivamente tre diverse fasi della campagna aerea, studiate con circospezione su misura per le circostanze politiche. La prima fase implicava la distruzione delle difese aeree jugoslave, avrebbe dovuto essere seguita da attacchi contro le forze serbe in Kosovo e, in ultimo, da un bombardamento più generalizzato di obiettivi militari in tutto il paese. Il piano sembrava buono sulla carta, ma era fondamentalmente incoerente.

Contrariamente ai calcoli dei pianificatori occidentali, Milosevic non ha attivato i suoi sistemi di difesa aerei, privando così la NATO della sua capacità di colpire radar e installazioni missilistiche. Allo stesso tempo, egli non solo ha rifiutato di aprire negoziati, ma ha addirittura scatenato la sua maggiore offensiva in Kosovo. La conseguenza è stata che le tre fasi della campagna aerea si sono rapidamente fuse in una sola; una strategia che era mirata a consentire un'attenta escalation della pressione sulla Jugoslavia al fine di giungere a un accordo di pace è diventata uno scopo in se stessa.

Mentre tutto questo accadeva, l'elenco degli obiettivi è stato progressivamente ampliato e la distinzione tra obiettivi civili e militari è andata progressivamente scomparendo. Ai ponti e alle raffinerie hanno fatto seguito gli aeroporti e i depositi di munizioni. E la tentazione di ampliare ulteriormente gli obiettivi militari non fa che crescere ogni giorno.

Nel frattempo, i politici occidentali hanno cercato a fatica di adattare i propri obiettivi politici a questi bersagli in continua mutazione. L'operazione è stata in origine giustificata come un tentativo per prevenire un disastro umanitario in Europa. Quando quello che è accaduto è stato precisamente questo disastro, la NATO ha finto di essere sorpresa (nonostante il fatto che tutti i servizi segreti militari avessero previsto un tale esito già mesi fa) e si è detta impegnata a fare tornare i profughi albanesi nella loro terra. In altre parole, lo scopo dell'operazione è passato da quello di impedire un disastro a quello di cancellare le conseguenze di questo disastro.

L'alleanza è rimasta ferma sullo stesso piano di pace originale proposto all'inizio di quest'anno, che prometteva agli albanesi solo l'autonomia all'interno della Jugoslavia. Sapeva che una volta che i combattimenti fossero iniziati questo piano sarebbe stato lettera morta, ma la NATO, dall'altra parte, continua a non potere impegnarsi a una indipendenza completa del Kosovo, perché verrebbe accolta con ostilità dagli altri paesi balcanici.

Così l'Occidente si trova fermo all'incirca nel mezzo: il Kosovo non sarà necessariamente indipendente, ma avrà qualcosa di più di un'autonomia. Inoltre, è diventato ben presto chiaro che la sola potenza aerea non riuscirà a fare uscire le forze jugoslave dal Kosovo. Ma nessun paese Occidentale vuole impegnare forze per un'offensiva di terra.

Anche in questo caso, l'alleanza ha eluso il problema: ora sta dispiegando proprie forze sotto la maschera della protezione dei profughi negli stati confinanti. Solo due settimane dopo che l'operazione aerea "precisa" e "chirurgica" è cominciata, vediamo una guerra che è in parte sul terreno e in parte nell'aria, condotta da un'alleanza che si lamenta quando Milosevic deporta le persone, ma si lamenta anche quando impedisce il flusso dei profughi.

Nonostante questo, la nebbia della guerra verrà diradata nella settimana a venire [cioè quella attuale - N.d.T.], perché lo scontro principale si sta ora producendo sul fronte diplomatico. Il presidente Milosevic ha fondamentalmente raggiunto i suoi obiettivi immediati. L'UCK è distrutto e un quarto della popolazione locale è stato espulso.

La sua tattica ora è quella di eliminare la giustificazione del proseguimento degli attacchi aerei senza dovere partecipare ad alcuna conferenza di pace. La chiusura delle frontiere, insieme al cessate il fuoco unilaterale e l'offerta di restituire i soldati USA catturati, sono tutti elementi di questa offensiva della seduzione.

Milosevic sa che se la NATO ferma i raid aerei, non ricominceranno più: l'alleanza non raggiungerà mai in futuro lo stesso livello di consenso e il problema dovrà essere dibattuto in sede del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, dove la Russia e la Cina possono esercitare il loro diritto di veto.

Per il momento, la NATO sta continuando senza sosta le proprie operazioni. Ma i governi occidentali sanno che nemmeno questa è una soluzione a lungo termine, perché Milosevic ha ancora alcune carte da giocare. Le centinaia di migliaia di albanesi sfollati all'interno del Kosovo hanno bisogno di cibo e di assistenza.

Crescerà una pressione dell'opinione pubblica per fare entrare operatori umanitari nella provincia al fine di portare aiuti. Milosevic sarà molto contento di accettare questi operatori umanitari, sapendo con certezza che l'Occidente si troverà ad affrontare l'orribile dilemma di ignorare la tragica situazione degli albanesi, o di arrestare con ogni probabilità permanentemente i bombardamenti.

Vi è ancora la possibilità remota che il regime di Milosevic possa crollare per una spinta interna. Ma in un modo o nell'altro, la prossima settimana sarà quella in cui comincerà una situazione davvero differente, una nella quale la NATO dovrà decidere se passare a una guerra totale contro lo stato jugoslavo, oppure accettare tacitamente di avere incontrato un'adeguata resistenza, ancora una volta, da parte del grande manipolatore dei Balcani.

Tutte le guerre cominciano con intenzioni chiare, con strategie attentamente pianificate e con un ampio supporto dell'opinione pubblica. Tutte finiscono con risultati ben diversi.

(Jonathan Eyal è Direttore degli Studi presso il Royal United Services Institute di Londra)