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![]() NOTIZIE EST #223 - CROAZIA/SERBIA 13 maggio 1999 GLI ALTRI PROFUGHI di Daniel Williams - ("Washington Post", 10 maggio 1999) BELGRADO - Decine di migliaia di profughi balcanici vivono a Belgrado e nei suoi dintorni, persone scacciate dalle loro case in una guerra di violente espulsioni di massa e che ora si domandano se potranno mai farvi ritorno. Non sono albanesi, ma serbi che sono fuggiti dalla vicina Croazia durante l'aspro e sanguinoso conflitto che ha visto lo stato croato, appena divenuto indipendente, muoversi contro forze nazionaliste serbe della Croazia, appoggiate dall'esercito a guida serba dell'ex federazione jugoslava. L'esodo di massa è avvenuto nel 1995, quando l'esercito croato è diventato sufficientemente forte per devastare la regione della Krajina, nella Croazia sudorientale, dove i serbi avevano dato vita a un governo nei fatti autonomo. Circa 300.000 serbi della Krajina sono fuggiti dalle loro case e dalle loro terre - molte delle quali occupate da secoli dalle loro famiglie - e hanno trovato rifugio nella parte orientale della Serbia, la repubblica dominante della Jugoslavia. [...] La presenza dei serbi della Krajina qui a Belgrado è una testimonianza indiretta di quali difficoltà le centinaia di migliaia di profughi albanesi del Kosovo potranno incontrare nel tornare alle loro terre dai loro rifugi in Macedonia e Albania. I profughi di molte guerre distruttive - in particolare quelle ispirate da passioni etniche - finiscono per l'accorgersi che non è possibile tornare a casa, e nessuno lo sa meglio dei serbi della Krajina. Molti di coloro che sono qui e che vorrebbero tornare alle case dei loro avi non possono farlo per una combinazione di lentezze intenzionali da parte del governo croato e di timori da parte loro di essere soggetti a violenze se dovessero ritornare. "Se devo basarmi sulla mia esperienza, devo dire che la gente del Kosovo avrà grandi difficoltà", ha detto Boris Devic, 23 anni, un profugo della città di Knin, un tempo capitale della Krajina controllata dai serbi. "Una volta che si verifica questo tipo di guerra, è difficile tornare indietro". I genitori di Devic hanno fatto di recente richiesta di rimpatrio attraverso l'Agenzia dell'ONU per i Rifugiati, ma la Croazia ha congelato le domande per il periodo in cui il conflitto in Kosovo è in corso. "Sembra che se non va bene una scusa, ne trovano un'altra", ha detto Devic nel suo baracchino all'aperto a Belgrado, dove vende magliette. Fino all'anno scorso, la Croazia ha posto continui ostacoli burocratici che rendono molto difficile ai profughi serbi fare richiesta di rimpatrio. Per un certo periodo, è stato necessario presentare le domande in prima persona in Croazia e per farlo c'era bisogno di un passaporto. Per ottenere un passaporto ci voleva una carta d'identità, che poteva essere ottenuta solo nel luogo di nascita in Croazia della persona in questione - ma era impossibile recarvisi se la persona non aveva un passaporto. Successivamente, la Croazia ha accettato di accogliere domande individuali per il ricongiungimento famigliare - vale a dire, da profughi con parenti in Croazia che li invitavano a tornare. Si trattava di una soluzione che ha drasticamente limitato i numeri, perché in Croazia sono rimasti pochi serbi, soprattutto nella Krajina, dopo il 1995. L'anno scorso, su pressioni dell'Unione Europea, la Croazia ha cominciato ad accettare domande senza restrizioni attraverso l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ma fino a oggi solo 2.900 persone hanno potuto rimpatriare. Il motivo principale per cui sembra che non vi sia una grande fretta di tornare è la paura. Devic e la sua famiglia sono fuggiti da Knin mentre la città veniva bombardata dall'esercito croato; nel corso del loro viaggio attraverso la Bosnia in direzione della Serbia, il loro convoglio è stato a sua volta bombardato. "Anche se otteniamo il permesso, ci pensiamo due volte prima di andare", racconta. "Dobbiamo prima assicurarci che sia finito con quello che ci è successo - e inoltre persuadere noi stessi che i croati ci accoglieranno davvero". Dragan Midkovic, di 16 anni, è diventato anche lui un profugo quattro anni fa, quando all'età di 12 anni ha guidato il trattore che ha portato sua madre e sua nonna fuori dalla Krajina fino in Serbia; suo padre era morto due anni prima. "Ora tutti ci hanno dimenticati", ha detto. "Sento compassione per gli albanesi del Kosovo. Ma sono anche stupito che loro ottengano tanta attenzione". Midkovic e la sua famiglia hanno dovuto chiedere la carità per procurarsi cibo durante il lungo tragitto del loro esilio, e in svariate occasioni granate o bombe sono piovute sul loro convoglio di profughi. "Sotto alcuni aspetti siamo come gli albanesi [del Kosovo]: volevamo l'indipendenza, così come la vogliono loro", ha detto. "Se noi abbiamo sbagliato, hanno sbagliato anche loro. Se loro avevano ragione, allora avevamo ragione anche noi. Ma non penso che nessuno ci aiuterà a tornare a casa presto". Come molti profughi serbi a Belgrado, la famiglia di Midkovic vive in un piccolo appartamento in affitto - e la loro capacità di pagare l'affitto è limitata dai bassi stipendi e dalla scarsità di lavoro. Alcuni vivono ancora in campi profughi organizzati in basi militari non utilizzate e il governo di Belgrado ha affermato che bombe della NATO hanno colpito alcuni di loro. In ogni caso, la madre di Midkovic, Dragica, non è ansiosa di tornare in Croazia, nonostante qui debba sbarcare il lunario in un negozio di generi alimentari, al quale si aggiungono un po' di soldi dal governo di Belgrado e aiuti da un gruppo umanitario tedesco. "Non tornerei nemmeno se mi offrissero una villa lussuosa; ci odiavano là", ha detto. "Qualcuno ha occupato la nostra casa. Dove potremmo vivere?". Anche il giovane Dragan è convinto che sia inutile pensare a ritornare. "Nel giro di 10 anni si ripresenteranno ancora gli stessi problemi", afferma. SEGNALI DI RIVOLTA NEI CAMPI PROFUGHI IN MACEDONIA Il quotidiano macedone "Nova Makedonija" ha riportato nel suo numero del 12 maggio la notizia di una situazione prossima alla rivolta nel campo profughi di Stankovec, che, progettato per accogliere 30.000 persone, ne ospita almeno il doppio. Almeno 4.000 profughi si sono radunati ribellandosi energicamente contro la brutalità della polizia, intervenuta per impedire a un profugo di uscire dal campo scavalcando il filo spinato [sic]. La situazione rischiava di degenerare e si è pacificata solo con la mediazione degli operatori umanitari presenti nel campo. I profughi si lamentano della brutalità della polizia, dell'impossibilità di potere entrare e uscire liberamente dal campo, della scarsità di acqua e delle condizioni igieniche disastrose, e chiedono inoltre di potere tornare in Kosovo. Le autorità macedoni hanno accennato, senza dare alcun particolare, al fatto che l'agitazione sia dovuta a "elementi esterni", secondo il capo delle forze di polizia che sorvegliano il campo, "appartenenti alla NATO". |