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![]() NOTIZIE EST #207 - JUGOSLAVIA/KOSOVO I CINQUE ERRORI MILITARI DELL'OPERAZIONE "ALLIED FORCE" A Londra e a Washington, con toni sfumati negli ambiti ufficiali, ma con colpi di grosso calibro nella stampa, l'operazione "Allied Force" ("Forza Alleata") - indipendentemente da chi vi è politicamente favorevole o contrario - è oggetto di critiche quasi quotidiane da parte di esperti militari. L'atto di accusa verte su cinque punti. * Un falso precedente. La scelta più frequentemente criticata - e denunciata come assolutamente inadeguata - è quella del tipo di campagna aerea messo a servizio dell'obiettivo politico dichiarato. Nello specifico, si tratterebbe - come viene confermato anche dalle dichiarazioni dello stesso portavoce della NATO - di fare recedere il presidente Milosevic dal suo rifiuto di accettare il testo dell'accordo di Rambouillet. L'ipotesi iniziale era che una settimana di bombardamenti sarebbe stata sufficiente. Ciò si è rivelato pateticamente falso: Milosevic non è "crollato" ed era una cosa prevedibile. Il precedente più frequentemente citato come fondamento del presupposto iniziale è la svolta operata da Milosevic in Bosnia nel 1995, sotto la pressione di una mini-campagna di raid aerei della NATO. Ma, come rileva per esempio l'editorialista del "New York Times" (un quotidiano che sostiene l'intervento della NATO), Milosevic aveva allora ceduto - accettando di recarsi ai negoziati di pace di Dayton - solo perché un'offensiva croato-bosniaca sul terreno aveva messo in rotta le forze serbe. Le altre giustificazioni dell'operazione - distruggere il potenziale militare-repressivo di Belgrado, in particolare - sono state avanzate solo dopo che i primi giorni di bombardamenti non erano riusciti a portare a più miti consigli il presidente jugoslavo. * Il mito dell'onnipotenza aerea. E' in larga parte un'eredità della campagna ("Desert Storm") che gli Stati Uniti hanno condotto contro l'Iraq nel Golfo all'inizio del 1991. Ance in questo caso il precedente è poco convincente. Le terribili settimane di bombardamenti condotte in quella occasione hanno effettivamente distrutto una buona parte del potenziale iracheno. Ma l'intervento aereo ha acquisito il suo pieno senso militare solo come preparazione all'attacco via terra che vi ha fatto seguito. Il quotidiano britannico "The Independent" (11 aprile) scrive: "La storia militare moderna insegna che una campagna aerea non è mai conclusiva di per se stessa. Si ottiene la superiorità aerea affinché le truppe di terra possano intervenire". Per dei motivi politici più che militari, gli occidentali hanno detto di escludere in anticipo un intervento via terra in Kosovo, almeno fino a quando Belgrado non vi acconsentirà: "un errore grave", commenta Antony Lewis nel "New York Times". * Una questione di "dosaggio". I critici militari accettano, e rispettano, i limiti dell'operazione "Allied Force". Tali limiti sono di due tipi: risparmiare al massimo la popolazione civile serba - un obiettivo che limita la possibilità di portare colpi, soprattutto in presenza di tempo coperto; fare correre la minore quantità possibile di rischi ai piloti. Ma alcuni contestano anche l'impatto di una campagna concepita come qualcosa che si deve svolgere in crescendo, argomentando che l'obiettivo politico avrebbe potuto essere raggiunto con una serie di raid iniziali molto più brutali. A titolo d'esempio, una giornata media durante la fase aerea di "Desert Storm" comprendeva 2.000 missioni. In venti giorni, "Allied Force" ne ha svolte "solo" 6.000 ("Le Monde", 14 aprile). * Una sottovalutazione delle capacità dell'avversario. Non si tratta qui solo della difesa antiaerea della Repubblica Federale Jugoslava, più robusta e resistente di quanto previsto (Le Monde, 14 aprile). Evidentemente, i militari e i politici occidentali non avevano immaginato che Milosevic avrebbe risposto ai bombardamenti con un'ondata di "pulizia etnica" dell'ampiezza di quella che abbiamo visto queste settimane. Due ipotesi si possono qui fare, nessuna delle due più rassicurante dell'altra: è stata sottovalutata l'assenza di scrupoli di un regime che aveva tuttavia nel campo una pesante "fedina penale"; oppure si è sopravvalutata la capacità di dissuasione di una campagna di bombardamenti su degli uomini a terra che, kalashnikov in pugno, conducono delle operazioni di terrore contro la popolazione civile. * L'inadeguatezza di determinati materiali. Anche se la Jugoslavia non faceva parte del Patto di Varsavia (l'alleanza militare che l'URSS aveva formato con i suoi satelliti europei), la NATO non si muove, in questa regione del mondo, su un terreno ignoto. E' vero invece il contrario: ha avuto cinquanta anni per studiare le condizioni di battaglia sul teatro europeo, sia sul suolo che in aria, ivi comprese le condizioni meteorologiche che, in questo anno 1999, non differiscono in maniera sensibile dalla media. Con la Jugoslavia, la NATO si trova ad affrontare une paese del quale il materiale di guerra è in larga parte quello del Patto di Varsavia e quindi, in via di principio, famigliare agli stati maggiori occidentali. Perché gli strateghi di Bruxellex non si sono presi la briga di organizzare la loro operazione integrando, fin dall'inizio e in quantità sufficiente, gli apparecchi più capaci di intervenire con il cattivo tempo, i B1B Lancer dell'aviazione USA o i Tornado della Royal Air Force? Se si trattava, in secondo luogo, di rallentare le operazioni di "pulizia etnica", perché non è stata organizzata una flotta di apparecchi capaci di annientare i carri serbi, di immobilizzare la fanteria, di intimidire le bande armate dei miliziani: aerei d'attacco americani A-10 affiancati dagli elicotteri Apache, più precisamente? Gli A-10 cominciano ora ad operare; gli Apache non sono ancora pronti per essere dispiegati... LA NATO STUDIA DIVERSI SCENARI DI INVIO DI UNA FORZA TERRESTRE IN KOSOVO di Jacques Isnard ("Le Monde", 15 aprile 1999) "Allied Force" rimane ancora ufficialmente, fino a oggi, un'operazione della NATO destinata a "sbriciolare" l'esercito jugoslavo in Kosovo e le sue retrovie in Serbia, in modo tale di costringere Milosevic e i suoi generali a cedere sotto il peso delle bombe e dei missili. Ma "Allied Force" si evolve. In tre settimane è stato progressivamente raddoppiato il numero di aerei impegnati. Ecco che ci si prepara, con una nuova domanda del generale Wesley Clark, comandante supremo delle forze alleate in Europea, a triplicarlo per portarlo a 900 velivoli, ovvero un po' più della metà dell'armata aerea dispiegata contro l'Iraq nel 1991. E questo perché è stata sottovalutata la capacità dell'esercito serbo di lasciare passare la tempesta e di economizzare i suoi mezzi. Allo svolgimento delle operazioni aeree la NATO ha aggiunto una missione civile, "Rifugio Alleato", per scortare gli aiuti umanitari destinati ai rifugiati del Kosovo nei paesi limitrofi. Alla fine, questa missione dovrà mobilitare non meno di 8.000 uomini, per la maggior parte soldati italiani. Inoltre, vari paesi dell'alleanza, in primo luogo la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, hanno annunciato un rafforzamento della loro presenza militare su terra, soprattutto in Macedonia - dove staziona già, dall'inizio dell'anno, un contingente portato progressivamente a 12.000 uomini sotto comando britannico - e in Albania, dove Washington si prepara a installare 4.800 uomini intorno a una flotta di elicotteri d'attacco e di artiglieria pesante dispiegata alla frontiera con il Kosovo. Vale a dire che in totale si tratta di un distaccamento di circa 30.000 uomini, se si conta una parte delle truppe della SFOR in Bosnia che può diventare l'elemento precursore, ma leggero, visto lo stato attuale del suo equipaggiamento, di una forza di pace chiamata a intervenire in prima urgenza. UNA LUNGA CAMPAGNA Nell'agosto 1998, gli stati maggiori alleati avevano lanciato, a Mons, lo studio di una pianificazione che si voleva priva di esclusioni, ivi comprese quelle relative alla organizzazione di una forza di terra - configurata diversamente a seconda degli scenari prevedibili in funzione dell'evoluzione della crisi nei Balcani - che i responsabili politici dell'alleanza hanno invece insistito per scartare. Tutte le opzioni restano allo studio, dicono i militari, per fare fronte a una forza serba di repressione massiccia e brutale che resta costituita, nel solo Kosovo, di 33 reggimenti della III armata (20.000 soldati appoggiati da 300 blindati, 300 altri veicoli, 200 pezzi d'artiglieria) e da un numero compreso tra 15.000 e 20.000 uomini delle forze speciali di sicurezza e di poliziotti, senza contare i miliziani. Ma, aggiungono subito i militari della NATO, tutte le opzioni di ordine terrestre sono possibili e possono essere messe in cantiere al più presto se, nel frattempo, i responsabili politici daranno il loro semaforo verde e se gli obiettivi attuali di "Allied Force" verranno raggiunti - vale a dire il controllo dello spazio aereo sopra la regione, un indebolimento radicale delle forze serbe sul terreno, una riduzione drastica del potenziale militare-industriale nella Serbia stessa e l'incapacità, per Belgrado, di effettuare gli approvvigionamenti alla sua IIIa armata in Kosovo. I teorici della NATO, ispirati dall'esercito americano, per il quale un'opposizione frontale di forza viva non è più attuale dopo l'implosione del blocco dell'Est, cominciano ad arrendersi alla prospettiva che una forza aero-terrestre internazionale possa vedere la luce nei Balcani, ma solo al termine di una lunga campagna aerea, secondo il modello di quanto è accaduto in Iraq, dove sei settimane di raid aerei avevano preceduto quattro giorni di combattimento sul terreno. Il dibattito comincia quando bisogna determinare la natura, le missioni, il contesto politico, la composizione, l'equipaggiamento, la localizzazione e il calendario di questa forza internazionale. Vale a dire l'essenziale, se si tiene conto delle divergenze che possono esistere da una parte in seno ai paesi membri della NATO, dall'altra tra questi paesi e quelli esterni all'alleanza che sarebbero sollecitati a parteciparvi. Le differenti configurazioni possono andare, a seconda delle circostanze, da una forza (prevista in occasione dei negoziati di Rambouillet) composta da un numero di uomini compreso tra 26.000 e 28.000, dopo un accordo di pace e un cessate il fuoco, fino alla "proiezione" di un dispositivo che raccoglierebbe da 200.000 a 300.000 soldati (a seconda che si conti o meno sul sostegno dei combattenti), per rendere sicuro permanentemente il Kosovo in un ambiente ostile fin dall'inizio, passando per una forza compresa tra 70.000 e 90.000 uomini, il cui ruolo sarebbe quello di accompagnare il ritorno e l'installazione dei profughi nelle loro case, nonostante la presenza di "sacche" minacciose di resistenza serba. Gli ostacoli che comportano questi differenti scenari non sono affatto gli stessi, la difficoltà maggiore restando quella di sapere se le comunità serba e albanese, oggi coinvolte in spietati scontri, abbiano veramente voglia di vivere permanentemente l'una accanto all'altra. Se non dovesse essere così, i paesi che dovrebbero contribuire alla forza hanno accettato fin dall'inizio di impegnarsi militarmente per degli anni? Indipendentemente dalla forma che assumerà, questa presenza internazionale pone, senza contare i rischi legati alla natura inospitale del terreno ("Le Monde", 2 aprile), i medesimi problemi di tipo organizzativo e operativo. Dei problemi che è naturalmente più difficile risolvere nell'ipotesi di un'operazione, molto rischiosa, di una forza viva in Kosovo. Questo scenario presuppone - oltre alla collaborazione dei due stati già implicati, l'Albania, messa largamente a disposizione in questi giorni, e la Macedonia, desiderosa di essere ammessa alla NATO - l'entrata in scena di paesi come l'Ungheria, la Bosnia, la Grecia e anche la Bulgaria, invitati a fornire, in un modo o nell'altro, un sostegno logistico a un'opzione militare della NATO che potrebbe, di conseguenza, andare oltre al solo teatro jugoslavo. Infine, la catena di comando di una tale forza, a seconda del fatto che essa si riproponga fini di sicurezza, di interposizione a fini umanitari, di ristabilimento della pace o di invasione, ha una grande importanza. Ci potrà essere un "comando duale" della NATO e di un'altra organizzazione (ONU, OSCE o un'altra ancora) - come nei primi tempi in Bosnia, dove si sono evidenziati dei disfunzionamenti gravi - oppure bisognerà accontentarsi della bandiera della NATO, sotto la quale si svolgono gli attuali bombardamenti, con il rischio di aggravare le divergenze politiche con le altre istituzioni della comunità internazionale? La domanda è lontana dall'essere innocente e la risposta che riceverà darà il suo senso a questa missione. (traduzione di A. Ferrario) |